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Telegiornaliste anno IV N. 39 (164) del 3 novembre 2008

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MONITOR Teresa Petrosino, giornalista troppo seria di Giuseppe Bosso

Nata e cresciuta a Chivasso, in provincia di Torino, Teresa Petrosino è giornalista professionista dal 2007. Dal 2001 a Telecapri Sport, Teresa è impegnata nei servizi di Rapporto Napoli, rotocalco dedicato alle vicende nella città partenopea, e conduce il tg sportivo Campania Sport, alternandosi con Vincenzo Mele.

Teresa, com’è stata la giornata tipo di una giornalista napoletana in piena emergenza rifiuti?
«Stressante sia di giorno che di notte: pensavo anche a come poter aiutare la gente che vede nel giornalista un punto di riferimento. La cosa più difficile era infondere fiducia nelle istituzioni».

Cosa provavano le persone che incontravi?
«Disperazione per un momento difficile, ma al tempo stesso, per fortuna, non rassegnazione. Non è vero che c’è vittimismo tra i napoletani: c’è un profondo senso di amarezza per l’abbandono che pare averci colpito».

Il nuovo Governo Berlusconi da quando si è insidiato ha dedicato molta attenzione a Napoli: quale bilancio pensi di poter trarre da questi primi mesi?
«Questo Governo ha preso un impegno davvero troppo grande per potersi tirare indietro. I risultati raggiunti finora dimostrano che con il pugno fermo si possono risolvere le problematiche di una città come la nostra».

Tra tante emergenze Napoli ha comunque trovato un sorriso con la squadra di calcio che, dopo anni di lontananza dalla serie A, sta guidando il campionato. Per il futuro cosa vedi?
«Credo che questo Napoli possa competere con le big del Nord: la forza sta anzitutto in una società solida ed efficiente che è sapientemente orchestrata da un grande come Pierpaolo Marino, che ha la capacità di scovare, anche grazie ai suoi collaboratori, i campioni del domani».

Ma quale sarà il compito della società azzurra in futuro? Andare a caccia di nuovi talenti da lanciare, oppure difendere i suoi campioni dalle ricche offerte italiane - e non solo?
«Prima che col calciomercato, io credo che la società azzurra debba sforzarsi soprattutto nel rapporto con i media, con il pubblico. In passato è capitato di assistere spesso a silenzi stampa, ma il Napoli non deve mettere un muro tra tifosi e pubblico…».

Lo sport può contribuire a risollevare le sorti di una città, di una regione, di tutto il Mezzogiorno?
«Credo che lo sport sia un toccasana, se fatto con impegno e passione. Occorre che le squadre riacquistino un minimo di moralità, ma mi rendo conto che oggi, con le società quotate in borsa, l’aspetto sportivo tende a cedere il passo a quello commerciale».

Cosa significa per te lavorare a Telecaprisport?
«Una grande soddisfazione che ho inseguito da tanto. Soprattutto sono lieta di aver trovato veri amici tra i quali Paolo Del Genio, Francesco Pezzella e Cristiana Barone».

Se ti proponessero un lavoro per un grande canale nazionale, come cambierebbe la tua vita?
«Mi soddisfa andare in giro per i quartieri e vivere a stretto contatto con la gente, per me è come fare un tirocinio giorno per giorno. Lavorando in una tv nazionale sicuramente otterrei grandi soddisfazioni dal punto di vista economico, ma per contro sarei una delle tante».

Come definisci Cristiana Barone?
«Tutto lavoro!». (scoppia a ridere, ndr)

E tu, invece?
«Seria e pragmatica. Troppo seria, forse…».
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CRONACA IN ROSA Donne che non si arrendono di Federica Santoro

A San Luca, un piccolo paese dell’Aspromonte in provincia di Reggio Calabria, tristemente famoso per fatti di sangue legati alla ’Ndrangheta, un gruppo di donne ha deciso di non arrendersi al ruolo di complici o vittime, ma di opporsi e pretendere la pace.

E' nato così il movimento Rosa delle donne di San Luca, un’associazione libera, apolitica e apartitica, impegnata nella valorizzazione di talenti e competenze locali attraverso la realizzazione di progetti mirati.

