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Telegiornaliste anno IV N. 2 (127) del 21 gennaio 2008


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MONITOR Anna Boiardi, basta parlare di Perugia! di Giuseppe Bosso

Dopo alcune esperienze negli States, Anna Boiardi, giornalista professionista dal 2004, approda prima a Canale5 e poi a La7. Negli ultimi tempi lavora a Studio Aperto dove sta seguendo assiduamente il giallo di Perugia.

Se tu potessi intervistare Amanda Knox, cosa le chiederesti?
«La verità! Scherzi a parte, non penso sia facile porsi rispetto a questa ragazza che, in attesa di una sentenza definitiva di condanna, è da considerare innocente. Almeno fino a prova contraria. Cercherei comunque di non farmi influenzare da quello che può pensare di lei la gente, senza scavare nel torbido».

Perugia rappresenta solo l’ultimo capitolo di un’impressionante serie di delitti efferati che hanno riguardato il nostro Paese. Non c’è il rischio che si riproponga lo stesso clamore mediatico che ha suscitato Cogne?
«Sono molto preoccupata per la piega che ha preso la cronaca negli ultimi anni. Purtroppo vicende come questa, come quella di Garlasco e anche quella di Cogne sono esempi di come non si riesca davvero a comprendere cosa sia realmente accaduto. L’attenzione si concentra sui personaggi che ruotano intorno alla vicenda, nella spasmodica ricerca di un colpevole a tutti i costi, con il risultato che, invece, non si riesce a scoprirlo».

Ma perché, a tuo giudizio, gli italiani hanno così tanta voglia di cronaca nera?
«Forse per catarsi. Tragedie osservate da lontano. Si tende a pensare, di fronte a queste vicende, che sono cose inaudite che a te non potrebbero mai accadere. Invece la realtà è ben diversa: gli scenari in cui si sono verificati questi delitti sono molto più vicini di quanto si possa pensare. Succedono spesso a persone “normali”, non a “mostri”. Questo è uno degli aspetti che più mi interessa della cronaca e che mi fa riflettere».

Studio Aperto è il tg giovane per eccellenza, ma non da tutti amato. C’è un blog, ad esempio, non proprio benevolo nei vostri confronti…
«Ti riferisci a Odio Studio Aperto? Sì, lo conosco e ti confesso che lo trovo molto divertente. L’antipatia fa parte di tutte le cose, non si può piacere per forza. Certo, a differenza di altri telegiornali, il nostro ha dei ritmi e delle impostazioni diverse proprio per il fatto che è principalmente rivolto ad un pubblico giovane. La cosa importante, comunque, è che non venga mai meno quella correttezza e quella trasparenza che l’informazione deve sempre garantire».

Com’è cambiata la vostra redazione con l’arrivo di Mulè?
«Temo di non poter rispondere a questa domanda. Sono approdata a Studio Aperto proprio con il nuovo direttore. Non so dire come fosse il lavoro dei miei colleghi in precedenza, ma Mulè è una persona che stimo e ammiro molto per il suo linguaggio e per il suo modo di gestire la redazione».

Studio Aperto è anche Lucignolo. Ti piacerebbe lavorare in quella redazione?
«Se capitasse l’occasione, perché no? Mi darebbe la possibilità di poter curare dei servizi e delle inchieste con tempi maggiori rispetto a quei pochi minuti che può occupare un servizio di telegiornale. E poi i temi di cui si occupa la trasmissione sono molto interessanti. Una nuova sfida che non disdegnerei».

Hai avuto modelli a cui ispirarti?
«Ho conosciuto Milena Gabanelli che è diventata, man mano, un punto di riferimento. Le sue inchieste continuano a essere negli anni le più interessanti. Più che modelli, citerei persone con cui ho avuto la fortuna di lavorare e che mi hanno insegnato molto, da Gad Lerner a Carlo Rossella, e appunto Giorgio Mulè».

Tre aggettivi per definire Anna Boiardi?
«Ambiziosa, testarda e generosa. Ambiziosa, però, cercando sempre di fare attenzione a non perdere quella scala di valori che per me sono sempre stati essenziali, nel lavoro come nella vita».

Ti sono capitati disaccordi con i colleghi?
«Sì, ma c’è sempre stato anche un grande dialogo».

