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Telegiornaliste anno III N. 23 (101) dell'11 giugno 2007


MONITOR Barbara Fichera, bellezza di Romagna di Giuseppe Bosso

Giornalista pubblicista dal 1999, Barbara Fichera è nata a Siracusa da padre siciliano e madre tedesca. Fin dall’infanzia ha girato il mondo, pur vivendo prevalentemente a Faenza, dove ha conseguito la maturità classica. Laureata in scienze politiche a Bologna, ha mosso i primi passi nel mondo del giornalismo collaborando con il quotidiano La Gazzetta di Ravenna (oggi Corriere Romagna), e con una emittente radiofonica, per poi venire assunta all'ufficio stampa della Coldiretti, inizialmente per la provincia di Ravenna e man mano per le altre province romagnole.
Contemporaneamente è passata a Telesanterno e a Telecentro, dove conduce il telegiornale.
Fa parte della redazione del programma Con i piedi per terra, condotto da Elisabetta Gori e Gabriella Pirazzini.
Il tuo programma è un viaggio alla scoperta dei mille sapori di una terra rinomata come l’Emilia Romagna: qual è il messaggio che cerchi di trasmettere e quale tipo di giornalismo cerchi di fare?
«Credo che si debba conoscere molto bene il settore, che non va assolutamente considerato, come fanno in molti, una sorta di “Disneyland”; è importante, invece, avere una conoscenza approfondita di una parte dell’economia alla quale, non dimentichiamolo, sono legati settori importanti e vitali per il nostro quotidiano, come l'alimentare. Il mio obiettivo è far conoscere alla gente l’agricoltura: dietro c’è gente che lavora sodo e fatica a fare reddito, vorrei sensibilizzare l’attenzione su queste problematiche ed altre che all’agricoltura sono connesse, dal rispetto per l’ambiente al problema energetico».
Che differenza hai riscontrato tra la conduzione del telegiornale e quella della trasmissione Con i piedi per terra?
«Sono due cose diverse. Nasco come giornalista agricola per Coldiretti e quindi ho sempre seguito in maniera approfondita le tematiche legate all’agricoltura, e condurre un programma come Con i per terra richiede una conoscenza specifica sul tema, mentre la conduzione del tg rappresenta l’informazione - tipo. Non so dirti quale preferisca tra i due, ma sicuramente ha richiesto per me un grosso lavoro occuparmi del tema agricoltura, avendo alle spalle una maturità classica».
Quanto è importante l’immagine in video per una delle tgiste più ammirate del nostro forum?
«Per me è importante il contenuto, quello che c’è dentro e quello che cerco di trasmettere al pubblico che mi segue. Certo, avere cura di sé e del proprio aspetto è importante per chi fa un lavoro che comporta una grande esposizione esterna, ma ti ripeto: è la bellezza interiore quella che conta».
Quali sono i commenti dei forumisti che ti sono piaciuti e quali meno?
«Certamente quelli incentrati più sui contenuti del mio lavoro che sulla forma…».
Quali sono le tue aspirazioni future?
«La mia vita professionale va benissimo così, spero di continuare a fare un lavoro che amo, ma al tempo stesso conciliarlo con la vita privata che per me è la cosa più importante».
MONITOR Adriana Santacroce di Giuseppe Bosso

Questa settimana incontriamo Adriana Santacroce. Giornalista professionista dal 2001, conduce la trasmissione di approfondimento politico Linea d’ombra sull’emittente Telenova.
Conduttrice di un programma di approfondimento politico. A livello nazionale, tranne qualche eccezione, piuttosto insolito, mentre nelle emittenti locali ha molte colleghe. Come mai, secondo lei?
«Bella domanda. Sicuramente è stato difficile anche, per esempio, nell’ambito del giornalismo sportivo dove comunque Paola Ferrari è riuscita ad imporsi bene. Non è stato facile guadagnarsi la stima degli interlocutori, ma pian piano penso di essere riuscita ad acquisire una certa credibilità. Penso che Telenova, in questo senso, abbia fatto una buona scuola».
In futuro pensa di “scendere in campo” come ha fatto la sua collega Lilli Gruber, impegnandosi direttamente in politica?
«No, assolutamente. Mi sta bene così: fare questo lavoro, che amo, e farlo bene».