Per favorire l'occupazione e l'emancipazione femminile sul territorio. Il movimento si preoccupa anche di sostenere gli ex detenuti nel loro reinserimento nel mondo del lavoro e le famiglie che affrontano queste problematiche. Tutto ciò attraverso il recupero delle strutture del Comune inutilizzate: trasformate in luoghi di socialità e convivialità artistica e ricreativa.

«Il movimento delle donne di San Luca è un momento storico, è un coro, una risposta, una mossa – afferma Rosy Canale, imprenditrice, presidente e fondatrice del gruppo -. È tutto quell'insieme di sogni che queste donne hanno nel cuore, ed è tutto quello che insieme riusciremo a costruire. Siamo donne che conoscono il dolore ma non lo esibiscono, donne che amano la propria terra per quanto amara, le proprie radici per quanto maledette, e i propri figli».

Ma è anche un modo per sfuggire a un destino di ultimi, di figli dimenticati di un’Italia che fa finta di non sapere per poter restare indifferente, di uno Stato che, continua Rosy, «ancora non ci ha riconosciuti, ma che spesso ci rinnega, di un’Italia che non ci difende, ma che ci offende nella nostra dignità di cittadini non-cittadini».

Oggi San Luca torna a far parlare di sé, questa volta però al di fuori dei luoghi comuni del giornalismo sensazionalistico, raccontandoci la nascita di un movimento che è rinascita. La volontà è espressione di questo gruppo di donne e uomini, volontà di rilanciare l'immagine del paese creando opportunità di lavoro e sviluppo sostenibile, guardando alla tradizione - ad esempio al ricamo - per far ripartire la speranza, per mettere in luce i talenti del posto e costruire con determinazione e coraggio un domani migliore.
 
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FORMAT Arriva l'esercito delle web tv di Federica Santoro

Quali sono stati gli effetti del calo d’audience della tv generalista, vuota e autoreferenziale? Semplice, la nascita di una forma embrionale di Tele democrazia con decine di micro web tv create dai cittadini, che documentano storie metropolitane e di comunità.

A raccontare questa nuova realtà tutta italiana di "protagonismo televisivo digitale dal basso" ci ha pensato il meeting delle web tv Paese che vai, che si è svolto a Milano il 10 e l’11 ottobre. Due giorni in cui l'esercito dei micro editori televisivi si è confrontato con gli altri canali e con gli addetti ai lavori.

Al meeting milanese, tenutosi presso l'Università Iulm, hanno partecipato ben 38 canali video online: «Queste web tv sono create da cittadini videomaker per passione - sottolinea l'ideatore del meeting Giampaolo Colletti, già autore delle Storie di Nòva-Sole24Ore e del progetto Altratv.tv - il problema del digital divide viene scavalcato dalla pura creatività».

All'incontro erano presenti anche Axel Fiacco (MTV Italia), Bruno Pellegrini (Yks) e Riccardo Pasini (Odeon), per testimoniare la necessità di ripensare l’idea di televisione, a partire da un’ampia partecipazione locale dal basso. Afferma Axel Fiacco: «Qui le web tv parlano apertamente, non c'è concorrenza. Nei meeting dei broadcaster tutto viene veicolato con diffidenza. In tv - continua - l'evento non paga, in queste proposte c'è spazio per l'avvenimento spesso territoriale».

«Questa generazione di nuovi videomaker che nasce a pane e telecamera si caratterizza per lo scambio di esperienze. Il modello è quello del giornalismo americano collettivo, la dimostrazione che l'equazione "tante community, tanti broadcaster" funziona», precisa Bruno Pellegrini. Quindi progetti che trasformano radicalmente l’estetica della tradizionale tv generalista e ritornano ad una dimensione locale e più aggregativa.

