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Telegiornaliste anno III N. 44 (122) del 3 dicembre 2007


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MONITOR Johann Rossi Mason, una grande passione per il campo scientifico di Giuseppe Bosso

Johann Rossi Mason, giornalista dal 1990, nasce a Roma da padre americano e madre italiana. Tra le sue grandi passioni, la medicina e la scienza. Oggi collabora con numerose testate ed è uno dei volti di RaiUtile.

Da cosa nasce il suo interesse per le tematiche del mondo scientifico - medico?
«Anni fa mi regalarono un libro di Oliver Sack, L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, in cui si parlava di numerosi casi clinici. Fino a quel momento mi ero occupata principalmente di musica e rimasi colpita da tanti termini medici di cui, all'epoca, ignoravo completamente il significato. Chiesi spiegazioni ad un amico medico. Fu talmente chiaro ed esaustivo che finì per affascinarmi e a spingermi a incentrare la mia professione in quel senso».

La tv satellitare offre più spazio rispetto a quella generalista per trattare certi argomenti?
«Indubbiamente sì. Una televisione sperimentale, come quella in cui lavoro, dà sicuramente molte opportunità per approfondire questi temi. La tv generalista tende a limitare o a sacrificare questi argomenti in nome delle esigenze pubblicitarie che spingono verso altre tipologie di trasmissione. E' sicuramente una strada che vale la pena di percorrere».

Bellezza e professionalità possono coesistere in questi anni di tv trash e immagine a tutto campo?
«Sarei ipocrita a dire che l'immagine non conta. Innegabilmente un bel viso, una bella figura sono piacevoli da seguire. Ma in ogni caso ciò non deve assolutamente andare a discapito dei contenuti e di quello che si cerca di trasmettere, davanti alla telecamera, al pubblico che ti segue. Basta trovare il giusto equilibrio e le due facce possono coesistere».

Ha chiamato il suo blog Sesto potere come «quello della libertà di critica». La preoccupa la proposta di legge Levi che potrebbe tristemente portare forti censure anche in Rete?
«Sicuramente un po'. Trovo che il blog sia la grande rivoluzione di questi anni: ha permesso a molti talenti di emergere anche nel loro piccolo, inteso come vicende di un quartiere o di Paesi in cui vige una fortissima censura. La piramide, con lo sviluppo della rete, si è capovolta perché ha permesso alla grande informazione di nascere anche dal basso. Insomma, sarebbe davvero un peccato se la legge entrasse davvero in vigore, viste le enormi potenzialità di Internet e di questo strumento che ha permesso al locale di affermarsi a livello globale».

Ha preso come modello Martha Stewart la cui immagine, però, è stata indubbiamente scalfita dalla vicenda giudiziaria che l'ha vista coinvolta. Crede che, nonostante questo, sia possibile tornare a galla?
«Non sono certo io che devo giudicare quello che ha fatto, ma chi è competente in merito. Penso che tutti abbiamo anche diritto di sbagliare e poi assumercene la responsabilità. A parte questo, ammiro e stimo moltissimo la Stewart per quello che ha saputo fare. Partendo come semplice casalinga, ha creato un impero che conta televisioni, giornali e altre cose. E' una figura che, risvolti giudiziari a parte, è meritevole di ammirazione e mi dispiace che in Italia non ce ne sia una dello stesso tipo per classe e capacità. Un'altra persona che ammiro tantissimo è Hillary Clinton e, da figlia di padre americano, spero proprio che l'anno prossimo sia lei a subentrare a Bush. Sono sicuramente questi i personaggi che vanno presi a modello rispetto ad esempi non altrettanto edificanti».

In quasi vent'anni di carriera giornalistica c'è mai stato qualcuno che ha provato a condizionarla nel suo lavoro?
«Per mia fortuna, occupandomi principalmente di temi che non hanno particolari occasioni di essere scomodi, non ho avuto occasione di subire condizionamenti. In ogni caso, a causa del mio carattere ribelle, sarebbe stato difficile. L'unica persona alla quale è concesso zittirmi, ma in modo molto dolce, è mia figlia (ride,ndr)».

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CRONACA IN ROSA Le deludenti di Erica Savazzi

Non ci si può dividere, non sulla violenza sulle donne. Quale tema è più universale di questo? Quale tema è più attuale e più importante per le donne, ma anche per tutta la società?