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CRONACA IN ROSA 2008, Anno europeo del dialogo interculturale di Erica Savazzi

Ventisette paesi con lingue diverse, tradizioni diverse, cultura diversa. Questa è l’Europa. Come si possono unire queste diversità, facendo sì che diventino un punto di forza e una fonte di nuove opportunità?

Una risposta l’hanno trovata le istituzioni comunitarie eleggendo il 2008 Anno europeo del dialogo interculturale. Scopo dichiarato è favorire la comprensione reciproca, la convivenza e stimolare il senso di appartenenza all’Europa unita. L’assenza di confini fisici e la libertà di movimento delle persone e delle imprese hanno reso normale la circolazione da uno Stato all’altro, cosicché gli stranieri sono sempre più presenti nella vita di ognuno.
Un'indagine di Eurobarometro, pubblicata a dicembre 2007, mostra come i due terzi delle persone interpellate siano state a contatto, la settimana precedente l’intervista, con almeno una persona di diversa religione, appartenenza etnica o nazionalità. Da qui la necessità di capirsi meglio gli uni con gli altri.

«Nel XXI secolo l’Europa deve far fronte ad una nuova sfida, e segnatamente come diventare una società interculturale fondata sullo scambio, nel pieno rispetto delle idee di ognuno, tra individui e gruppi di provenienza culturale diversa. Vogliamo superare le società multiculturali, nelle quali le culture e le comunità si limitano e coesistere: la semplice tolleranza dell’altro non basta più», ha dichiarato il Commissario Europeo responsabile dell’istruzione, della formazione, della cultura e della gioventù, Ján Figel’.

Un progetto ambizioso che sarà portato avanti per tutto il 2008 e negli anni successivi. In ogni Paese ci sarà uno specifico progetto sul tema, mentre a livello comunitario saranno sette i progetti finanziati. Al centro, la partecipazione attiva dei cittadini.

Per comunicare gli ideali e le iniziative dell’Anno europeo del dialogo interculturale sono stati scelti anche 15 “ambasciatori”. Scrittori, registi, musicisti e cineasti che si riconoscono negli ideali della multiculturalità e che ne saranno testimoni. Alcuni nomi: Jean Pierre e Luc Dardenne, Paulo Coelho, Marjane Satrapi, Agnieska Holland.

All’insegna del motto “Insieme nella diversità”.

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FORMAT Tutto da vedersi di Nicola Pistoia

I buoni propositi per questo 2008, televisivamente parlando, ci sono. Certo, nuovo anno e nuova corsa o rincorsa agli ascolti. Nuove baruffe mediatiche. Le innumerevoli critiche che continueranno a riempire i talk show, i giornali e i tg satirici. Ma alla fine, ciò non è altro che una spolverata di pepe per rendere il tutto ancora più invitante e saporito.

Molte sono le conferme, tanti i classici rinverditi, diversi gli esperimenti tra game show e format da prima serata e alcuni eventi con botto assicurato. Arriveranno le nuove serie de I Cesaroni, Ris, Questa è la mia terra e, più avanti, I liceali, Il sangue e la rosa e Carabinieri. E ancora Capri, Medicina Generale, Ho sposato uno sbirro, Il Commissario Rex e Don Matteo. Ma soprattutto diversi eventi importanti, nel solco dell’impegno civile e della tv di servizio. L’aviatore con Sergio Castellitto nei panni di un uomo che tenta di salvare centinaia di ebrei dalla deportazione, Il presidente dedicato ad Aldo Moro, Il coraggio di Angela contro la lotta al pizzo e La vita rubata con Beppe Fiorello.

Non sarà solo la fiction a farla da padrone. Tanti e diversi gli show come le tre serate previste con Gigi Proietti e il ritorno, a marzo, del Trio Marchesini, Solenghi e Lopez. In ballo anche una nuova idea con Adriano Celentano. Rai1 parte a gennaio con il Bon Ton di Milly Carlucci e I migliori anni di Carlo Conti che, a febbraio, riprenderà i suoi Raccomandati.

Anche su Canale5 la scelta sarà, se non originale, almeno varia. Riecco il Grande Fratello con Alessia Marcuzzi, La Corrida, Il senso della Vita e La sai l’ultima? che segna il ritorno, finalmente, di Lorella Cuccarini. Su Italia1, invece, la sperimentazione di un nuovo programma: Chi ha sposato mia moglie.

