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Telegiornaliste anno II N. 26 (58) del 3 luglio 2006


MONITOR Flavia Fratello, dalla carta al monitor di Nicola Pistoia

Questa settimana abbiamo incontrato Flavia Fratello, giornalista televisiva, che ci ha raccontato la sua carriera, iniziata nella carta stampata per un piccolo quotidiano di provincia, e che l'ha portata a diventare uno dei volti più noti di La7.
Come e quando è nata questa passione per il giornalismo?
«Da un estate di vent'anni fa quando per guadagnare qualcosa mentre facevo l'università fui chiamata dal caporedattore della Gazzetta di Carpi a collaborare al giornale. Non lo conoscevo, il mio nome lo ebbe da un'amica comune. Provai e pensai che non mi ero mai divertita tanto. E così continuai».
È più facile fare la giornalista televisiva, lavorare nella carta stampata o in radio?
«E' più facile lavorare alla radio, nel senso che non dipendi da nessuno, al contrario della televisione dove devi giostrarti fra operatori, montatori o, se sei in studio, con scenografie, luci, registi... A volte sono loro che aiutano te, e devi essere molto grata. Ma talvolta capita che non ti seguano, e allora è un disastro, fai il doppio della fatica.
Il giornale ha tempi diversi, se fai un errore resta per sempre, però non hai l'ansia della diretta. Il pezzo almeno lo puoi rileggere!».
Donna e mamma: un binomio tanto abusato da aver convinto tutti, donne comprese, che se non si è mamme non si è "complete": Flavia, lo pensi anche tu?
«E allora perché non uomo e padre? La maternità è certamente un'esperienza importantissima ma non essenziale, anche se sono contenta di averla potuta vivere. Ma non mi passerebbe mai per la testa di giudicare "incompleta" una donna che per scelta o per caso non abbia avuto figli. Così come non riterrei tale un uomo. Ci vogliono padre e madre per fare un bambino. Dunque la valutazione dovrebbe essere uguale. Fra l'altro non è certo stato portare mio figlio per nove mesi a rendermi madre.
Ma l'averlo accudito ed amato giorno per giorno».
Come riesci a conciliare carriera e vita privata?
«Organizzandomi. E mettendo a tacere i sensi di colpa. In entrambi i sensi».
La7 rappresenta il terzo polo televisivo italiano: quale credi sia il ruolo del Tg La7 oggi, al confronto degli altri telegiornali nazionali?
«Io credo che chi guarda il nostro tg lo faccia sapendo, o sperando, di trovarsi di fronte ad un prodotto meno condizionato di altri. In ogni senso.
L'imparzialità è stata fin dall'inizio la cifra del Tg La7, unita ad una grande attenzione per temi spesso ignorati dagli altri, come quelli di cronaca e politica estera. Così, pure per ciò che riguarda la cronaca, la scelta di fare un pezzo o meno non è mai stata fine a se stessa, ma sempre legata alla possibilità di raccontare un fenomeno, una tendenza, e non solo a far inorridire o rabbrividire il pubblico. Altrettanto dicasi per gli spettacoli.
C'è chi ritiene il nostro tg un po' snob. Io credo che sia semplicemente un'offerta diversa rispetto ad un panorama abbastanza uniforme verso il basso».
Continuando a parlare di telegiornali: quali sono quelli che non ti piacciono? Perché?
«In generale non mi piacciono i servizi retorici. Quelli morbosi, quelli che potrebbero essere spiritosi e sono invece seriosissimi. Li trovi in tutti i tg, talvolta anche nel nostro. Ma un po' più spesso in Studio Aperto».
Anche nel giornalismo esiste il luogo comune secondo cui solo chi è bello va avanti...
«Non è un luogo comune: numerose ricerche hanno dimostrato che le persone più belle fanno carriera più velocemente, guadagnano in proporzione di più, eccetera.
E questo avviene in quasi tutti i campi. Non è mia intenzione stare qui a discutere se sia un bene o no, se sia moralmente accettabile, quali siano le ragioni, se sia una novità o se sia tutto sommato sempre stato cosi (solo che ora si nota di più).
Ciò che posso dire è che fortunatamente non si tratta di una verità assoluta. E che è verissimo che essere belli non basta, perché una bella e scema sarà superata da una o uno bello e intelligente. E che belli lo si può anche diventare. Truccatori e parrucchieri fanno miracoli, un look appropriato anche. La sicurezza nelle proprie capacità più di tutto in assoluto.
E' evidente che dove si lavora sull'immagine, l'immagine conta. A volte più di uno scoop. Ma è anche vero che a una o a un giornalista si chiede soprattutto di essere credibile, informato e attendibile. Se poi è anche passabile è meglio».
Chi delle tue colleghe, anche di altri tg, apprezzi maggiormente?