No, non ci si può dividere. Non esistono né destra né sinistra, la violenza è uguale per tutte, berlusconiane e bertinottiane. Eppure domenica scorsa alcune donne, che evidentemente pensavano che il tema fosse "riserva di caccia" di un solo gruppo, hanno dato spettacolo alla manifestazione organizzata da diverse associazioni femministe per chiedere attenzione e provvedimenti seri nei confronti di questo problema sociale. Una piaga non relegabile all'interno delle mura domestiche.

Manifestazione necessaria, visti gli ultimi spaventosi dati - un milione di donne hanno subito violenza nell'ultimo anno - ma che per alcune partecipanti sono passati in secondo piano rispetto alla voglia di polemica. A tutto svantaggio del desiderio e del bisogno di far sentire seriamente la propria voce su un tema così importante.

Decidere di fischiare le poche donne presenti in Parlamento che, nel bene o nel male, cercano di fare qualcosa (è in via di approvazione il disegno di legge del ministro Pollastrini sulla violenza di genere), può essere utile? Esortarle a fare di più e meglio è giusto, ma evidentemente è stato scelto il mezzo meno adatto.

Infatti fischiare i ministri presenti (Pollastrini, Turco e Melandri) o ex ministri (Prestigiacomo) è solo servito a mostrare un "movimento femminile" che – se mai realtà – si troverebbe diviso anche sugli argomenti essenziali. Bell'esempio di unità di intenti, di civiltà e di rispetto. Quel rispetto e quell’assenza di violenza che la manifestazione intendeva chiedere e promuovere.

Inspiegabile poi la contestazione all'unico canale televisivo che trasmetteva in diretta la manifestazione. Una dimostrazione di assoluta incuranza e di ignoranza su quanto i media possano fare per sensibilizzare il pubblico sulla violenza contro le donne.

E infine, perché tenere fuori dal corteo - con spintoni e rimproveri - gli uomini che volevano partecipare alla manifestazione? Una scelta delle organizzatrici, d'accordo, ma molto criticabile: come si può pensare di risolvere il problema se non vengono coinvolti e sensibilizzati anche le controparti maschili?

E allora, un autogol di alcune scalmanate che hanno dato uno spettacolo assolutamente negativo e contrario ai principi che la manifestazione voleva invece promuovere. Un'occasione sprecata.

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FORMAT Il pagellone di novembre di Giuseppe Bosso

Merita un 10 Fabio Fazio, mattatore da ormai quattro anni di Che tempo che fa. Grande successo ha riscosso l'intervista a cuore aperto a Nicoletta Mantovani che ha deciso di rompere, solo per l'amico, il muro di silenzio e di dolore dopo la morte di Big Luciano con tutte le polemiche che ne sono seguite.

Un delicato 9 al grande successo di Canale5 del giovedì, il Capo dei Capi. Qualcuno ha insinuato, per la serie ispirata alla vita di Totò Riina, un'esaltazione del modo di vivere dei mafiosi. Niente di più falso: il vero protagonista è Biagio Schirò - un immenso Daniele Liotti - unico personaggio non a caso inventato che esprime il senso di giustizia e di impegno che dovrebbe essere in ognuno di noi.

Un 8 di bentornato a Daniele Luttazzi: finalmente anche l'ultima delle vittime del famigerato "editto bulgaro" è tornata in video grazie a La7. Gli ascolti delle prime puntate hanno dato ampiamente ragione alla rete che, con Decameron, si conferma fucina di programmi di grande qualità.

Un ovvio 7 a 7 vite. Malgrado non riscuota grandi ascolti, la prima sit-com italiana registrata dal vivo è sicuramente una delle rivelazioni d'autunno. La verve degli interpreti - da Luca Seta, protagonista fino a ieri sconosciuto, alle esplosive Micaela Andreozzi e Lucia Ocone - e la simpatica vulcanicità delle vicende del redivivo Davide e del suo gruppo di amici hanno pian piano conquistato anche la critica più esigente.

Un sicuro 6 a Report e a Milena Gabanelli, da dieci anni sempre in prima linea con i suoi videoreporter sparsi per tutta la penisola in cerca di notizie da portare sullo schermo. E non c'è denuncia o critica che tenga!

Un dubbioso 5 a Matrix, Porta a Porta e ai programmi vari che dedicano puntate su puntate ai delitti di Garlasco e Perugia. Avevamo tirato un sospiro di sollievo alla fine della "telenovela Cogne". Probabilmente avevamo parlato troppo presto.