Forse qualche novità giungerà da internet e dai canali satellitari, pieni zeppi di cose tanto assurde quanto nuove. Segnaliamo Wine Bar, reality cultural-show ideato e condotto da Giuseppe Maria Galliano. In onda su diverse emittenti terrestri e satellitari, ogni puntata ha una location diversa. Si discute di arte e cultura con ospiti altrattanto variegati, il tutto accompagnato da ottimo vino e gustose pietanze.

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CULT 'O Curt, il cortometraggio si racconta di Valeria Scotti

Nella grande rivoluzione digitale muta il modo di pensare, di fare cinema. Crescono gli autori in video alla costante ricerca di un palcoscenico mediatico. E per quelli che desiderano comunicare in un lasso di tempo breve, il cortometraggio affascina. Sottile, s'insinua in quei pochi spazi che ad esso sono riservati, come concorsi e festival cinematografici.
Abbiamo incontrato Giacomo Fabbrocino, videoartista e critico cinematografico. Tra i fondatori della Scuola di Cinema Pigrecoemme di Napoli e autore di numerosi lavori – tra questi, il suo video Trame, realizzato con Giulio Arcopinto, è stato esposto al Vittoriano di Roma nel 2006 - Giacomo è coinvolto anche in 'O Curt, rassegna dedicata ai cortometraggi che avrà luogo dal 6 al 9 febbraio presso l'Istituto di Cultura Francese Le Grenoble di Napoli.

Dieci edizioni di ‘O Curt. Facciamo un bilancio?
«'O Curt è la più longeva rassegna napoletana di cortometraggi. In tutti questi anni, la manifestazione si è evoluta da piccola vetrina riservata alle produzioni partenopee a festival internazionale con premi, giurati di prestigio ed una risonanza mediatica senza pari, almeno in Campania. Il tutto senza i faraonici finanziamenti che spesso hanno benedetto iniziative ben più cariche di ambizione, ma che presto hanno chiuso i battenti. 'O Curt ha dato spazio ad autori ed esperimenti interessanti e si è proposto anche come momento di riflessione sui linguaggi più sperimentali dell'audiovisivo: non solo cortometraggi di fiction, ma anche videoteatro, videoarte e videoclip musicali. Quest'anno poi, come Scuola di Cinema Pigrecoemme, rinnoveremo il riuscitissimo esperimento dell'anno scorso: una sezione dedicata ai lavori degli allievi delle scuole di cinema italiane. E' nostra intenzione promuovere, piuttosto che la concorrenza, il confronto tra le Scuole di Cinema e siamo lieti del fatto che le più prestigiose tra le scuole di cinema italiane abbiano rinnovato con entusiasmo la loro partecipazione. Bilancio positivo, quindi, anche se una maggiore attenzione da parte delle istituzioni non ci dispiacerebbe».

Il cortometraggio è ancora un banco di prova, una palestra per giungere poi alla produzione di un lungometraggio o si tratta di una scelta convinta?
«Il cortometraggio può essere tutte queste cose, ma è, a mio parere, la forma cinematografica più difficile ed insidiosa di tutte. Il cinema - la regia - è gestione dello spazio e del tempo e, con meno spazio e meno tempo a disposizione, si hanno meno possibilità di coinvolgere lo spettatore e meno possibilità di recuperare agli errori fatti.
Come palestra è sempre la migliore, come forma autonoma non ha ancora alcun appeal commerciale. Credo, tuttavia, che Internet potrà contribuire a modificare le abitudini di fruizione del pubblico».

Chi è il pubblico dei cortometraggi?
«Un pubblico per lo più composto da appassionati di cinema a caccia di primizie. Il saggio di diploma di Lars Von Trier o l'ultimo esperimento in digitale che, con due lire, batte Matrix sul piano estetico fanno gola soprattutto a costoro. Il resto è composto dai parenti e dagli amici dei "cortisti"».

Oggi il web quante opportunità dà alla diffusione dei corti?
«Infinite. Il problema non è tanto la diffusione dei corti via web, ma quanto la libertà con cui girano e montano "milioni" di videomaker influenzerà il linguaggio cinematografico. Niente di nuovo, però: la tecnologia ha sempre influenzato i linguaggi artistici e, tra tutti i linguaggi, è stato ovviamente il cinema ad esserne influenzato di più. Senza ripetere la solita solfa sulle lenti speciali di Greg Toland, sulla steadycam di Garret Brown, o le ovvie considerazioni sull'introduzione del sonoro, ricordiamo, ad esempio, che senza le cineprese leggere non sarebbe esistita la Nouvelle Vague.
In realtà, però, più che con gli strumenti di realizzazione, il parallelo andrebbe fatto con i metodi di fruizione. Mi viene in mente, così, che Internet sta riportando lo spettatore all'originale consumo erratico ed occasionale di audiovisivi. Prima di finire nelle sale, il cinema era un'attrazione da luna park, per divertirsi tra un giro sulla giostra ed un tiro al bersaglio, così come ora un video su Youtube è un ottimo diversivo tra una sessione di chat ed una partita a Zuma o a Teris. Ma non c'è nulla di male».