Qual è il segreto per riuscire a condurre un programma incentrato sulla politica mantenendo un atteggiamento imparziale?
«Partiamo dal presupposto, in cui credo molto, che tutti hanno diritto di avere i loro spazi ed esprimere le loro opinioni, anche su temi molto scottanti come i Pacs e le relazioni omosessuali. Il giornalista che si occupa di politica, secondo me, deve essere bravo a “fare le pulci”, se così si può dire, soprattutto a chi governa, a prescindere dallo schieramento politico a cui appartiene, proprio perché lo spettatore-elettore deve essere in grado di capire se colui che ha votato sia in grado di mantenere quello che ha promesso in campagna elettorale. L’ironia aiuta in questi casi».
Leggendo sul nostro forum il thread dedicato a lei, si nota che i suoi tanti fans lamentano il look troppo castigato: cosa sente di rispondere?
(Ride, ndr) «Sì, ne ho sentito parlare, ad esempio di qualcuno che ha criticato il fatto che mi si vedesse l’ombelico…Scherzi a parte, rispondo così: chi si occupa di politica è tenuto a mantenere una certa credibilità anche nel look, che è il primo biglietto da visita che presentiamo al nostro spettatore, ed è importante per mantenere quella credibilità che, come le dicevo, per una donna è molto difficile da conquistare».
Ci sono ingerenze della politica nel mondo dell’informazione? Le è mai capitato di doverne fronteggiare?
«Ci sono, soprattutto nel momento in cui un ospite di peso subordini la sua presenza in trasmissione a delle vere e proprie liste di prescrizione, dei paletti sulle domande e sui contenuti della puntata. Questo tipo di ingerenza, sì, mi è capitato di trovare, ma ho subito prontamente arginato; anche se in verità ho riscontrato questo tipo di resistenza non tanto nei politici in sé, quanto nei loro uffici stampa, soprattutto degli esponenti di rilievo in ambito regionale».
CRONACA IN ROSA Morte, ma solo per finta di Tiziana Ambrosi

Un altro traguardo è stato sorpassato nel "gioco" della spettacolarizzazione del dolore.
L'emittente televisiva olandese BNN ha lanciato il 1 giugno De Grote Donorshow: lo show del Grande Donatore.
Oggetto del dono? Un rene. Una malata terminale avrebbe dovuto scegliere quale, tra tre concorrenti, avrebbe beneficiato del suo rene.
Polemiche a non finire, proprio nel momento in cui l'UE si apprestava a legiferare sulla donazione degli organi. Tra molte proteste la puntata è andata in onda, salvo poi rivelarsi una bufala. Era tutto uno scherzo della Endemol: hanno detto che volevano «sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema della donazione di organi». Sarà.
Tutto può diventare spettacolo, anche la morte. Nei momenti che la precedono, ma anche nel momento in cui avviene, tanto che il canale britannico Channel Four ha intenzione di mandare in onda un documentario in cui appare la principessa Diana agonizzante tra le lamiere della Mercedes sotto il tunnel dell'Alma a Parigi.
Diritto di cronaca o morbosità? Davvero, per capire, dobbiamo vedere filmati e fotografie? In tempi di war game globale, con mirini videogioco che centrano i palazzi di Saddam, non è certo quello il problema principale.
Il problema è invece che oggi la morte è un tabù. Un tabù tale che l'unico modo accettabile per poterne parlare è farla diventare una fiction. Magari aumentando i cachet pubblicitari, pruderie per pruderie.
Una concorrente del Grande Fratello australiano ha perso il padre da più di una settimana. Tutto il Paese lo sa, tranne lei e i suoi compagni d'avventura. La famiglia ha preferito tenerla all'oscuro, il padre era già malato e lui avrebbe voluto così. A quale scala di valori siamo ormai arrivati, se il ruolo in un reality ha la precedenza sulla partecipazione ai funerali di papà?
Ma ce n'è anche per noi, che andiamo coi pullman turistici alla villetta di Cogne: uomini e donne con cappellino e occhiali da sole, che della strada fotografano la villa degli orrori. E già la domenica successiva all'omicidio di Barbara Spaccino, incinta di otto mesi, i primi "turisti" facevano capolino con fotocamere e cellulari.