Un 4, senza possibilità di replica, ai programmi sportivi "urlati": la tragedia di Gabriele Sandri impone una riflessione a tutto il mondo del calcio e non possono certo rimanere estranei coloro che, la domenica e non solo, raccontano lo sport quasi sempre con toni accesi.

3 al terzo, forse evitabile, capitolo di Rivombrosa. La prima serie, nel 2004, fu un successo strepitoso sancito da quattro Telegatti; la seconda, due anni dopo, risentì profondamente dell'immediata uscita di scena del conte Ristori-Alessandro Preziosi. Dopo l'abbandono anche di Elisa-Vittoria Puccini, pare che le vicende di Agnese - una Sarah Felberbaum che ha ancora molto da imparare nella recitazione - non attirino più di tanto il pubblico. Quello femminile, almeno, ha gradito la new entry Giulio Berruti.

2 a quanti, in maniera ipocrita, hanno pianto e compianto Enzo Biagi dopo avergli voltato le spalle nel 2001.

Un rammaricato 1 a Michele Santoro che, all'indomani della morte del Grande Maestro, lo ha omaggiato con una puntata di Annozero decisamente polemica e non incentrata alla sua memoria.

Non si può che dare 0 a Rai e Mediaset per la vicenda delle intercettazioni pubblicate su La Repubblica. Un episodio che ha messo in evidenza, ancora una volta, quanto sia lontana e faticosa la strada della libertà di informazione nel nostro Paese.
E da lassù, Biagi e Montanelli ci guardano...  

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CULT Massimo Polidoro, l’uomo che svela i misteri di Valeria Scotti

Nel 1989 nasceva il CICAP, Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale. Tra i fondatori, Piero Angela, Margherita Hack, Silvio Garattini e Massimo Polidoro, oggi segretario nazionale del CICAP e docente all'università di Milano Bicocca di Metodo scientifico, Pseudoscienze e Psicologia dell'insolito.
Autore di numerosi libri e articoli, Polidoro è uno dei maggiori esperti internazionali nel campo della psicologia dell'insolito, del paranormale e dei misteri.

Ci fa un bilancio del lungo percorso del CICAP?
«Direi che possiamo dirci soddisfatti. Fino a vent'anni anni fa non c'era nessuno che si preoccupasse di verificare le notizie che riguardavano misteri e fatti insoliti e, automaticamente, si finiva per accettare tutto come inspiegabile. Conseguenza di questo atteggiamento era il fatto che truffatori e ciarlatani potevano approfittare tranquillamente della credulità dilagante. Truffatori e imbroglioni purtroppo sono ancora con noi e penso ci saranno sempre, ma almeno oggi esiste un punto di riferimento sicuro per chi vuole avere informazioni corrette e verificate su certi fenomeni. Il CICAP, infatti, risponde quotidianamente a decine di richieste da parte di giornalisti e del pubblico in genere; inoltre diffonde i risultati del proprio lavoro attraverso riviste, libri, conferenze, presentazioni, interventi radiotelevisivi, il sito internet e il podcast.
Sono centinaia di migliaia le persone che raggiungiamo ogni mese e che così possono farsi un'idea più completa riguardo alle notizie più bizzarre e strane che si leggono sui giornali, ma anche riguardo a fatti insoliti che possono capitare a chiunque. Se tante persone ora sono più attente e critiche circa quello che viene raccontato, un po' di merito credo ce l'abbia anche il CICAP».

Tra le varie iniziative del CICAP, vi è un corso per investigatori scientifici. La prossima edizione sarà nel 2008. Di solito chi sceglie di partecipare a questo tipo di attività?
«Da un lato ci sono giornalisti, scrittori, docenti o ricercatori che frequentano i nostri corsi per motivi professionali, per approfondire questo tipo di argomenti e per imparare le tecniche di indagine razionale davanti a presunti misteri. Dall'altro, partecipano professionisti, casalinghe, studenti e semplici curiosi. E lo fanno proprio perché i nostri corsi rappresentano un modo divertente per scoprire tante cose insolite sul mondo e sulla mente dell'uomo».