Qual è la situazione attuale del cinema indipendente?
«Bisognerebbe riflettere su cosa si intende oggi per cinema indipendente. E' più indipendente l'ennesimo film sundance-style farcito di nerd occhialuti che viaggiano in mini van e che alla fine trovano l'amore o George Lucas che, in totale autarchia economica e stilistica, reinventa come un Eisenstein o un Vertov il linguaggio ed i meccanismi di realizzazione del cinema?».

Cosa dobbiamo quindi aspettarci da quest'edizione di 'O Curt?
«Serate piacevoli, sorprese e grande varietà. Saranno proiettate opere cinesi, italiane, polacche, francesi. In più, un incontro con il grandissimo Ugo Gregoretti. Non mancheranno momenti decisamente divertenti: la nostra scuola di cinema sfiderà le scolaresche delle scuole superiori di Napoli a scrivere, girare e montare un cortometraggio in sole tre ore. E poi la mostra Cliciak dedicata alle più belle foto di scena scattate sui set italiani. Ce ne sarà per tutti i gusti».

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DONNE Liala: la Regina "in rosa" di Pinuccia Carbone

Amalia Liana Cambiasi Negretti Odescalchi, questo il vero nome della scrittrice, nasce a Carate Lario nel 1897, da una famiglia agiata. Giovanissima, sposa un ufficiale della Marina più grande di lei di parecchi anni, il Marchese Pompeo Cambiasi. Dall'unione nascono due figlie: Primavera e Serenella.

Insoddisfatta del suo matrimonio, conosce e s'innamora del Marchese Vittorio Centurione Scotto, un pilota dell'aeronautica. Tra i due nasce il vero amore, il classico colpo di fulmine. Ma la storia d'amore ha un brutto epilogo: il pilota resta vittima nel 1926 di un incidente, inabissandosi con il suo idrovolante nel Lago di Varese. Il dolore è forte. Liala si ammala e per diversi mesi non riesce a reagire. Sempre accanto a lei, nonostante tutto, il marito.

Proprio per distogliere la mente dalle sofferenze vissute, Liala - pseudonimo che le dà Gabriele D'Annunzio - comincia a scrivere. Il suo primo romanzo Signorsì, pubblicato da Mondadori, ha una tiratura di oltre un milione di copie, esaurendosi in pochi giorni.

Autrice di circa 80 romanzi in rosa, Liala ha fatto sognare diverse generazioni e le sue storie, ancora oggi, appassionano anche i giovani.
In un mondo dove regnano superficialità ed egoismo, Liala ci riporta indietro nel tempo dove protagonisti erano i veri sentimenti, i grandi valori umani. Il tutto condito sicuramente da una buona fetta di fantasia.

Liala non perde il suo stile e la sua eleganza nemmeno quando, nel 1995, si spegne a Varese. Per il suo ultimo viaggio, infatti, viene vestita con un favoloso abito da sera del noto stilista Valentino.

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TELEGIORNALISTI Paolo Capresi, emergenza rifiuti in primo piano di Giuseppe Bosso

Paolo Capresi, giornalista professionista dal 1996, ha mosso i primi passi nella carta stampata. E' stato il tempo poi del Tg4, TMC, la Rai. Fino ad arrivare a Studio Aperto, dove sta seguendo la drammatica vicenda dei rifiuti in Campania.

Come sta vivendo da inviato l’emergenza rifiuti di Napoli?
«E’un momento drammatico per questa gente che da oltre 43 anni si vede violentata dal problema. Non c’è famiglia delle zone coinvolte che non abbia avuto almeno un morto, un malato di cancro o di leucemia a causa dell’aria e dell’ambiente invivibile. C’è grande paura per la riapertura del sito e questo sentimento ha inevitabilmente favorito l’infiltrazione, tra la gente che si lamenta giustamente per questa emergenza, di gruppi di facinorosi della criminalità organizzata, di chi non ha la cultura della presenza dello Stato. I risultati si sono visti a spese dei vigili del fuoco che sono lì non certo per fare danno, ma per contribuire a superare il problema. Ma a parte questi, fortunatamente, la maggior parte dei napoletani sono persone perbene che vogliono uscire da questo tunnel e chiedono solo ascolto e aiuto. Per quanto mi riguarda, è un’esperienza professionalmente bella anche se molto faticosa».