FORMAT Ai confini della pietà di Antonella Lombardi

«Cosa sarebbe il cinema o la tv senza Provenzano?». Con questa provocazione, Franco Maresco e Daniele Ciprì, la coppia di registi siciliani che meglio ha descritto la deriva antropologica dei tempi moderni, esordisce alla conferenza stampa all’Hotel delle Palme di Palermo. L’occasione è offerta dalla presentazione del loro nuovo programma, Ai confini della pietà, in onda da giovedì 7 giugno su La7 a mezzanotte e mezza. Sette episodi satirici e grotteschi sulle aberrazioni della Sicilia, tra mafia, pregiudizi e malcostume.
I registi di Cinico Tv, Lo zio di Brooklyn, Totò che visse due volte, Il ritorno di Cagliostro, tornano, parafrasando il titolo di un altro loro film, a "inguaiare il cinema italiano" e lo fanno scegliendo il consueto stile pungente.
Senza risparmiare nessun bersaglio, a partire dal luogo scelto per la conferenza stampa: «Non è casuale la scelta dell’Hotel delle Palme - dicono - quest’anno ricorre il bicentenario della nascita di Garibaldi e il centenario di quella di John Wayne. Noi festeggiamo il mezzo secolo dall’incontro tra boss mafiosi americani e siciliani che si tenne in questo albergo 50 anni fa: l’atto di nascita della mafia moderna».
Le polemiche colpiscono soprattutto quelli che Leonardo Sciascia aveva definito "i professionisti dell’antimafia", la retorica dei media che dipinge come «eroi da fotoromanzo i boss mafiosi», ma anche le «manifestazioni antimafia, che ormai – aggiunge Maresco - sono come gli orchestrali delle jazz band che si addormentano mentre suonano un vecchio pezzo, ormai venuto a noia, per svegliarsi solo quando devono fare l’assolo».
Colpa dell’appiattimento che ha logorato tutto: «Oggi il cinema è una protesi della tv, ha il suo stesso orrore estetico. Il trash è diventato una moda. Non a caso giorni fa, Tarantino ha detto che il cinema italiano fa schifo. C’è troppo buonismo e le storie sono sempre le stesse».
E il direttore artistico de La7, Alessandro Ostia, dice: «Il problema della televisione oggi non è creare dei format, ma dare spazio a chi, come loro, esprime una dissonanza del pensiero». E allora, sotto con la storia tragica di Giuseppe Castellani, alias Giuseppe Greco, figlio del boss Michele, detto il "papa".
Le prime due puntate del programma si concentrano su un regista che ha «pagato un prezzo altissimo per la sua passione, dignitosa, per il cinema. Castellani - afferma ancora Maresco - è stato coinvolto nel maxiprocesso col sospetto di associazione mafiosa, accusa da cui poi sarà prosciolto».
Non si salva nemmeno il bandito Salvatore Giuliano, che a Portella della Ginestra, nel 1947, sparò a undici contadini che festeggiavano il primo maggio. «Giuliano? Un gay, almeno secondo uno storico di cui non possiamo rivelare l’identità. Pare che la intendesse col suo luogotenente, Gaspare Pisciotta».
CULT Le visioni di Ecovision di Antonella Lombardi

«Ho girato la mia storia con gli occhi che piangono e che ridono». Così dice Alireza Ghanie, regista iraniano di Lessons from Bam, il film che sorprende e commuove la platea del festival di cinema e ambiente Ecovision, svoltosi a Palermo.
Iran sudorientale, 26 dicembre 2003, la terra trema. Bastano dodici secondi a distruggere la millenaria cittadella di Bam, patrimonio mondiale dell’umanità per l’Unesco. Sono 30.000 le vittime del sisma, più del doppio secondo fonti non governative: comunque il 40% della popolazione totale. Le scuole distrutte sono 168.000 e da allora i bambini fanno lezione all’aperto.
Ciascuno di loro rimpiange la città perduta nel proprio tema. Una bambina, Fatima, si rifiuta di leggere il suo compito: si vergogna. Il trauma ha il suo sguardo scuro e perso nel vuoto. Fatima ha scritto una lettera indirizzata a Dio, spiazzante come solo l’ingenuità dell’infanzia sa essere. Lo smarrimento e il senso di perdita dell’identità della popolazione sembra specchiarsi nei suoi occhi e nell’amarezza che prova l’insegnante, insieme agli studenti, quando scopre una cartolina di Bam, bellissima e intatta, prima della scossa.