Come si svolgono le lezioni?
«Le lezioni, condotte dai principali esperti e studiosi del CICAP, sono tenute in un linguaggio accessibile a chiunque, senza inutili tecnicismi. Largo spazio viene dato alla sperimentazione in prima persona: può capitare di incontrare una persona che si definisce medium o sensitivo e si impara come metterla alla prova per capire se davvero possiede facoltà paranormali o se la sua convinzione dipende da un'errata interpretazione di qualche fatto del tutto normale. Altre volte si può essere coinvolti in qualche esperienza: camminare sulle braci e scoprire che lo può fare chiunque senza bisogno di meditazioni particolari o facoltà soprannaturali; essere coinvolti nella realizzazione di un gigantesco disegno in un campo di grano. Tutti poi imparano a difendersi dagli inganni e dagli autoinganni, scoprendo anche come funzionano giochi di prestigio e illusioni di vario tipo. Non di rado, dai nostri corsi esce qualche allievo o allieva che si rivela poi un eccellente indagatore di misteri e allora diventa un nuovo valido collaboratore del CICAP.
Se tra le lettrici e i lettori di Telegiornaliste c'è qualcuno incuriosito dai corsi, le iscrizioni per il prossimo ciclo sono state prorogate fino al 31 dicembre 2007».

Lei è autore di numerosi libri. L’ultimo, Etica criminale - Fatti della banda Vallanzasca, si distacca dagli altri «per lo stile romanzesco della narrazione» e perché questa volta si occupa di un solo caso. Come mai?
«Volevo cambiare un po' strada, nei lavori precedenti mi ero occupato di più casi riguardanti misteri del passato o della cronaca nera. Volevo raccontare una sola vicenda piena di eventi sorprendenti e simbolica di un certo periodo storico del nostro Paese. La storia di Vallanzasca ha lasciato nel dolore tante persone e sembra uscita dalla penna di un romanziere per la quantità di imprese che hanno visto protagonista appunto Vallanzasca: dalle fughe rocambolesche agli amori da prima pagina. Una storia simile non poteva che essere raccontata con i registri tipici del romanzo. E dalle reazioni che ho avuto dai protagonisti di questa vicenda, oltre che dai lettori, l'esperimento sembra proprio essere riuscito. Posso quindi anticipare fin d'ora che il prossimo lavoro non potrà che seguire questa strada».

Sul suo sito, oltre a un blog continuamente aggiornato, ci sono le puntate del suo podcast. UFO, Houdini, storie di miti del passato. Come è partita questa iniziativa?
«L'idea iniziale era quella di dare maggiore soddisfazione alle tante persone che visitavano il mio sito e che, non trovando magari risposte agli interrogativi che interessavano di più, mi scrivevano decine di mail ogni giorno. Era impossibile stare dietro a tutti. Quindi ho pensato di coinvolgerli in un blog. Ogni giorno propongo argomenti che spesso mi vengono segnalati proprio dai lettori, dando così vita a un dibattito dove ognuno porta qualche cosa. Accanto al blog ho fatto partire un podcast, una serie a puntate dove affronto in maniera più approfondita, coinvolgendo esperti di fama, alcuni degli argomenti più interessanti trattati nel blog».

Il web quanto aiuta e quanto devia il suo lavoro?
«Da un lato aiuta perché mi dà la possibilità di confrontarmi di continuo con i miei lettori, di ricevere suggerimenti e idee utili.
Dall'altro, è indubbio che mi impegna molto e sottrae tempo ad altre attività. Nel complesso direi che il bilancio è positivo: sono più di 120mila le persone che ogni mese mi vengono a trovare sul blog e oltre 30mila quelle che scaricano il mio podcast. Non escludo che presto le attività online si amplino anche ad altri campi».

Per Voltaire, un uomo si stima per le sue domande, non per le sue risposte. Lei oggi quante domande ha ancora da porre nella sua attività?
«Non si smette mai di fare e di farsi domande. Chi non si pone più interrogativi sulla vita, sul mondo e sui misteri che ancora ci circondano, è qualcuno che forse ha perso interesse e curiosità per la vita. E devo proprio dire, per fortuna, che non è il mio caso».

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DONNE Nicla Vassallo e le donne scienziate di Silvia Grassetti

Donne e scienza: un binomio per molti versi ancora guardato con sospetto.
Già al liceo ci raccontavano della serva di Talete, brava a deridere il filosofo caduto in una buca: preso a tentare di spiegare la realtà, non si era accorto di dove metteva i piedi.
Come dire: gli uomini sanno ragionare, le donne hanno un po’ di senso pratico, nulla più.