Come accadeva una volta nei bar seguendo Lascia o raddoppia, oggi, precisa Riccardo Pasini: «Queste web tv sono accomunate da un senso di appartenenza quasi fisica e di comunità». Alla base del successo di questo fenomeno esplosivo c’è un’intuizione: aver saputo sfruttare al meglio le potenzialità di aggregazione del network, veicolandone il linguaggio, attraverso un modo nuovo e democratico di fare cultura.
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CULT Mi piace un casino, le case chiuse in mostra di Valeria Scotti

Non c'è solo il desiderio di alimentare un dibattito in realtà sempre acceso, ma anche lo spirito di ricordare cosa erano un tempo le case di tolleranza, e celebrare l'anniversario dell'abolizione di quelle case chiuse, il 20 settembre 1958, con la Legge Merlin. Mi piace un casino è il titolo della mostra in atto a Milano e in programma fino al 31 dicembre presso lo show-room di Crazy Art, a due passi dal vicolo Calusca che accoglieva le signorine milanesi in attesa dei clienti.

Numerose immagini d'epoca – foto erotiche di donne audaci, mai quanto oggi - una collezione di reggicalze e guepieres del tempo, curiosità ed aneddoti che fanno parte di una ricca collezione privata del bolognese Antonio Belletti, rappresentante della Goliardia. E poi la riapertura di cinque ambienti di una vera casa chiusa grazie al lavoro di Giancarlo Ramponi e di sua moglie Rosella, titolari dello show-room.

Due entrate, la prima destinata a militari e popolani per atti consumati velocemente, la seconda più elegante e di lusso, con il trionfo del rosso porpora in ogni angolo, dai sofà alle carte da parati, passando per le luci a forma di corpo femminile.
Il tariffario sempre ben visibile – per prestazioni di dieci minuti, mezz'ora e un'ora – e, in una teca, le marchette ovvero i gettoni di varie forme che testimoniavano il pagamento e il tipo di prestazione voluta dal cliente di turno.

Non manca lo stanzino con finto specchio, vera chicca per il voyeur che poteva così soddisfare le sue richieste proibite, la sala ginecologica, dove le signorine venivano periodicamente visitate, e i lavabi e i servizi (poco) igienici dell'epoca.

E per il settore memorabilia? Si va dalla rara "ciuladura", una particolare poltrona per i clienti più anziani, alla lampada meccanica rossa con la riproduzione a carillon di cinque piccole ballerine: la loro danza contemporanea significava che non vi era alcuna signorina disponibile. Tutto occupato, si prega di riprovare.
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DONNE Rossella Arena, l’esordio di una scrittrice di Chiara Casadei

Anche se per i giovani trovare la propria strada nel mondo del lavoro è quasi un salto ad occhi chiusi, qualcuno decide di buttarsi e, con grande sorpresa, a volte l’atterraggio si rivela soffice e soddisfacente. È stato così per Rossella Arena, calabrese trapiantata a Perugia, venticinque anni, che già un anno fa pubblicava il suo primo libro Nonostante i miei genitori (Alcyone), una raccolta di storie diverse, di personaggi che raccontano le loro emozioni più nascoste. Con questa intervista, Rossella ci parla di sé e del suo romanzo.

Rossella Arena studentessa. Il percorso da lei intrapreso è prettamente letterario. Come è nato il suo interesse in questo campo?
«È nato molto presto, diretta conseguenza dell’amore per le parole. A tre anni sapevo leggere: ho iniziato dai segnali stradali e dalle scritte che vedevo in televisione o sugli oggetti che mi circondavano. Qualunque cosa, appena “la leggevo”, appariva diversa, più mia. Credo che il mio legame con le parole sia così forte proprio perché si è creato quand’ero ancora piccola, in un’età in cui non c’è separazione fra ciò che si prova e ciò che si è. Ecco perché ancora oggi il contatto coi libri mi fa sentire bene, mi riempie di piacere».

Rossella scrittrice. Ha pubblicato da più di un anno il libro d’esordio Nonostante i miei genitori. Come è nata l’ispirazione e quanto la sua esperienza ha influito sull'argomento e sulla stesura del romanzo?
«La prima cosa importante che ho davvero compreso, e cioè quanto sia necessario diventare sé stessi, ha generato questo mio primo libro. Come grida il titolo, vivendo e interagendo con mamma e papà fin da piccolissimi, creiamo in noi delle idee e dei modi di percepire gli altri e le situazioni che dipendono in gran parte dai loro. In alcuni casi questo condizionamento è molto evidente: quanti ragazzi e adulti, ad esempio, seguono oggi le anacronistiche idee politiche dei propri genitori? In altri casi il condizionamento è più sottile, invisibile nelle parole ma presente nei fatti. Così era - e ancora è - per me, così è per moltissimi. L’ispirazione, dunque, è sempre stata presente, in ogni momento della mia vita: bisognava attendere quello giusto per concretizzarla».