«Mi piace una conduzione coinvolgente, calda, partecipe. Mi piace moltissimo Cesara Buonamici, mi piace Maria Luisa Busi; delle mie colleghe non posso ovviamente che parlare bene».
Scambieresti il tuo ruolo di conduttrice del tg con quello di inviata di guerra?
«Da quando lavoro in televisione (estate 1991, tg di Videomusic), ho sempre alternato periodi di conduzione (sia del telegiornale che di trasmissioni) a periodi di lavoro sul campo. Sono entrambi entusiasmanti e gratificanti, anche se alla guerra vera e propria non sono mai arrivata. Ma non è detto che non possa capitare in futuro. Il nostro è un lavoro dove la casualità ha un peso notevole, dunque nessuna preclusione».
Qualche consiglio ai tantissimi ragazzi che come te vorrebbero intraprendere questa carriera?
«Consigli? Se potete, fate la gavetta nei giornali locali. Iniziate dal basso, avrete più spazi, più tempo per capire se e cosa davvero vi piace, più tempo per imparare. Se pensate di iniziare subito al Tg1, o avete ottime "spinte" o siete un po' supponenti. Il che in effetti non guasta. Ma in minime dosi».
CRONACA IN ROSA Somalia, la pace lontana di Tiziana Ambrosi

Il conflitto civile in Somalia dura ormai da quindici anni. Pochi i momenti di tranquillità vissuti da questa terra: dal controllo egiziano alla fine dell'Ottocento alla sottomissione all'Italia, nel breve periodo colonialista del nostro Paese. Negli anni '70 il generale Siad Barre, filosovietico, assume il potere con un colpo di stato. La situazione è mal sopportata dalle fazioni e dai clan locali che si alleano e che, nel 1991, abbattono il regime. Si aprono scontri per la successione al potere che coinvolgono la popolazione civile. Nei primi anni '90 le vittime ufficiali del conflitto sono 350.000.
Vengono inviati i marines a fare da "apripista" ai Caschi blu dell'ONU, ma la situazione è difficile. Nel giro di tre anni i contingenti stranieri vengono ritirati (un affresco delle difficoltà del conflitto si trova nel film Black Hawk Down, di Ridley Scott) e nel Paese regna il caos più totale.
Cominciano gli anni dei "signori della guerra" e di Aidid in particolare che si proclama presidente, ma non è riconosciuto dalle altre fazioni.
L'inesistenza di un potere centrale fa da supporto all'impunità generale: i Warlords finanziano le milizie con il traffico di armi, il saccheggio, la droga, i rapimenti. I civili vengono coinvolti in una battaglia più grande di loro.
Solo tre settimane fa il capovolgimento della situazione, con la caduta di Mogadiscio e i signori della guerra in fuga. La capitale ora è controllata dalle Corti islamiche, un'organizzazione armata che si ispira al Corano.
Uno scacco alla politica americana che supportava l'Alleanza contro il terrorismo formata dai signori della guerra e che ora accusa i nuovi padroni di proteggere membri di Al Qaeda.
Ma il timore più grande è che la Somalia possa diventare una nuova culla del fondamentalismo islamico, paura avvalorata da alcune dichiarazioni rilasciate dal leader delle Corti Shek Sharif Shek Ahmed: «La legge coranica è una buona cosa per la Somalia. Qui dopo l’indipendenza abbiamo sperimentato la democrazia. È stato un fallimento». E conclude: «La Sharia ci può dare sicurezza e può far ripartire l’economia».
Una situazione delicata che si fa sempre più incandescente: da una parte l'eterogeneità di questo gruppo costituito tanto da estremisti quanto da filoni più moderati, con conseguenti lotte intestine; dall'altra, una situazione caotica e quasi di guerriglia che non risparmia vittime. Sono ancora impresse nella mente le immagini dell’uccisione del reporter svedese Martin Adler, freddato durante una manifestazione a Mogadiscio.
Intanto le Corti islamiche denunciano lo sconfinamento di truppe etiopi. L'impressione è quella di una bomba ad orologeria sul punto di scoppiare.
La Somalia che ci ha raccontato Ilaria Alpi deve ancora trovare la strada della pace.
FORMAT MEDIA & MINORI Minorenni tra i frames di Serenella Medori

Forse a credere alla tv sono rimasti i minorenni. Forse.
Gli adulti credono nella libertà sotto qualsiasi forma, credono nell’uguaglianza purché non danneggi un uomo a vantaggio di una donna e purché non danneggi una mamma a vantaggio del papà. Gli adulti credono nell’uguaglianza e promuovono le quote rosa, credono nella parità dei diritti, anche in quelli del Crocifisso. Non è dato sapere quanto credano ancora nella politica ma difendono le proprie idee nei circoli, alle cene sociali o private. Non si sa quanto ancora credano nel Festival di Sanremo, ma continuano per tenersi occupati con i commenti nelle settimane successive.
