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Intervista ad Andrea Facco tutte le interviste
Telegiornaliste anno IV N. 10 (135) del 17 marzo 2008

Andrea Facco, aspettando Pechino
di Camilla Cortese

Andrea Facco, giovane talento di ritorno dalla Cina, espone alla Galleria Boxart di Verona fino al 10 Maggio. Waiting for Beijing è una ricerca pittorica su grandi tele che raccontano, con il segno dell’arte concettuale, il grande cantiere a cielo aperto della città di Pechino, le contraddizioni della modernità e l’attesa per i Giochi Olimpici. Beijing diventa crocevia della nuova Cina che verrà.

Sei stato notato giovanissimo da Peter Weiermair e hai esposto anche a New York. Sei consapevole del tuo talento?
«Non mi fido di quello che dicono gli altri e litigo spesso con i galleristi per convincerli a lavorare come voglio. Non dipingo tutti i giorni, non sono il classico pittore anche se il mio mezzo è la pittura. Ciò che conta è l’idea iniziale, quella che ti spinge a dipingere, anche se il giorno dopo mi piacerebbe avere già l’opera pronta. Dall'idea alla realizzazione c’è in mezzo tanto tempo e spesso non è divertente».

Ti riconosci nella definizione di artista concettuale che ha dato di te il critico Luca Beatrice?
«Io ho un non-stile perché posso farli tutti. Questa mostra è abbastanza monotematica, ma in genere nella mia pittura c’è il passaggio dal grande al piccolo. Lavoro a quadri enormi e miniature come francobolli cercando di mantenere la stessa qualità. Non è facile, ma è un mettermi alla prova. Mi riconosco come artista concettuale e quando mi danno dell’iperrealista non sono contento: i miei quadri lo sembrano, ma la pittura iperrealista si ferma solo allo stupore per l’abilità tecnica, all’illusione della rassomiglianza con la realtà e con la fotografia, mentre trovo che nei miei lavori ci sia qualcosa in più. Prima l’idea, poi l’esecuzione, e se l’idea necessita di un’immagine iperrealista, io mi adeguo».

Le opere in mostra creano un’illusione di realtà, il miraggio di grandezza inseguito dalla nuova Cina. C’è un significato politico?
«Più che una presa di posizione politica o sociale, c’è una visione: mi trovavo in quel mondo senza giudicare o denunciare e ho raccontato ciò che ho vissuto davanti alle forti contrapposizioni di Pechino. Lì si mescolano presente e futuro, moderno e antico, poveri e ricchi. Ci si ricorda di essere in Cina solo per i cinesi, ma in realtà ci si trova di fronte a una città nuova. A parte piazza Tienanmen, non c’è altro da vedere a Pechino: solo autostrade interne e grattacieli. E la città è sempre più allucinante e anonima».

Come riesci a coniugare il fascino per l’Oriente con una assoluta assenza di esotismo e romanticismo?
«Non è facile perché questo progetto sulla Cina prevedeva che apparissi con altri artisti cinesi, che mi confrontassi con loro. In realtà mi aspettavo qualcosa di diverso: sono stato poco affascinato dall’Oriente perché, a Pechino, l’Oriente non c’è».

Perché miniaturizzi i tuoi quadri e poi li spedisci?
«Perché spedirli è un segno d’affetto per chi riceve. E poi c'è una sfida: da un lato mi perfeziono, mi misuro nel vedere il mio limite come pittore, dall'altro sfido l’istituzione, perché quando le Poste timbrano e affermano che la tua opera è reale, allora significa che l’arte può essere una cosa concreta, che scende dal suo piedistallo per far parte della vita».

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