Secondo lei il rapporto genitori-figli è diventato più difficile?
«Rispetto ad un tempo, penso proprio di no. Il dialogo è oggi più frequente e reso possibile dalle migliori condizioni socio-economiche. Se pensiamo a una famiglia del dopoguerra, che spesso non aveva cibo sulla sua tavola, possiamo immaginare che al suo interno parlare con i figli e occuparsene psicologicamente non costituissero certo delle priorità per i genitori. Oggi è diverso, il benessere materiale è maggiore e in teoria ci sarebbe più tempo e modo in famiglia di conoscersi, di confrontarsi. Eppure il pericolo frequente è di perdersi in tutto ciò che abbiamo, di riempire vuoti e necessità reali con le mille possibilità che il mondo odierno offre. Da quel che ho visto, molti genitori tengono al giudizio dei propri figli così tanto che tendono spesso ad accontentare subito le loro richieste, senza pensare a ciò di cui potrebbero veramente aver bisogno. Il rapporto si costruisce sull’apparenza, e conoscersi diventa impossibile. Cosa ancora più fondamentale, i genitori si dimenticano spesso che, al di là del loro ruolo, sono delle persone, che hanno dei bisogni e dei problemi che non devono essere dimenticati, ma assolutamente affrontati. Altrimenti allo stesso modo ignoreranno problemi e bisogni dei propri figli».

Mirava fin dall’inizio alla stesura di un libro oppure è stata un’inaspettata sorpresa “collaterale”? Come è riuscita a farsi pubblicare così giovane, qualche asso nella manica da svelare?
«Fino a tre anni fa non pensavo di poter pubblicare un libro. Come la lettura, la scrittura era una profonda esperienza interiore che custodivo per me. Poi all’improvviso, un caldo pomeriggio in cui riflettevo sulla dipendenza psicologica dai genitori, si formarono chiari nella mia testa il titolo del libro, la sua struttura e la convinzione che sì, l’avrei scritto e pubblicato. Non so come ci sono riuscita: ho liberato le mie parole verso il mondo dell’editoria, in cui non conoscevo nessuno. Mi sono certo documentata molto, soprattutto tramite il prezioso internet, sulla realtà in cui aspiravo ad entrare: ho reperito materiale sulle diverse case editrici, su come contattarle e sulle modalità di presentazione del manoscritto, su scrittori e giornalisti. Un’altra cosa importante è confrontarsi con chi come te scrive, per accrescere i propri interessi, per venire a conoscenza di opportunità letterarie impensabili».

Ogni anno in Italia si pubblicano migliaia di nuovi titoli: perché un lettore dovrebbe scegliere di acquistare il suo libro?
«Perché quello che scrivo non è frutto di sterile speculazione intellettuale. Io scrivo tenendo ben presente il mio desiderio di crescere e ritenendo la crescita stessa la cosa più importante nella vita di un lettore e di un essere umano. La mia scrittura, come la mia vita, è ricerca continua del contatto autentico con sé stessi, di tutto ciò che non è davanti ai nostri occhi, di mondi e possibilità ulteriori. Il mio libro parla di un argomento che riguarda tutti, ma cercando di portare sotto i raggi del sole quegli aspetti che di solito vengono relegati in angoli bui. Pagina dopo pagina, leggendo le storie dei diversi protagonisti, spero che ogni lettore trovi il coraggio di raccontare, anche solo a se stesso, la propria storia».