Di sicuro gli adulti credono nel calcio, nella mucca pazza, nella lingua blu, nell’aviaria. Questo è facile da verificare: basta controllare i dati relativi al crollo delle vendite di carne bovina, ovina e avicola nei primi cinque anni del nuovo millennio.
Gli adulti credono ai propri figli. Gli adulti credono nei propri figli, ci credono talmente tanto che orde di studiosi, psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, assistenti sociali, medici, sacerdoti e presentatori tv hanno dato vita alla campagna in favore del "No", quel "No" detto al momento giusto, quel "No" che fa crescere.
Gli stessi studiosi ammettono che proprio i figli, soprattutto i minorenni, sono forse rimasti gli unici a credere che «Se lo dice la Tv allora è vero». Magrissimo è bello, la merendina è meglio di un panino - a meno che non sia quello di McDonald's o quello con la Nutella -, le Bratz sono meglio di Barbie e sporcare tutta la casa va bene, basta avere il giusto smacchiatore universale. Sono pochi i genitori che riescono ancora a dire «No» con una certa fermezza, mentre molti cedono alle richieste dei figli, specie se molto piccoli, o molto abili.
I pubblicitari questo lo sanno e tutto si traduce in «Il figlio chiede e i genitori acquistano». Con la crescita il figlio diventa genitore e libero di acquistare ciò che vuole, finalmente! Smettete dunque di chiedervi perché il vostro amico o la vostra amica ha una quantità industriale di scarpe, borse, libri che non ha mai usato.
Inutile chiedersi perché il nostro vicino di casa arrivi con l’auto che cede sotto il peso di venti confezioni da otto di succo di frutta, succo che i suoi figli non riusciranno mai a bere perché nel frattempo sarà scaduto! Forse con la raccolta di punti riuscirà ad avere quello splendido zainetto.
Con la marca del succo stampata sopra...
(14-continua)
FORMAT Storie sotto il sole di Nicola Pistoia

Per i palinsesti di Rai e Mediaset l’estate 2006 sarà decisamente rovente.
In particolare ci riferiamo ai vecchi e nuovi telefilm che animeranno i due principali poli televisivi in un periodo che non punta a sfiorare i picchi di ascolto raggiunti durante la stagione invernale, ma che si propone di offrire valide alternative a chi non vuole (o non può) andare al mare.
Partiamo proprio dalla tv di Stato. Nonostante il dissenso dei vertici di viale Mazzini sull'includere nei palinsesti giornalieri famosi serial o sit-com, oggi la Rai è costretta a combattere una dura lotta con la diretta concorrente, e offre quindi una vasta scelta di telefilm.
Mai nella storia della televisione un telefilm con protagoniste femminili era durato più a lungo (otto anni, 178 episodi), neppure Charlie’s Angels. Ora la serie conclusiva di Streghe viene trasmessa da Raidue ogni giovedì.
Vi ricordate Friends? Quel gruppo di sei amici alle prese con i problemi più disparati? Uno di loro ha fatto carriera: un po’ come succede tra i cantanti, ha deciso di mettersi in proprio. Matt LeBlanc è infatti il protagonista del nuovo telefilm di Rai 2 - in onda dal lunedì al venerdi alle 18.50- dal titolo Joey.
Questo serial è stato pensato, dopo la chiusura di Friends, per raccontare la nuova vita di Joey Tribbiani, col suo sogno di diventare una star di Hollywood.
Sempre la seconda rete propone lo spassosissimo Due uomini e mezzo: uno dei telefilm più visti in America. Il protagonista è lo scapolo Charlie costretto a cambiare vita quando suo fratello e il nipotino decidono di trasferirsi da lui. La serie va in onda ogni giorno alle 19.15.
Non mancano poi le repliche dei grandi telefilm, come quelle de Il commissario Rex, che nonostante tutto riescono a totalizzare oltre due milioni di telespettatori.
La prossima vi racconteremo le novità e le gradite conferme di Mediaset.
(1-continua)
ELZEVIRO Arte e cultura: gli appuntamenti dell’estate italiana di Gisella Gallenca

L’estate è ormai cominciata. E anche quest’anno la creatività e il fermento artistico non vanno in vacanza, ma rimangono ad animare le giornate di coloro per cui il relax non è solo divertimento, ma anche un’occasione per vedere, conoscere e soddisfare la propria curiosità.
Numerose sono le mostre organizzate nelle città e nelle province del nostro Paese che rimarranno aperte per i mesi di luglio e di agosto. Forse vale la pena di approfittare delle ore libere, per regalarsi un attimo di distrazione dai problemi della quotidianità.
In questi giorni, ad esempio, sono in corso due eventi di grande prestigio che danno al grande pubblico la possibilità di vedere da vicino la pittura di alcuni maestri del Novecento.