Forse i tempi sono cambiati. Abbiamo chiesto un parere a Nicla Vassallo, uno dei massimi esperti di filosofia della conoscenza. Dal 2005 professore ordinario all’Università di Genova dove insegna Filosofia della Conoscenza ed Epistemologia, responsabile in passato di sette progetti di ricerca del CNR, la professoressa Vassallo scrive regolarmente su Domenica, il supplemento culturale del Il Sole 24 Ore, e ha pubblicato diversi libri, tra cui Filosofia delle donne: protagoniste della filosofia insieme a tutte le donne, Vassallo e la coautrice Pieranna Garavaso discutono di ragione e conoscenza, scardinando i percorsi consolidati della ragione.

Non solo: nell’ambito dell’ultimo Festival della scienza di Genova si è svolta la conferenza Donne, scienza e conoscenza. Ai nostri giorni è ancora vissuto come un azzardo questo accostamento?
«Senz’altro un azzardo, sotto diversi profili. Le donne sono state a lungo considerate soggettive e irrazionali. Facendo leva su ciò, è stato facile, ed è ancor oggi facile, estrometterle da un’impresa, come è la scienza, che si appella all’oggettività e alla razionalità. L’azzardo dell’accostamento è diventato tale da fare anche sì che le donne venissero rapinate dei propri contribuiti alla conoscenza scientifica».

Per esempio?
«Un caso eclatante è quello di Rosalind Franklin, rispetto alla scoperta del DNA. Nella storia della scienza le Rosalind Franklin devono essere state e sono senza dubbio più di quelle che conosciamo, e comunque anche di quelle che conosciamo si parla sempre troppo poco. Forse, è anche questa esclusione paradossale delle scienziate dalla scienza a generare in parecchi la convinzione che scienza e tecnologia nocciano alla vita quotidiana di uomini e donne».

Si spieghi meglio.
«Contraccettivi, fecondazioni assistite, cure ormonali di vario tipo, interventi di chirurgia estetica: non sono forse applicazioni tecnologiche della scienza e non incidono forse in modo pesante e pericoloso sul corpo femminile? Eppure occorre a mio avviso ricordare che la maggior parte delle applicazioni tecnologiche – non solo i contraccettivi, ma anche oggetti che noi consideriamo ormai “scontati” come i frigoriferi, le pentole a pressione, i computer - ha affrancato le donne da alcuni obblighi secolari che si sono spesso tradotti in vere e proprie schiavitù».

C'è stata una grande affluenza di pubblico alla conferenza Donne, scienza e conoscenza: quali sono state le categorie più rappresentate? Uomini, donne, studenti, addetti ai lavori?
«Sì, c’è stata una grande affluenza di pubblico e credo che fossero egualmente rappresentati i due sessi, le diverse classi sociali e le diverse età. Molti le studentesse e gli studenti, attenti ai temi legati alla conoscenza. Tra gli addetti lavori spiccavano filosofe e filosofi, scienziate e scienziati, giornaliste e giornalisti. Una maggiore sensibilità di queste ultimi e di questi ultimi potrebbe risultare di considerevole efficacia nel comunicare al grande pubblico come gli studi scientifici delle donne e sulle donne, e le loro applicazioni tecnologiche, siano spesso assai inappropriati».

Cosa potremmo fare noi giornalisti?
«Le faccio degli esempi: l’economia ignora troppo frequentemente il lavoro casalingo; la farmacologia tara dosi, modi e tempi di somministrazione dei medicinali sui corpi maschili, sebbene le donne consumino più farmaci degli uomini. Forse il caso più clamoroso è rappresentato dalla ricerca medica che considera l’osservazione del corpo maschile per lo più sufficiente anche per il corpo femminile, che lega la salute delle donne in modo indissolubile alla riproduzione, e difatti si concentra sull’apparato riproduttivo/ginecologico, senza però dare troppa rilevanza al dolore fisico (neanche il 4% dei parti italiani avviene con l’epidurale), che trasmette a volte la convinzione che la buona salute delle donne coincida con la loro bellezza e giovinezza».