Quali consigli darebbe alle giovani scrittrici emergenti?
«Ciò che si scrive diventa più profondo e vero man mano che ci si conosce meglio e si vive realmente. Il mio consiglio è quello di arricchire quotidianamente la propria vita, sia attraverso il contatto con le persone e le cose che si amano, sia attraverso l’esplorazione di mondi nuovi, che di conseguenza permettono di scoprire parti inedite di sé. Bisogna vivere nel mondo e poi uscirne e scrivere, poi rientrarci e allontanarsene ancora. È un continuo movimento dai suoni e rumori al silenzio. Per le studentesse, più che un consiglio un incoraggiamento: non rinunciate a trovare il tempo e il luogo adatto per scrivere! Lo studio, per chi lo porta avanti seriamente, risulta molto più impegnativo di un normale lavoro. Al termine della giornata lavorativa, solitamente si torna a casa ed è possibile a quel punto dedicarsi ad altro. Chi studia, invece, rischia di trascorrere tutta la giornata a lezione e, al ritorno a casa, di continuare a prepararsi per esami e verifiche. Molti studenti inoltre lavorano per guadagnare qualche soldo; aggiungendo il tempo per le normali relazioni e amicizie, rimangono forse poche ore. In questa trottola di impegni, si rischia di perdere l’attaccamento alla scrittura, di dimenticarla, di non scrivere anche per mesi. Bisogna invece delimitarle, a tutti i costi, uno spazio quotidiano».

Che progetti ha in cantiere per il futuro?
«I miei progetti cambiano in continuazione, perché io muto e cresco ogni giorno! In ogni caso, mi sto dedicando allo studio di lingue straniere, in particolare il francese. Proverò dopo la laurea specialistica ad accedere ad una Scuola di Dottorato, magari a Torino, la città italiana che finora amo di più. Da qualche tempo penso anche che la cosa migliore sarebbe vivere per un periodo all’estero. Ho saputo che in Francia le borse di dottorato ti garantiscono un assegno mensile che è quasi il doppio di quello italiano; la recente riforma dell’istruzione poi, non mi incoraggia certo a rimanere. Per quanto riguarda la scrittura, sto scrivendo il mio secondo romanzo e altri lavori. Tema principale: la malattia, amica provocatrice».
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TELEGIORNALISTI L’Africa di Enzo Nucci di Erica Savazzi

«L’Africa affascina perché è il Regno del Possibile. Qui a volte ancora sogno e realtà si confondono, i confini diventano labili tra il racconto e il vissuto. Convivono tutto il bene e il male del mondo, una inaudita violenza - che porta alla costituzione di eserciti di bambini soldato ferocissimi - si sposa a una solidarietà estrema. In alcuni paesi non esistono gli orfani perché i piccoli sono adottati dalla comunità. E poi, nonostante tutto resta un territorio totalmente inesplorato, ancora da raccontare. In Italia poi lo ignoriamo».

Enzo Nucci invece l’Africa la conosce benissimo. Corrispondente Rai da Nairobi per tutto il continente, lo vediamo alla prese con reportage e servizi da zone di guerra come il Darfur. Nessuno potrebbe sospettare che all’inizio della carriera giornalistica fosse invece il cinema a interessarlo:
«Il cinema è stato il mio grande sogno, la mia passione infantile. Per un periodo - anche lungo e felice della mia vita - sono riuscito a trasformare quello che era un piacere puro in un lavoro ricco di soddisfazioni. Ma poi ho capito che la vita era altrove. La vita andava oltre la celluloide o le pagine dei libri. La vita, l’avventura era nella strada, sotto casa, nelle persone che puoi incontrare in autobus. Ho capito che rischiavo di rimanere soffocato nella sala buia dove si proiettavano i film, prigioniero di sogni e, da un punto di vista strettamente professionale, molto emarginato, chiuso in un limbo giornalistico spesso dominato da signori della sala buia maldisposti a cedere il posto ai nuovi arrivati. E così ho scelto di fare un bagno nella cronaca nera nella mia città, Napoli.

Un passaggio impegnativo.
«La fine degli anni 70 e l’inizio degli 80 segnano il passaggio dalla camorra impegnata nelle tradizionali attività del malaffare (droga, prostituzione, gioco d’azzardo, usura, etc.) a una camorra in grado di controllare settori dello Stato e delle istituzioni, di influire sulla vita quotidiana di una intera città. La cronaca nera che ho conosciuto era appassionante proprio per questo, perché già da allora si capiva il salto di qualità che si preparava a fare. È stata una grande scuola professionale, fatta di maniacale precisione, attenzione ai dettagli all’apparenza insignificanti, capacità di ragionamento e di mettere insieme pezzi all’apparenza distanti. Ricordo che proprio a Napoli, in quegli anni, fu siglato lo scellerato patto tra malavita e Brigate Rosse che portò a sequestri ed omicidi ancora non chiariti a quasi 30 anni di distanza. Insomma, formidabili quegli anni…».