A Mamiano di Traversetolo, in provincia di Parma, sarà aperta, fino al 16 di luglio, la mostra Da Monet a Boltanski: Capolavori del ‘900 dal Musée d’Art Moderne di Saint-Etienne, presso la Fondazione Magnani-Rocca. Un lungo percorso, che accompagna il visitatore alla scoperta di uno tra i più fertili periodi della storia dell’arte. Si parte da Monet, per giungere ai protagonisti contemporanei attraverso le opere scelte dal direttore del Musée di Saint-Etienne, Lóránd Hegyi. Tra i lavori esposti troviamo anche quelli di Louis Marcoussis, rappresentante del Cubismo, Jaques Villon, fratello di Duchamp, Francis Picabia e ancora Victor Brauner, con quattro capolavori surrealisti, Hans Hartung, con la sua pittura gestuale, Andy Warhol e Roy Lichtenstein, per finire con Christian Boltanski.
A Venezia, invece, presso la Collezione Peggy Guggenheim si terrà fino al 24 settembre l’attesissima mostra Lucio Fontana. Venezia/New York.
Oltre ad alcune celebri tele dell’artista, troviamo alcuni pezzi unici, come le cosiddette “venezie”: una serie di lavori in cui Fontana adotta, per la prima volta, titoli poetici dedicati in maniera esplicita a una città. Segue la serie “New York” insieme a inediti materiali d’archivio, disegni e ritratti fotografici. Saranno comunque le due serie, preziose e, per certi versi inedite, a diventare emblema di rappresentazione delle due città: un fatto che certamente desterà nel pubblico grande interesse e una certa novità.
Tra le esposizioni più curiose, infine, troviamo Vrooooom! Italia in Moto. 100 Anni di Arte, Costume e Design, fino al 3 settembre a Riccione, presso gli spazi espositivi di Villa Mussolini.
Un percorso lungo un secolo, illustrato da manifesti d’epoca, fotografie storiche e da una spettacolare sequenza di opere d’arte ispirate alle moto e al loro mito (fra cui spiccano artisti come Balla, Dottori, Sironi, Funi e Depero). E poi le moto, vere protagoniste di questo evento: dai modelli storici fino quelli più attuali, per raccontare in modo inedito un secolo di storia, di cambiamenti e di evoluzione tecnologica e sociale.
DONNE Ambiente, la speranza sono i giovani di Antonella Lombardi

Dal 1975 il Fai, Fondo per l’ambiente italiano, si occupa di salvaguardare e tutelare il patrimonio naturale e artistico del nostro Paese. La presidentessa del Fai Giulia Maria Mozzoni Crespi ha raccontato ai microfoni di Telegiornaliste la missione del Fai, tra sacrifici, conquiste e progetti.
Questa settimana abbiamo intervistato Giulia Miloro, capo della delegazione Fai Messina; con lei parliamo di tutela ambientale al Sud.
Come nasce il suo interesse per l’ambiente e il suo impegno nella delegazione Fai Messina?
«Nasce con me, vivo in una città meravigliosa dove il mare e la natura sono due componenti essenziali e questa situazione viene vissuta dai messinesi come un dato di fatto. Mi sono resa conto che, se questo per me è uno stimolo al rispetto ed alla salvaguardia di ciò che mi circonda, molti sono invece totalmente indifferenti. Il Fai mi ha dato l’opportunità di far aprire gli occhi ai miei concittadini, attirando la loro attenzione su cosa li circonda, sui beni artistici di notevole valore storico che il terremoto ci ha lasciato».
Vuol dirci qualcosa della sua esperienza femminile, a capo di una delegazione Fai? Ritiene sia più difficile per una donna?
«L’inizio è stato difficilissimo, non perché sono donna, ma perché il Fai era totalmente sconosciuto. Ho cominciato presentandomi nei vari uffici per far conoscere la fondazione e contemporaneamente organizzare la Giornata di Primavera. A Messina sono conosciuta, ho un aspetto dolce e rassicurante e mi hanno accolto con serenità, pensando che li avrei lasciati nell’oblio; invece ho cominciato a chiedere permessi impossibili per la loro incompetenza e inettitudine. Mi hanno ostacolata in tutti i modi, con risultati pessimi per loro; hanno pensato che in poche centinaia avrebbero scoperto la loro inettitudine, ma, ahimè, l'hanno scoperta migliaia e migliaia di persone».
E’ più arduo, al Sud, far capire il concetto di tutela ambientale?
«E’ un atteggiamento atavico, sembra che la fortuna di vivere in posti meravigliosi ci sia dovuta e non ci rendiamo conto che tutto deve essere amato, curato e protetto tutti i giorni. Niente rimane per sempre, senza amore».
Come vede il futuro dell’ambiente al Sud? Quanto incidono, secondo lei, sulle possibilità di sviluppo, gli abusi edilizi e i recenti condoni?