Non solo la nostra società, anche il linguaggio è prettamente maschile, per dirla con la filosofa Luce Irigaray. Le donne possono superare questo "limite"? E se sì, grazie anche alla collaborazione maschile o da sole?
«Premesso che non amo Luce Irigarary, che la trovo incomprensibile e a tratti anche confusa, voglio sottolineare che il linguaggio è collegato al potere di trasmettere pensieri, informazioni, conoscenze. Ci sono aspetti senz’altro sessisti in esso, che dobbiamo cercare di evitare: così, se intendiamo riferirci anche alle donne, non solo agli uomini, non dovremmo usare il termine “uomini”, bensì il termine “essere umani”. E’ anche attraverso il linguaggio che riusciamo a rafforzare il sessismo, stabilendo magari cosa significa il termine “donna” per costringere le tante diverse donne che abitano il mondo a conformarsi a un significato di donna artificioso e individuato per soddisfare desideri maschili. Quanto diciamo può non essere in se stesso sessista, ma dirlo in certe situazioni è sessista».

Ad esempio?
«Dire “Monica è una bella donna” può non avere implicazioni sessiste, ma se si afferma “Monica è una bella donna” in un contesto in cui Monica sta partecipando a un concorso per ottenere un posto da fisico teorico, si vuole probabilmente implicare che Monica è solo una bella donna e che di conseguenza non è molto intelligente. Non è forse dato per scontato il pregiudizio sessista, stando al quale le donne belle sono di necessità un po’ stupidotte? Il linguaggio dell’implicito e delle implicazioni nasconde spesso stereotipi di tipo sessista. Ci sono poi “linguaggi” specifici, come il linguaggio pornografico, che meritano un esame a sé, per comprendere se umiliano le donne, se le rendono silenti, o se le liberano da situazioni di soggezione obbligata, mostrando semplicemente le situazioni e lasciando così alle donne la libertà di scegliere la situazione che preferiscono».

Come possiamo aiutare le causa femminista allora?
«Occorre aiutare la causa delle donne impiegando magari proprio il termine “femminismo” e “femminista” ogni qual volta si renda necessario, o non lasciando che le donne scompaiano o siano addirittura ignorate da alcuni discorsi, non solo scientifici e filosofici, ma anche politici, economici, culturali, e via di seguito, per essere relegate alle pagine di cronaca nera e di cronaca rosa.
Vorrei infine concludere riallacciandomi alla nozione che lega il linguaggio al potere, oltremodo benefico, di trasmettere conoscenze e quindi di apprendere conoscenze attraverso quanto gli altri ci comunicano, o, come si usa dire in filosofia, attraverso quanto gli altri ci testimoniano. Questa nozione di linguaggio è fondamentale per le donne, così come per gli uomini».

E sulla manifestazione contro la violenza alle donne dello scorso 24 novembre: vuole aggiungere un suo pensiero?
«La giornata internazionale contro la violenza sulle donne deve condurci a riflettere, oltre che ad alzare pubblicamente la voce, contro ogni tipo di crudeltà, ferocia, brutalità a danno delle donne. Penso non solo alla violenza fisica, che è comunque una vera e propria emergenza, ma anche a fatti e atti meno lampanti, la cui disumanità non va sottovalutata. Occorre denunciare tutte le violenze, quelle fisiche, sessuali e psicologiche, considerarle un reato. Nessuna violenza contro le donne è accettabile. Occorre tuttavia chiederci come mai sono state e sono le donne a essere oggetto di tante diverse violenze. E' senz'altro anche perché le donne sono state giudicate a lungo e sono tuttora giudicate inferiori all'uomo, dal punto di vista ontologico - metafisico e dal punto di vista epistemico. Le domande filosofiche cruciali con cui dobbiamo confrontarci si riducono sostanzialmente a due: ci possono essere buone ragioni biologiche o socio-culturali a sostegno della tesi che le donne sono inferiori? E: è il sesso di appartenenza che ci consente di individuare le donne per giudicarle inferiori, superiori, o uguali agli uomini? La risposta spetta a una filosofia delle donne seria che sappia riflettere criticamente sull'identità e la conoscenza delle donne».

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TELEGIORNALISTI Gianluca Di Marzio, cresciuto con lo sport di Giuseppe Bosso

Gianluca Di Marzio, napoletano, deve la passione per lo sport a suo padre, Gianni Di Marzio, per tanti anni allenatore del Napoli e del Catanzaro. Dopo i primi passi presso l'emittente padovana Telenuovo, oggi è telecronista di Sky Sport. Proprio per Sky ha commentato numerose partite durante i Mondiali di Germania 2006.