Sul sito Articolo 21 hai parlato dell’impossibilità di fare il giornalista in Darfur a causa di interventi governativi. Come agisce un inviato in questi casi?
«Sono stato espulso dal Darfur senza spiegazioni solo perché mi trovavo nella zona del campo profughi di Kalma dove sono state uccise 46 persone e altre 200 ferite. Non mi è stato possibile fare il mio lavoro dopo che mi erano stati accordati tutti i permessi. In questo caso, un giornalista non può che continuare a denunciare quanto è successo, cercando di far capire che dietro una macroscopica censura si nasconde il tentativo del governo centrale di celare le condizioni di vita in cui versano i rifugiati e la popolazione locale. Per quanto riguarda il Darfur, la questione è molto complessa: non ci sono confini tra buoni e cattivi, anche lì operano signori della guerra interessati a mantenere incandescente la situazione per continuare ad arricchirsi».

Sudan, Somalia, Etiopia, Eritrea, Nigeria: l’Africa è martoriata da conflitti e pare non riuscire a uscirne. Qual è secondo te il ruolo del giornalismo in questi contesti?
«L’Africa sconta il fatto di non avere una classe dirigente in grado di governare un continente potenzialmente ricco di materie prime, autosufficiente dal punto di vista alimentare, con un mare di intelligenze non utilizzate. La fase di decolonizzazione è stata troppo veloce, improvvisa, caotica e il continente per troppi anni è stato lo scenario in cui le superpotenze - Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina - si sono scontrate indirettamente appoggiando le diverse fazioni in lotta. Anche Nelson Mandela non è riuscito ad individuare un gruppo dirigente capace di guidare il Sudafrica che oggi vive una profonda crisi. Il giornalismo occidentale ha il compito di illuminare queste realtà, tenere accesa la luce perché il destino del mondo non dipende solo dall’elezione di Obama alla Casa Bianca. Far conoscere queste realtà dove ci sono anche tante cose positive che in occidente si ignorano, come tantissimi stilisti, registi cinematografici, scrittori, pittori che non hanno nulla di meno dei loro colleghi europei, statunitensi. Bene, cominciamo ad incontrali e conoscere: hanno tanto da dire».

L’Africa – soprattutto quella non mediterranea - è un "continente dimenticato": se ne parla solo in occasione di conflitti. Eppure è anche un continente su cui si concentrano le attenzioni di molte potenze – basti pensare alla Cina in Sudan – per non parlare poi dell’interesse per le risorse naturali, petrolio in primis. Come spieghi questa ambivalenza?
«Le memorie dei nostri computer e i nostri telefonini funzionano solo grazie ai materiali che si estraggono in Africa. Le industrie cinesi vanno avanti grazie al petrolio africano. Diamanti, oro e altri materiali preziosi che vedete nelle vetrine newyorkesi vengono da qui. Eppure si parla di Africa solo per ricordare quanti soffrono la fame - e sono ovviamente tantissimi - le guerre... Al massimo siamo disposti, quando siamo benevoli, a soffermarci sugli aspetti esotici, il ritmo che hanno innato, una serie di inutili banalità. È un continente che ispira tutto questo perché convivono cose diverse e opposte ma dobbiamo anche cominciare a pensare che ci sono tante differenze. Pensate che in Africa ci sono almeno 2500 etnie, un numero pari di lingue e stati spesso costruiti dagli europei con il tratto di una matita, annullando tutte le differenze. Cominciamo a capire la diversità e la complessità, altrimenti non capire mai nulla. Come occidentali dovremmo innanzitutto prendere coscienza di non conoscere».