«Se me lo avesse chiesto ieri sarei stata più ottimista; purtroppo l’interesse del singolo, politico o potente che sia, prevarica tutto. Anche la stampa, purtroppo, alcune volte tace. Spero nelle nuove generazioni. Il Fai, come lei sa, lavora con le scuole e qui ho avuto risultati meravigliosi per la Giornata di Primavera: i ragazzi fanno a gara per lavorare con noi. I giovani hanno scoperto la loro città e so che stimolano i loro genitori a protestare. La speranza sono loro».
DONNE Eva Maria Duarte, Evita Perón di Stefania Trivigno

Argentina, primi anni Venti: la situazione politica, tra elezioni truccate e golpe militari, crea un profondo divario sociale ed economico nella popolazione: da una parte i pochi, ricchi proprietari terrieri; dall’altra la folta schiera dei poveri appartenenti alle classi sociali medio-basse.
Fra queste, anche la famiglia della piccola Eva Maria Duarte, orfana di padre e costretta a un lungo periodo di miserie e sofferenze.
 Nessuna possibilità di riscatto. Nel paese natale non c’è posto per chi non vuole accontentarsi della quotidianità, né per chi sogna un futuro migliore.
Per questo motivo, non ancora maggiorenne, Eva si trasferisce a Buenos Aires dove si trova, però, a dover fare i conti con una realtà che non è la sua.
La grande città è spesso sinonimo di difficoltà a inserirsi in un contesto tutto nuovo, soprattutto quando, almeno all’inizio, sembra dimostrare soltanto indifferenza e ostilità.
Eva però ha un carattere forte. Ha personalità e coraggio. E non si lascia mettere in ginocchio neanche quando la sua serenità rischia di essere intaccata dai pettegolezzi. Accade quando, in un bar della capitale, incontra il cantante di tango Augustin Magaldi. L’uomo la aiuta a sfondare nel mondo del cinema e della radio. Interpreta una piccola parte nel film La señora de Pérez e lavora per Radio el Mundo.
Arrivano presto la popolarità, ma anche le malignità: il successo della donna sarà attribuito alla sua relazione con il cantante.
Per Eva la vera svolta arriva qualche anno dopo, durante una raccolta di fondi destinati alle vittime del terremoto che ha raso al suolo la città di San Juan. E’ in questa occasione, infatti, che la donna incontra il colonnello Juan Domingo Perón, allora all’inizio della carriera politica.
La leggenda, o meglio, le dicerie vogliono che fra i due si sia trattato di un vero colpo di fulmine. Fatto sta che Juan Domingo ed Eva si sposeranno l’anno successivo.
Nel 1946 arriva la prima vittoria del colonnello Perón alle elezioni presidenziali, ed Eva, che da questo momento in poi sarà chiamata affettuosamente Evita dalla "sua" gente, intensifica il suo impegno nel sociale.
Evita Perón diviene portavoce delle classi operaie, prendendo a cuore i lavoratori, i meno abbienti e le donne. Si batte per la costruzione di strutture ospedaliere e di scuole. Lotta per ottenere il suffragio universale esteso anche alle donne, conquista che arriverà nel 1947.
E non si ferma qui: Evita fa sua la passione politica del marito e, grazie all’appoggio delle donne e dei lavoratori, gli assicura la seconda vittoria nel 1951.
Al termine di un'odissea politica, fatta di alti e bassi, comunque vittoriosa per i coniugi Perón, Evita inizia a rendersi conto di essere malata: Evita si spegne nel 1952, a soli 33 anni di età.
L'Argentina non l’hai mai dimenticata: in suo onore sono stati scritti libri, girati film e dedicate città.
Sono passati più di cinquanta anni dalla sua morte, ma il suo impegno politico, la sua passione per il sociale, le sue interminabili lotte per riscattare i meno fortunati sono sopravvissute al cambio generazionale.
TELEGIORNALISTI Scarpe buone e un quaderno di appunti di Antonella Lombardi

Giornalista di lungo corso della carta stampata, napoletano, Niki Barbati si è occupato per oltre dieci anni di televisione e, in precedenza, di cronaca. Ha lavorato al Messaggero Veneto, al Tempo, e ora è vice caposervizio degli interni al Messaggero di Roma. Ha seguito gli anni di piombo della cronaca italiana, la nascita della tv commerciale e, ora, seppure saltuariamente, anche lo sport.
Ricorda, divertito, di quando gli show di Benigni e Celentano lo “costringevano” a riscrivere in fretta gli articoli per diverse volte…
Come hai iniziato?