Quanto è stato di aiuto essere figlio di un allenatore per affermarti nel lavoro?
«Sicuramente mi è stato utile per avvicinarmi all'ambiente. Da piccolo, ad esempio, mi capitava di andare con mio padre al calciomercato. Questo, pian piano, ha fatto nascere in me la grande passione necessaria per affrontare il lavoro. Indubbiamente mi ha facilitato nel pormi rispetto alle persone, ai procuratori e ai calciatori, nell'avvicinarmi a loro di continuo».

Il Napoli può essere la sorpresa del campionato di quest'anno?
«I fatti lo dicono. Ricordo in estate le contestazioni dei tifosi alla presentazione di Hamsik e Lavezzi, acquisti giudicati insoddisfacenti. Oggi gli stessi tifosi li esaltano come i gioielli del calciomercato. La squadra sta facendo molto bene, ma ai tifosi, è chiaro, non basta fare la rivelazione. La platea partenopea ha grandi ambizioni. Quanto a competere per la zona Champions con gli squadroni del Nord e per lo scudetto, mi sa che ci vorrà ancora un po' di tempo».

Qual è stato il tuo modello di telecronista?
«Ammiro molto Sandro Piccinini che, da anni ormai, esprime al meglio la modernità del telecronista. Certo, massimo rispetto per chi lo ha preceduto e per quella generazione del passato, ma l'evoluzione che ha riguardato il calcio ha finito inevitabilmente per incidere anche sul ritmo delle telecronache, soprattutto sulle modalità con cui descrivere le azioni. E' stato piacevole anche lavorare con Massimo Marianella in passato».

Cosa pensi delle "telecronache di parte" di Mediaset? Non minano la credibilità della professione?
«Premetto che non è una cosa che seguo: sono sempre dell'idea che è meglio ascoltare una telecronaca imparziale e obiettiva. Credo che questo sia un servizio in più offerto all'ascoltatore che magari può avere il piacere di vivere la partita "dalla sua parte". E' un po' la ripresa di quelle telecronache che si ascoltavano alla radio anni fa, prima dell'avvento della tv a pagamento. E' ovvio che si tratta di un servizio che, prima o poi, tutti gli operatori dovranno cercare di offrire alla loro clientela».

La partita che sogni di commentare?
«A parte eventi come la finale di Champions League o della Coppa del Mondo, avrei voluto sicuramente commentare il recente spettacolare pareggio tra Roma e Napoli all'Olimpico. Al di là del fatto che le considero un po' le mie squadre del cuore, avendo sempre avuto simpatia per i giallorossi ed essendo napoletano, quella partita si è sviluppata in un modo che è il massimo per un telecronista. Ma sono rimasto molto soddisfatto dagli apprezzamenti che ho ricevuto per le telecronache, durante gli ultimi Mondiali, di partite come Messico-Angola e Tunisia-Arabia Saudita. Incontri non certamente di primissimo piano, ma la gente che ho avuto modo di incontrare mi ha detto di averle sentite come squadre italiane, tanto ero stato coinvolgente».

La violenza nel calcio: secondo te, le soluzioni finora ideate sono appropriate?
«Assolutamente no. Né vietare le trasferte alle tifoserie né inserire i tornelli si sono rivelati idonei meccanismi per arginare un problema ormai drammatico. Riguardo i fatti di Arezzo, è chiaro che siamo in presenza di una tragedia che poteva capitare in qualsiasi altro posto. In ogni caso, questo episodio prescinde dal calcio, proprio per il contesto in cui è avvenuto. La cosa più importante è lavorare sui giovani, soggetti sempre più a rischio, in modo che riacquistino quella concezione puramente sportiva e giocosa del calcio. Le curve, purtroppo, tendono sempre più a politicizzarsi e a scontrarsi tra loro per ragioni assolutamente estranee alla rivalità sportiva. E' una mentalità che deve assolutamente cambiare».

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SPORTIVA Carlo Silipo, da giocatore simbolo ad allenatore di Pierpaolo Di Paolo

Carlo Silipo, difensore simbolo della pallanuoto italiana e partenopea, ha aperto con il Settebello ed il Posillipo un ciclo irresistibile.
A soli 21 anni ha conquistato l'oro alle olimpiadi di Barcellona del '92, cui si sono aggiunti infiniti successi: oro agli Europei del '93, oro ai mondiali italiani del '94, oro agli europei del '95, argento agli europei del 2001, argento ai mondiali del 2003. A completare il suo palmares 7 scudetti, le 3 coppe campioni, 1 coppa delle coppe e 462 presenze per 574 gol in una squadra di club (cifra record per un difensore).
Ritiratosi nel 2006 dalle attività agonistiche, è il nuovo allenatore del Posillipo Napoli.