Che idea si è fatto di questa problematica?
«Si tratta di un’emergenza che ha radici profonde e radicate nel tempo. La criminalità ha scoperto che anche l’immondizia poteva diventare un business molto redditizio, e le istituzioni non sono riuscite ad affrontare la situazione in maniera adeguata. Il conto, purtroppo, alla fine lo paga come sempre il popolo».

Grande la responsabilità delle istituzioni. E la gente?
«Quale responsabilità può avere la gente? I rifiuti vanno comunque buttati. Semmai una responsabilità può essere addossata agli imbecilli che hanno pensato che bastasse incendiare l’immondizia per eliminarla, producendo invece diossina e altri veleni pericolosi che hanno contribuito ad aumentare la tossicità dell’aria».

Nei napoletani che ha avuto modo di avvicinare ha avvertito più rabbia o speranza?
«La rabbia è forte quanto la determinazione nell’impedire ai camion di scaricare nel sito di Pianura. Al tempo stesso ho notato molta rassegnazione. Qualche giorno fa, per esempio, ho incontrato un uomo anziano che mi ha mostrato le ferite che aveva riportato al ginocchio negli scontri con la polizia. In quel gesto ho avvertito questo spirito molto pessimista».

La reazione violenta della gente ha coinvolto anche qualche collega giornalista che si trova a Napoli in questi giorni…
«E’inevitabile che le azioni delle frange violente coinvolgano, oltre alla forza pubblica che tenta di contrastarle, anche chi come noi cerca di fare il proprio dovere pur di portare a conoscenza del Paese questo scenario. Anch’io ho dovuto prendere le mie precauzioni, ma non demordo. In questo contesto ritengo la nostra presenza fondamentale, proprio perché possiamo contribuire a far comprendere alla gente la verità e le vie di uscita che non passano certo per l’aggressione a poliziotti, vigili del fuoco e ovviamente giornalisti».

Quindi anche i media possono contribuire a individuare possibili soluzioni al problema rifiuti?
«Certamente. La nostra funzione è spiegare i fatti e aiutare la gente a comprendere cosa fare per trovare gli opportuni rimedi».

L’emergenza rifiuti ha innegabilmente danneggiato quell’immagine solare e allegra che Napoli ha nel mondo. Quanto pensa potrà durare?
«Devo dire che trovo brutto, ma anche buffo, dover constatare come questa emergenza abbia avuto eco anche nel resto del mondo. Qualche giorno fa ho ricevuto una telefonata da una mia amica che era a New York. Quando le ho detto di essere a Napoli, ha esclamato: "Ma non hai paura delle epidemie che potrebbero scoppiare?". Lo stesso mi è stato detto da una persona che si trova ad Istanbul. Due episodi piccoli ma che mostrano il risalto che questa vicenda ha avuto in ambito internazionale. Anche il turismo ne ha risentito profondamente, come mi hanno detto alcuni taxisti che ho incontrato e che avvertono meno lavoro, rispetto agli altri anni, proprio per il calo della presenza straniera in città. Sicuramente questa situazione ha scalfito l’immagine gioiosa che Napoli ha nel mondo, ma non dubito che, una volta superato il problema, i napoletani sapranno riappropriarsi di quello che rappresentano agli occhi degli stranieri».

Le piacerebbe, in futuro, poter intervenire in un’edizione straordinaria di Studio aperto dal titolo Finalmente è finita l’emergenza rifiuti a Napoli?
«Eccome se mi piacerebbe! La realtà, però, è che ci vogliono gli impianti, ci vogliono le strutture appropriate per lo smaltimento, bisogna trovare dei sistemi per un trasporto sicuro dei rifiuti. Non si può scaricare tutto sul territorio pensando che possa assorbire da sé l’immondizia. C’è tanta strada da fare. Inevitabilmente richiederà molto tempo trovare quei rimedi che i napoletani reclamano, ma spero che un giorno questo possa accadere».