«La lezione che ho ricevuto dai ragazzi di Bam e a cui alludo nel titolo è la loro capacità di cambiare, l’entusiasmo per la ricostruzione e l’attaccamento alla propria patria», dice ancora Ghanie mentre ritira il premio come miglior reportage, e aggiunge: «Il poeta Kahlil Gibran ha scritto: una sola anima può contenere la speranza dell’intero genere umano. Spero che la storia di Fatima possa sensibilizzare il pubblico di altri festival».
Ma è Delta, oil’s dirty business, il film vincitore della terza edizione di Ecovision, che denuncia la perdita dell’innocenza di una regione ricchissima di petrolio, ma diventata un inferno: sono 27 milioni gli indigeni dell’area annientati per l’inquinamento che, nonostante le proteste della popolazione, continua a colpire la flora e la fauna locali. Al regista Yorgos Avgeropoulos, corrispondente di guerra per la televisione greca e autore della pellicola vincitrice, è andato il primo premio di 20.000 euro.
L’amore ai tempi della guerra etnica ha, invece, il volto disperato di Milan, che decide di travestire da donna il suo amante omosessuale per sfuggire alla brutalità del conflitto in corso a Sarajevo. E’ la trama del film bosniaco Go west, di Ahmed Imamovic, premiato come migliore film di fiction.
L’ Inferno di zucchero dei disperati haitiani in fuga verso Santo Domingo, e impiegati come schiavi in piantagioni che sono veri e propri campi di concentramento, è l’odissea narrata nel documentario di Adriano Zecca, fotografo e regista. «A pochi metri dalle spiagge frequentate dai turisti di tutto il mondo, i lavoratori della canna da zucchero diventano paria. Una volta superata la frontiera non hanno più nessun diritto, senza soldi, né documenti sono impiegati nelle piantagioni gestite dai Vicini, una famiglia di imprenditori genovesi, lì da cinque generazioni e conquistadores moderni, con interessi nelle banche, nella metallurgia e nell’agricoltura», dice il regista.
Tutta la produzione è destinata agli Stati Uniti che pagano lo zucchero tre volte tanto: 24 centesimi di dollaro a libbra, contro i 7 centesimi del prezzo di mercato. E questo, pur di non comprare da Cuba. Sconsolante il quadro che si è presentato agli occhi del regista: «Ogni tonnellata di zucchero richiede uno, due giorni di lavoro e rende poco più di due dollari. Su questa somma vengono trattenuti dei soldi per una pensione che non si materializza nemmeno dopo 30, 40 anni».
Il documentario sarà trasmesso dalla Rai nel programma Geo & Geo, ed è destinato a far discutere.
DONNE L’ingegnere e il re di Erica Savazzi

Non sarà mai regina, perché in Marocco le regine non sono previste dalla legge, ma Lalla Salma (Lalla è un titolo che si acquisisce con il fidanzamento), a cinque anni dal matrimonio con re Mohammed VI, è diventata un esempio per tutte le donne del suo Paese.
Laureata in scienze matematiche e poi specializzatasi in ingegneria informatica, in una nazione dove il 40% della popolazione è analfabeta, Salma Bennani conosce il futuro marito durante uno stage. Lo sposa nel 2002, e oggi è mamma di due bambini.
Lalla Salma rappresenta il Marocco che vuole modernizzarsi, cominciando dai diritti delle donne. E’ infatti solo con la riforma del codice di famiglia entrata in vigore nel 2004, che a moglie e marito viene riconosciuta parità giuridica: si prevede il diritto di chiedere il divorzio anche per le donne, il ripudio è stato abolito, abolita anche la figura del tutore che rilasciava permessi perché la donna potesse compiere diverse attività – ad esempio viaggiare – e si sancisce l’uguaglianza di diritti e doveri dei coniugi.
Lalla Salma non porta il velo, guida la macchina, si occupa in prima persona dell’educazione dei figli, ama gli stilisti occidentali. E si impegna a favore dei bambini e dei malati. Ha personalmente fondato l’Associazione Lalla Salma per la lotta contro il cancro e ha dato il via a un progetto per costruire nei pressi dei centri di cura, a volte troppo lontani dalle case dei malati, delle maison de vie per ospitare loro e le loro famiglie. La terza struttura è stata inaugurata il 21 maggio a Casablanca, mentre sono in costruzione altre case a Tangeri e Marrakech.