«Accedere alla professione giornalistica è una delle cose più difficili da ottenere. La mia gavetta inizia da un giornale di provincia, il Messaggero Veneto, a Udine. Lì riempivamo sei pagine di cronaca per una città di 80.000 abitanti. Una gavetta nel vero senso della parola: non è facile misurarsi con l'esigenza quotidiana di trovare notizie di bianca o di nera e riempire tante pagine per una cittadina tranquilla. Così ho fatto l’emigrante, da Napoli a Udine, nonostante la scuola napoletana del giornalismo abbia padri illustri, basti pensare a firme come Antonio Ghirelli, Gino Palumbo, Carlo Nazzaro, storico direttore del Roma e Mario Stefanile, famoso critico letterario».
Di cosa si occupa il vice caposervizio degli interni?
«Durante la quotidiana riunione di redazione decide con altri quali sono gli argomenti da privilegiare nelle varie sezioni, poi coordina, impagina e titola, cercando di organizzare le notizie nella pagina con una certa coerenza».
Tutto ciò in tempi folli…
«Sì, i tempi sono strettissimi. Meno in alcune parti della giornata, ma quando si avvicina l’orario di chiusura si deve andare a tamburo battente. Grazie al computer è possibile cambiare il giornale a una velocità prima impensabile».
Questo processo vi permette di stare molto di più sulla notizia…
«Si, è uno dei pochissimi meriti del computer».
Mai capitato di non fare in tempo o non sapere come chiudere un pezzo?
«No, non può capitare, altrimenti cambi mestiere».
Dopo Udine sei andato a Roma…
«Sì, qui ho seguito le vicende legate alle Brigate Rosse, i famosi anni di piombo, quando c’era un morto al giorno. Ricordo che quando arrestarono la Mambro uscii dalla redazione la mattina per la segnalazione di una banalissima rapina alle poste a Roma ma, strada facendo, si capiva che non poteva trattarsi di una semplice rapina e che dietro c’erano i NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari); c’era stato un conflitto a fuoco e lei era stata ferita… Sono tornato al giornale la sera alle 22.00 e, una volta arrivato, ho dovuto scrivere al volo tutto quanto».
Come si riesce a registrare gli eventi senza farsi coinvolgere troppo emotivamente?
«E’ una capacità che si acquisisce col tempo e che il giornalista deve avere. Bisogna separare le emozioni dal proprio lavoro. Non è piacevole per nessuno vedere ciò che resta del cadavere di un uomo che si è gettato dal sesto piano di un palazzo».
Serve un pizzico di cinismo?
«No, non c’è nessun cinismo, perché un professionista è capace di mettere da parte le emozioni e raccontare quello che è successo».
Ci sono episodi di cronaca che ti hanno colpito particolarmente?
«In genere i casi che riguardano i bambini, come Cogne o i due fratellini di Gravina scomparsi; oppure grandi eventi come il crollo delle Torri Gemelle o la morte di Papa Wojtyla; un evento nel vero senso della parola, sia dal punto di vista religioso che giornalistico».
Non credi che, nel caso di Cogne, ci sia stata un’esagerazione, magari da una certa parte dell’informazione che ha trasformato quel caso in uno show, sacrificando la notizia?
«Bisogna distinguere i giornali e i tg dai talk show e dai rotocalchi. Non credo si sia esagerato. La gente voleva sapere cosa era successo; adesso è stanca, perché nel frattempo la notizia è diventata vecchia, ma è così per tutti i fatti di cronaca, il nostro compito è informare l’opinione pubblica nel momento in cui un fatto succede, sta al lettore la scelta di cambiare pagina o canale, se questa non gli interessa».
Spesso si dice che nel modo di fare oggi giornalismo si fa meno cronaca e si passa più tempo davanti al monitor di un computer, consumando meno le suole delle scarpe per andare in giro a cercare la notizia. E’ così?
«No, non è vero. Un giornale come il Messaggero vende soprattutto grazie alla cronaca e allo sport. Gli eventi della città vanno seguiti consumando le proprie scarpe, sfruttando tutti i contatti utili che si hanno e, se non si fa così, il giorno dopo la differenza con le altre testate si nota. Non è un lavoro che si possa fare a tavolino.
Può capitare, quando si riceve una notizia da un posto fisicamente irraggiungibile, di dover rielaborare un’agenzia di stampa, ma è un’operazione che si sente, a meno che non si abbiano le capacità di uno scrittore come Dino Buzzati».
Nei vari passaggi da un settore all’altro del giornale, avevi un caporedattore che ti seguiva per spiegarti un po’ le cose?
«No, questo è un mestiere che si ruba agli altri: guardi, osservi, leggi e ti fai le ossa da solo, poi magari un articolo può venirti meglio di un altro ma è una cosa da mettere in conto. Però il professionista più anziano che ti consegna le chiavi della professione e i suoi trucchi c’è sempre, anche se non è una figura istituzionale».