Preparare dei reportage è molto impegnativo.
«Preparare un reportage richiede tempo. Innanzitutto documentazione. Internet è importante, ma non è la chiave di volta perché la Rete non è il Vangelo. Quindi è necessario leggere libri, documenti delle organizzazioni internazionali che spesso non sono reperibili in rete. È necessario individuare gruppi, singoli che operano e conoscono il territorio per ricevere da loro suggerimenti, idee. Chi opera sul campo è più aggiornato delle notizie che hai sulle rete che spesso sono fallaci. L’esperienza diretta in posti difficili conta più di tutto. E poi notizie sul clima che troverai, necessità di vaccinazioni particolari, di oggetti da portarsi che sono magari di uso comune in Kenya, ma impossibili da trovare in loco».

Spesso chiediamo alle telegiornaliste se hanno problemi a conciliare vita privata e lavoro. Data anche la tua lontananza dall’Italia, ti sei mai dovuto confrontare con questo problema?
«Conciliare vita privata e lavoro è difficilissimo. Si paga un prezzo alto. Una volta si diceva che le mogli dei giornalisti erano le vedove bianche perché con i mariti in giro per il mondo c’era poco da stare allegre. Ovvio che ognuno ha storie e rapporti diversi alle spalle, capacità di tolleranza casalinga che variano. Sicuramente questo lavoro impone delle rinunce nella vita privata, al di là della retorica. Il prezzo della tua lontananza da casa lo paghi, sempre e comunque. Un bel servizio spesso ti lascia l’amaro in bocca per una situazione privata. Insomma, conciliare famiglia, affetti e il lavoro di giornalista su campo - che ti impone assenze da casa e dagli affetti - è una bella sfida. I fortunati si facciano avanti».
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SPORTIVA Una morte assurda di Pierpaolo Di Paolo

Sono passati pochi giorni dalla tragedia che si è abbattuta sul mondo del tennis lasciando tutti increduli. Una notizia piombata come un fulmine a ciel sereno, di quelle a cui si fa fatica a credere. Federico Luzzi, ricoverato giovedì per i sintomi di una polmonite, è morto.

Nato ad Arezzo nel 1980, Luzzi è stato una delle più grandi promesse del tennis italiano di questi ultimi anni. La sua carriera ha una svolta nel 2001, quando - a soli 21 anni - si guadagna la prima convocazione in Coppa Davis, esordendo con una vittoria contro il finlandese Liukko. Grazie a lui, l'Italia tennistica non sprofonda in serie C.

All'apice della sua carriera, Luzzi scala le classifiche diventando 92° nel ranking mondiale e terzo in Italia, ma proprio quando i tempi sembrano maturi per la sua definitiva consacrazione, la sfortuna comincia ad accanirsi sul giovane talento italiano. Nel 2002 un grave infortunio alla spalla condizionerà la sua carriera. Finito al 500° posto del ranking, per Luzzi inizia un periodo buio e tormentato.

Nel 2004, mentre tenta una difficile risalita, Federico si trova di fronte l'avversario sbagliato al momento sbagliato. Il tabellone lo oppone all'austriaco Koellerer, personaggio noto per la scarsa educazione e la provocazione facile. Il match racconta di una gara molto difficile per Luzzi, in cui l'austriaco sottolinea ogni suo punto esultando in maniera spropositata, suonando la racchetta a mo' di chitarra, deridendo il suo avversario.
A partita oramai compromessa, l'aretino perde la testa. Abbandona la gara ancora non terminata e in luogo della consueta stretta di mano l'austriaco si ritrova un meno accomodante pugno sul viso.
Il comportamento di Koellerer è stato così palesemente antisportivo, e tanti sono i campioni che si schierano con Luzzi contro l'antipatico austriaco, che - clamorosamente - l'ATP decide di squalificare anche Koellerer.

Superato questo brutto episodio, inizia per l'aretino una lenta risalita, fermatasi bruscamente sabato 25 ottobre. Poco dopo aver giocato un match, Luzzi si sente male. Ricoverato giovedì 23 all'ospedale di Arezzo per una sospetta polmonite, la diagnosi è impietosa: leucemia fulminante. Federico muore due giorni dopo. Lo stupore, che si è abbattuto su tutti, emerge dalle parole che Rafael Nadal dedica all'amico scomparso: «Non volevo credere alla notizia della sua morte. È andato via uno di noi. Spero che adesso, ovunque tu sia, ti trovi bene».
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