«Bisogna rispettare i diritti dei malati: l’uguaglianza nelle cure, il diritto al rispetto, alla dignità e alla speranza. Bisogna applicare questi diritti nella realtà, assicurando il più possibile le stesse possibilità diagnostiche e le stesse cure per tutti, l’accesso senza discriminazioni alle innovazioni scientifiche e mediche e la cura di ogni cancro nella sua specificità».
Lalla Salma è stata nominata ambasciatrice di buona volontà dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
TELEGIORNALISTI Andrea Vianello, in difesa del cittadino di Giuseppe Bosso

Nato a Roma il 25 aprile del 1961, Andrea Vianello è giornalista professionista dal 1992. Si è laureato in Lettere con una tesi in Letteratura brasiliana. Sposato, due figli.
Entra in Rai nel dicembre 1990 come vincitore del primo concorso pubblico per praticanti giornalisti dai tempi di quello di Vespa e Frajese. Dal 1991 entra a far parte della redazione del Gr1 prima e del Giornale Radio Rai unificato poi sotto la direzione di Livio Zanetti.
Fino al 1998 è vice caporedattore in cronaca e conduttore dei fili diretti in occasioni di eventi speciali o “breaking news”. Nel giugno 1998, sotto la direzione di Paolo Ruffini, assume la cura e la conduzione della trasmissione di Radio Anch’io, la trasmissione di approfondimento e dibattito di Radio1, in onda dal lunedì al venerdì dalle 9.05 alle 9.55, che porta avanti per quattro anni, fino al luglio scorso.
Dal gennaio al maggio del 2000 firma e conduce su Rai2 la trasmissione televisiva in diretta Teleanch’io.
Da tre anni ha sostituito Pietro Marrazzo alla conduzione di Mi manda Rai3.
Italiani popolo di truffatori o di truffati?
«Entrambe le cose. Purtroppo questo è un fenomeno diffuso, non soltanto nel nostro Paese, che finisce inevitabilmente per andare a colpire soprattutto i più deboli».
E' un pesante testimone, quello lasciato da Marrazzo? Senti di rispettare le aspettative del popolo televisivo?
«Mi auguro di sì, ma ovviamente dovresti chiederlo a loro stessi, oltre che a Paolo Ruffini, direttore di Rai3, che mi chiese allora di sostituire Pietro. Per quanto mi riguarda metto sempre il massimo impegno per la realizzazione di questo programma di servizio pubblico, in cui credo molto e del quale mi sento gratificato di essere al timone».
Tante e spesso eclatanti le vicende trattate in trasmissione: in questi casi come deve comportarsi il conduttore, mantenere la massima imparzialità o manifestare la propria indignazione?
«Mi manda Raitre è un programma di denuncia e di difesa, anche se è importante mantenere una buona dose di obiettività. Il mio è un ruolo specifico, capire se e come un cittadino abbia effettivamente subito un torto e portarlo alla luce, creando possibilmente un confronto con la controparte. Certo è che in alcune situazioni è difficile non esternare indignazione, specialmente nei casi più eclatanti».
Credi che il tuo lavoro e le vicende che porti alla ribalta siano ascoltate ai “piani alti”, intesi come autorità politiche preposte alla tutela del cittadino?
«Spero davvero di sì, anche se questo “taglierebbe” il nostro servizio di informazione… Scherzi a parte, io credo che molte volte, oltre a cercare di intervenire sui rapporti ormai rovinati, si debba anche curare quelle ferite che si possono guarire, e intendo con questo il fatto che spesso, molto spesso, tante grandi aziende non sono a conoscenza delle scorrettezze che possono compiere le loro piccole ramificazioni, soprattutto in presenza di grandi imprese che non possono tenere proprio tutto sott’occhio. Ecco, in questi casi, è importante anche mettere al corrente i vertici di quelle condotte irregolari che loro stessi possono aggiustare».
La collocazione del tuo programma al venerdì è quella adatta per ottenere buoni ascolti?