Un bello stimolo…
«Sì, è un bello stimolo, ma a volte molto snervante. Quando stai chiudendo il giornale guardi le agenzie di stampa sperando che nel frattempo non sia successo nulla, per avere quantomeno il tempo di mandare in stampa quello che hai fatto, poi si rimette tutto in discussione. Nell’ultima mezz’ora preghi sempre che non succeda niente».
La sensazione che si ha dall’esterno dell’ambiente giornalistico è quella di un ambiente molto chiuso, dove a girare sono sempre i soliti nomi.
«Questa professione prima si tramandava di padre in figlio, adesso non più. Oggi ci sono i ragazzi che escono dalla scuole di giornalismo e poi quelli che scelgono la strada coraggiosa del free lance dove va avanti il migliore; è una strada rischiosa, ma come tutte le libere professioni, può dare le sue soddisfazioni».
Si è più liberi da free lance?
«Indubbiamente sì, ma si è anche più responsabili verso se stessi e non sempre è piacevole. Ogni giorno si devono avere idee nuove da proporre al giornale che può bocciarle tutte: in tal caso non ci si deve demoralizzare ma continuare ad essere propositivi».
Come vedi oggi questa precarizzazione nel giornalismo e perché adesso si fanno molti più scioperi di prima?
«E’ un braccio di ferro tra giornalisti ed editori e come tutte le lotte contrattuali alla fine troverà uno sbocco. Prima c’erano gli editori puri che si occupavano solamente dei giornali, adesso invece ci sono grandi capitali che, in parte, vengono dirottati nell’editoria».
Dopo la cronaca ti sei occupato di televisione.
«E’ stata un’esperienza divertentissima dove ho conosciuto un mondo totalmente nuovo. Erano gli anni in cui nasceva Mediaset, dell’arrivo a Canale 5 di personaggi come Raffaella Carrà e Pippo Baudo, e di Berlusconi che, all’epoca, era soltanto il proprietario della televisione…».
E’ vero che quando Benigni fece la sua “irruzione” a Fantastico mettendo in imbarazzo la Carrà hai dovuto rifare quattro volte il pezzo?
«Con Benigni non sai mai cosa succederà e cosa dirà, anche perché spesso non lo sa nemmeno lui… Chi, come me, si occupava di televisione, seguiva l’evento per poter fare poi il resoconto sul giornale. All’inizio si prepara subito un pezzo finto, mantenendosi sul vago per la prima edizione, poi guardi la tv e aggiorni di continuo il primo pezzo. Con Benigni e con Celentano lo stesso articolo si riscrive tre o quattro volte… Gli altri ridono e tu invece lavori mentre qualcuno pensa pure che ti stai divertendo!».
Adesso invece ti occupi di sport?
«Quando ci sono grandi eventi come le Olimpiadi o i Mondiali alcune persone vengono spostate per dare una mano nella redazione, ma non si occupano stabilmente di quello».
A proposito di sport, che idea ti sei fatto di Moggi e “calciopoli”?
«Succede un po’ dappertutto, non solamente in Italia. E’ accaduto anche in Germania e credo ci siano altri settori dove può accadere. Il calcio è molto più importante perché muove molti più soldi».
Non è irritante sentir dire: «si sapeva, ce lo aspettavamo». La gente comune, i tifosi sono sembrati delusi nel vedere così colpiti i valori fondanti dello sport…
«Però gli stessi tifosi che prima accusavano ora hanno almeno la soddisfazione di poter dire “lo sapevo!”. Adesso sono tutti attaccati al televisore a seguire la nazionale, anche perché lo scandalo ha riguardato, per fortuna, le strutture, i dirigenti, ma non i giocatori».
E come giudichi la dichiarazione di Cannavaro, corretta il giorno successivo?
«La dichiarazione di un giocatore tifoso, d’istinto».
Anche tu credi che per via di calciopoli tutti gli occhi saranno puntati sull’Italia?
«In realtà sì, non siamo molto amati all’estero, basti ricordare l’arbitro Moreno in Corea».
OLIMPIA La favola magica di Totò di Mario Basile

Ogni mondiale porta, inevitabilmente, alla ribalta un eroe. Un condottiero a cui la nazionale di turno, durante la kermesse iridata, affida il proprio destino, come se fosse dotato di poteri straordinari. Nella maggior parte dei casi sono i grandi giocatori a sobbarcarsi questa responsabilità. Altre volte, però, può capitare che arrivi l'eroe che non ti aspetti.
E così accadde sedici anni fa. Nessuno si aspettava che ai mondiali un ragazzo del Sud, appena sbarcato nel mondo del calcio che conta, avrebbe accompagnato non solo la nostra nazionale, ma un intero Paese verso quel sogno chiamato “Coppa del Mondo”.
Il suo nome è Salvatore Schillaci, ma per tutti fu subito Totò. Un nomignolo semplice destinato a diventare un’eco mondiale.