Sei considerato uno dei giocatori più importanti della storia della pallanuoto italiana. Adesso che sei un allenatore, questa fama non ti crea un po' di ansia da prestazione?
«No assolutamente, parliamo di cose totalmente differenti. La carriera di un giocatore non si può paragonare a quella di un allenatore, per tanti versi si riparte proprio da zero e quindi non vivo nessuna ansia, sono e resto un esordiente.
Certo, un passato da giocatore significa tanta esperienza di partite giocate, vinte sui nervi e perse su cali di tensione, e queste son cose che ti porti in panchina e puoi trasmettere ai tuoi ragazzi».

Quanto è cambiata la tua vita rispetto a prima?
«Tanto. Essendo due ruoli completamente diversi, ti impegnano anche su piani diversi.
Il giocatore, finito l'allenamento, torna a casa senza altri pensieri. Essere un allenatore, invece, comporta un impegno e un'attenzione costanti a tutto ciò che c'è dietro la partita, non solo gli allenamenti ma anche le scelte tecniche, l'organizzazione, lo spogliatoio».

A 36 anni quanto è difficile prender coscienza del fatto che si deve abbandonare la vita da giocatore? La decisione di ritirarsi è qualcosa che si matura con serenità o passa attraverso un delicato percorso interiore?
«Decidere di smettere non comporta nessuna difficoltà, nessun trauma psicologico perché è una cosa naturale e si sa fin dall'inizio che la carriera sportiva è più breve delle altre. Certo, son decisioni importanti da maturare con calma, ma si ha anche il tempo necessario per pensarci in tutta serenità. Del resto, non arrivi ad una scelta del genere se non sei assolutamente convinto di quello che fai».

Essere l'allenatore di una squadra come il Posillipo significa dover vincere. I tifosi sperano in una rivincita sul Pro Recco. Dopo un avvio strabiliante però, la squadra ha un po' tentennato: ci sono difficoltà impreviste?
«No, non sono d'accordo. Onestamente penso che stiamo facendo già molto di più di quello che ci si poteva aspettare da questa stagione. Il nostro organico è stato rinnovato molto quest'anno, abbiamo perso un po' di qualità con un nostro straniero che è andato a rinforzare proprio il Pro Recco e abbiamo anche inserito diversi giovani, per cui non c'è l'ansia di dover vincere a tutti i costi. Dobbiamo pensare a crescere e abbiamo un progetto in prospettiva che potrà portarci a vincere lo scudetto tra 3-4 anni, di certo non subito».

Prima ancora di giocare nel Posillipo hai militato nell'altra squadra della città, la Canottieri Napoli, dove è cominciata la tua carriera. E' possibile pensare a un tuo ritorno alle origini, in futuro?
«Io sono sempre rimasto fedele alle mie origini: non mi sono mai mosso da Napoli. Sia con la maglia della Canottieri che con quella del Posillipo ho sempre avuto modo di sentirmi parte integrante della città. Adesso faccio parte del Posillipo e sono molto orgoglioso di essere qui».

Dopo esser stato per tanti anni il capitano nonché simbolo del Settebello italiano, hai mai pensato di condurre la nazionale anche da allenatore?
«Penso sia improponibile una prospettiva del genere. Sono appena ad inizio carriera e le tappe si conquistano un po' per volta. Ora penso solo a fare l'allenatore del Posillipo, il resto si vedrà».

Qual è l'episodio da giocatore che ti ha lasciato il ricordo più forte?
«Sono tutti ricordi belli, sia le vittorie che le sconfitte, ma di questo riesci a rendertene conto ancora di più quando finisci la carriera. Ho vissuto tanti momenti esaltanti, dallo storico oro alle olimpiadi di Barcellona nel '92 ai 5 gol rifilati nella finale scudetto alla Pro Recco, ma anche tante delusioni.
Voltandomi indietro, sento di poter dire che son orgoglioso di quello che ho fatto, mi tengo tutto e ricordo con piacere sia i momenti difficili che i successi».

Il tuo corpo è coperto da molti tatuaggi. Hanno una funzione solo ornamentale o ci sono dei significati precisi?
«Non sono tatuaggi semplicemente ornamentali. Ognuno di essi ha un suo significato particolare, ma si tratta di cose strettamente personali per cui non me la sento di renderle pubbliche».

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