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SPORTIVA Gianni Rivera, dieci per eccellenza di Mario Basile

«Il calcio è come la poesia, un gioco che vale la vita. Anche il poeta ha il proprio campo verde ove parole, colori e suoni vanno verso l’esito felice. Fa anche lui il gol o lo lascia fare, dando spazio alle ali, al lettore che gli cammina al fianco e che entra in porta con lui, nella felicità di avere colpito il segno…».

Descriveva così, Alfonso Gatto, il gioco del pallone. Anni ’70: il calcio era, in effetti, un qualcosa più vicino alla poesia che allo show e, forse, rappresentava ancora la metafora della vita come qualcuno si è divertito a definirlo.
Nel nostro Paese di trent’anni fa, il pallone era quello raccontato da Gianni Brera, visto in tv alla Domenica Sportiva e a Novantesimo Minuto e quello degli ultimi lampi di Gianni Rivera: il numero 10 per eccellenza. Prima di Baggio, di Del Piero e di Totti.
Proprio lui, testimone ed al tempo stesso interprete principale di quel calcio che non c’è più, è stato chiamato ad intervenire alla presentazione de La palla al balzo, sagace raccolta degli articoli di Alfonso Gatto nel periodo in cui collaborava allo sport per Il Giornale di Indro Montanelli.

Non semplici cronache, ma racconti di un calcio oramai lontano che hanno affascinato anche Gianni Rivera: «Negli articoli di Gatto ho ritrovato il calcio dei miei tempi, lontano dalla deriva verso cui sta andando adesso. Come li ho conosciuti? Me ne aveva parlato Ernesto Del Buono, mio amico e grande appassionato di calcio, dicendomi inoltre che Gatto, oltre ad essere un grande poeta, era pure un grande tifoso e il calcio era uno dei suoi amori. Aveva ragione».

Calciatore d’altri tempi Rivera, di quelli che i miliardi non li hanno mai visti tutti insieme, soprattutto se hai poco più di vent’anni e se il calcio per te è prima di tutto un gioco e poi un lavoro.«Non è facile, oggi come oggi, considerare il calcio solo come un divertimento, a prescindere dai guadagni. I ragazzini, però, sono un esempio: si avvicinano a questo sport perché amano giocare. E’chiaro che poi a vent’anni, coi primi guadagni importanti, la fama e la popolarità si rischia di perdere facilmente la bussola».
Non solo i soldi, ma anche i continui episodi di violenza contribuiscono a far perdere fascino al calcio. Una situazione a cui un certo tipo di giornalismo non è estraneo. Rivera conferma: «Certamente, il giornalismo che esaspera i toni, che preferisce i dibattiti urlati non aiuta assolutamente in questo senso. Soprattutto a civilizzare le curve».

Oggi il suo mondo è la politica, ma un uomo che conosce l’ambiente come lui servirebbe molto al nostro calcio. Dopo calciopoli, era considerato tra i papabili alla presidenza della Federcalcio. Non è andata così. Considerato da troppe persone un personaggio scomodo. «Non so se è vera questa cosa – spiega Rivera – ad ogni modo mi sento di dire che è una possibilità, questa di tornare nel mondo del calcio, definitivamente sfumata e non credo avverrà nel futuro».
Il Golden Boy del calcio italiano, il primo azzurro a vincere il Pallone d’Oro, l’autore della rete decisiva in Italia – Germania 4-3, fuori per sempre dal mondo del calcio. Sembra un paradosso.

L’ultima domanda a Rivera riguarda proprio un aneddoto sulla famosa partita dell’Azteca, il 4-3 con la Germania citato prima. Sugli sviluppi di un calcio d’angolo, Muller portò i tedeschi sul 3-3 deviando di testa in rete da posizione ravvicinata. Sfortuna volle che la palla passò tra Rivera e il palo, su cui l’ex calciatore azzurro era appostato. Si disse poi che il portiere Albertosi fosse infuriato con Rivera e che questi si spinse subito in attacco per sfuggire alle ire del compagno e cercare di riscattarsi. Sull’azione successiva, Rivera mise in rete il 4-3.« No, non è andata così – spiega Rivera col sorriso sulle labbra – in effetti Albertosi non era molto contento, però poi i giornali hanno voluto un po’ romanzare la cosa».
Rivera saluta i giornalisti e va via con passo elegante. Lo stesso che ha fatto innamorare San Siro e tutti gli amanti del calcio.

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