«Mah, non è una cosa che decido io. Faccio parte di una squadra e in quanto tale ognuno ha le sue competenze e responsabilità, e nel mio caso non sono certo quelle relative alla programmazione e alla collocazione dei programmi. Ti posso dire, comunque, che la decisione di spostare il programma dal mercoledì al venerdì inizialmente ci ha creato qualche problema di adattamento alla nuova collocazione, ma nel tempo, ascolti alla mano, direi che li abbiamo superati».
A settembre ti sei trovato coinvolto, tuo malgrado, in uno spiacevole episodio, legato alla discussa intervista rilasciata da Luciano Moggi a Quelli che il calcio, durante la quale cercasti, non con molta fortuna, di intervenire anche in maniera dura. Come guardi, a distanza di mesi, a quel momento?
«Era una situazione molto favorevole per il fatto di poter interloquire proprio con Moggi. Io feci quello che ho sempre fatto e continuerò a fare, il giornalista; lui ha anche fatto finta di non rispondere ad alcune domande, ed è questo atteggiamento che non condivido, non solo da parte di Moggi o degli altri esponenti del nostro calcio che si sono trovati coinvolti loro malgrado dalla giustizia italiana».
OLIMPIA Professione Freestyler di Mario Basile

Quante volte abbiamo sentito dire che il calcio moderno è governato dall’estremo tatticismo. Le partite sono uno spettacolo, anche in termini televisivi, che però, a conti fatti, di spettacolare hanno ben poco. E dove sono finiti i giocatori di talento? Quelli che con una loro giocata legittimano il prezzo del biglietto?
Ci sono ancora, ma quasi sempre finiscono ingabbiati dagli schemi, trovandosi così costretti ad inventarsi anche mediani piuttosto che lasciar libero sfogo all’istinto.
Il calciatore che si diverte in partita è una rarità: un pezzo pregiato, inestimabile patrimonio calcistico da conservare con cura.
Così dribbling fulminanti, colpi di tacco, giocate funamboliche e veroniche spettacolari fanno abbondante capolino solo negli spot di grandi sponsor tecnici. Per maggiori informazioni chiedere a Ronaldinho. L’asso brasiliano del Barcellona deve, infatti, il suo successo anche alle grandissime qualità tecniche messe in mostra nelle pubblicità oltre che in campo.
Ma non tutti sanno coniugare le due cose. Ci sono tantissimi campioni del calcio freestyle che non sono calciatori di altissimo livello. Evidentemente stanchi di vedere così passare in secondo piano cotanta bravura, hanno fatto del freestyle una vera ragione di vita e, in alcuni casi, di successo.
Giovani giocolieri in tuta e scarpe da ginnastica sfoggiano la loro tecnica fenomenale fatta di doppi passi e di infiniti palleggi in tutte le salse. Poi basta farne un video, metterci una bella musica di sottofondo e caricarlo sul web per farsi conoscere e apprezzare in ogni parte del mondo.
Ne sa qualcosa il giovane tunisino Soufiane Touzani, i cui video spopolano su Youtube. Di lui si sa poco o nulla, eccetto che non gioca da professionista in nessun campionato e che è in possesso di una tecnica impressionante.
Secondo gli esperti, però, il numero uno del soccer freestyle è il ventenne guineano Iya Traoré. Anche lui come Touzani non è ancora approdato al calcio professionistico, ma a differenza del “collega” tunisino potrebbe farlo ben presto. Infatti il ragazzo, stabilitosi in Francia da alcuni anni, gioca nelle giovanili del Paris Saint-Germain. Sotto il profilo calcistico ha ancora molto da imparare. Sotto il profilo tecnico, invece, è un vero e proprio mago. I suoi lampi di classe gli hanno fruttato una popolarità talmente alta che ha perfino un suo sito ufficiale.
In Francia, però, a fare notizia nel campo del soccer freestyle è una donna: Sandy Levittas, detta Bambi. Ha ventidue anni, occhi neri e capelli castani fluenti, guardandola penseresti si tratti di una modella. Lei, invece, è la reginetta del Komball, soccer freestyle condito da musica hip hop e movimenti che ricordano la break dance.
I parigini possono ammirarne le gesta nelle piazze principali di Parigi o nei centri commerciali più vasti. Ma Bambi non è sola. Tantissime adolescenti di talento stanno seguendo il suo esempio e si stanno avvicinando al Komball, disciplina che ha riscosso un così grande successo oltralpe che i DVD dimostrativi lanciati sul mercato sono andati a ruba. Potere del calcio.
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