Infanzia difficile quella di Totò. Cresciuto a Palermo, nei quartieri del rione Capo prima e al Cep poi, dove, con una palla di stracci, comincia a tirar fuori quella tenacia che lo condurrà lontano.
Scuola? Manco a parlarne: la sua vita è il calcio. Anzi, il gol.
La carriera vera e propria inizia nel Messina. Qui incontra Zdenek Zeman e Franco Scoglio, uomini destinati a scrivere pagine importanti del nostro calcio e che saranno fondamentali per la sua crescita. Nel 1989, la svolta decisiva: Schillaci passa alla Juventus.
Al debutto nella massima serie, Totò sorprende tutti: quindici gol. Reti che convincono il ct Vicini a inserirlo nella truppa azzurra di Italia 90, dietro gente del calibro di Vialli, Serena, Carnevale, Mancini e Baggio. Il colpo di scena nella prima gara contro l’Austria: entra a dieci minuti dal termine e segna il gol della vittoria. La favola è appena cominciata.
Totò diventa titolare e segna gol a raffica: di testa contro la Cecoslovacchia, sinistro folgorante all’Uruguay, destro da opportunista contro l’Irlanda. E’ l’uomo del momento: i suoi occhi spiritati fanno breccia nel cuore della gente.
Il sogno svanisce in semifinale, contro l’Argentina di un Maradona talmente forte da saper battere praticamente da solo, seppure ai rigori, la migliore squadra del torneo. Stavolta non basta l’ennesima prodezza di Totò. Nella finale di consolazione contro l’Inghilterra, Schillaci trasforma il rigore che lo incorona capocannoniere e miglior giocatore del mondiale.
L’incantesimo però finisce lì. Al rientro in campionato Totò non è più lui. Bastano poche stagioni con in mezzo il passaggio all’Inter, tanti infortuni e diversi problemi familiari a spingerlo di nuovo nell’anonimato. Gli ultimi giorni di gloria li spende in Giappone, dove per tre anni fa felici i suoi nuovi tifosi dagli occhi a mandorla.
Nel 1997 smette di giocare e torna nella sua Palermo dove apre una scuola di calcio; poi cerca di nuovo le luci della ribalta con la partecipazione all’Isola dei famosi e le comparsate a Quelli che il calcio.
Nuova visibilità, con la gente che dimostra di volergli ancora bene. Sarà per la sua schiettezza, per la sua simpatia, per il suo aspetto “ringiovanito” o forse semplicemente perché è una leggenda vivente.
Grazie Totò, è sempre bello rivederti, ma quando eri in campo era tutta un’altra cosa.
EDITORIALE Arroganza nazionale di Silvia Grassetti

Ancora ai tempi della campagna elettorale per le politiche 2006, Silvio Berlusconi aveva definito “coglioni” quelli che non avessero votato per la cosiddetta “Casa delle libertà”. Libertà di dar fiato alle trombe, probabilmente.
Lo ha dimostrato Francesco Speroni, eurodeputato, leghista della vecchia scuola, quella che con Bossi e Miglio, tra gli altri, diede vita all’allora Lega Lombarda. Speroni è rimasto tanto scioccato dal “No” alla riforma costituzionale da sbottare: «Gli italiani fanno schifo».
Alla faccia del comportamento “onorevole”: abbiamo visto, anche di recente, i nostri parlamentari sbraitare, urlare, scalmanarsi. Senza ritegno.
E senza ritegno li vediamo sempre più spesso, intercettati che gridano “al complotto!”, indagati che urlano “è una congiura!”; li vediamo tentare di convincerci che il “qualcuno” di turno li perseguita per impedire loro il rinnovamento del Paese.
Diceva Enzo Biagi, qualche tempo fa, ma non tanto, che alle parole bisogna fare attenzione, che chi informa ha grande potere su chi è informato, e che per questo deve comportarsi in modo responsabile. Aveva ragione, e la sua riflessione può e deve essere trasportata nella politica: i politici hanno potere, e devono maneggiarlo senza offendere quelli che il potere l’hanno loro delegato.
In Italia non è forse più successo, dopo l’esperienza dell’Assemblea Costituente. “Mani pulite” e la Prima Repubblica ce lo mostrarono. Durante la Seconda Repubblica è però anche caduto il comune senso del pudore, sarà forse a causa della spettacolarizzazione che la tv permette e che qualcuno sa, sapeva, cavalcare. E allora, avanti Savoia, se mi è permessa una citazione quantomai attuale.
C’è il Mondiale a distrarci, ma lo stesso le ultime settimane hanno registrato l’ormai consueto tran tran di nomi illustri indagati e “sospettati di”: Storace, Daniela Fini, Dell’Utri, Salvatore Sottile.
C’è chi s’è inventato una battuta per definire un partito. Ma quella definizione sarebbe da estendere a tutta la politica odierna. Arroganza nazionale.
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