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Intervista a Corrada Onorifico   Tutte le interviste tutte le interviste
Corrada OnorificoTelegiornaliste anno XII N. 29 (502) del 12 ottobre 2016

Corrada Onorifico, viaggio tantissimo ma il mio hortus conclusus è il mio luogo dell’anima
di Giuseppe Bosso

Documentarista, autrice, regista e volto televisivo Corrada Onorifico si racconta

Chi è Corrada Onorifico, cos’ha fatto e cosa farà?
«Per anni ho raccontato di turismo internazionale: ho realizzato documentari su grandi viaggi per testate come la Rai, Rai International e Sky, e per diverse emittenti locali campane. Parlare di turismo significa affrontare i posti visitati con spensieratezza e levità, cogliendo quegli aspetti che possono piacere a chi fa del viaggio un momento di piacere e relax; ma questo non mi appagava fino in fondo, sentivo il bisogno di guardare il mondo con una visione più antropologica. Con questo spirito due anni fa ho mollato tutto per dedicarmi a ‘viaggiare’ così come avevo sempre desiderato fare, e per non abbandonare la passione di raccontare ho creato viaggidarte.com, il blog nel quale raccolgo le mie personali considerazioni su quello che mi capita lungo il cammino: non sono consigli su come, dove e cosa fare, non li accetterei io figuriamoci se pensassi di propinare agli altri i miei percorsi o le mie scelte; un viaggio nasce nel momento in cui lo stai vivendo, non lo si può confezionare dietro una scrivania con i suggerimenti degli altri, il viaggio è un modo di vivere e di respirare quello che guardi al momento».

Nell’attuale scenario internazionale viaggiare è diventato un rischio?
«Le tristi vicende degli attentati che abbiamo vissuto in estate inevitabilmente scoraggiano e ciò provoca sofferenza a quei Paesi che di turismo vivono: mi dispiace che Paesi come l’Iran e la Giordania, così ricchi di storia e di luoghi da visitare vengano visti come territori a rischio; bisognerebbe trovare il coraggio di superare queste paure, di riavvicinarsi a questi posti, e penso anche alla Turchia; si rinuncia a visitare una terra affascinante come la Cappadocia, nel cuore dell’Anatolia, dove la gente vive quasi unicamente di turismo… credo bisogni ritrovare questo coraggio, ovviamente senza colpi di testa».

Questo tipo di format a cui sei legata come si adatta a una realtà locale come quella delle tv campane?
«A cui ero legata vorrai dire, parliamo al passato: come ti ho già detto oggi vivo il viaggio con uno sguardo più da reporter, ed il mio linguaggio non è più televisivo ma da internauta; il format di cui parli nasceva come ‘refuso’ dei documentari che realizzavo per la Rai, documentari dedicati al turismo ma con una veste istituzionale. Finite le riprese convenzionali, alle quali dedicavo molta concentrazione spesso chiedendo ai cameramen enormi sforzi, mi inventavo delle scenette che vedevano protagonisti gli operatori stessi, gli assistenti o chiunque mi capitasse a tiro… era un modo per giocare, rilassarci e per creare un affiatamento che nel tempo ha dato risultati straordinari. Un format nato per gioco che poi invece ha avuto un grande seguito in quella che tu chiami realtà locale. Ma anche qui devo correggerti: realtà locale pre digitale. Prima dell’avvento del digitale le tv locali avevano ancora un ‘pubblico’, che veniva studiato e monitorato grazie all’auditel; a quel pubblico il mio programma sui viaggi piaceva molto, proprio perché usava un linguaggio poco formale, differente dalla gelida e impeccabile comunicazione delle reti nazionali. Una ragazza come tante, che viaggia, come tante desidererebbero fare, e che combina guai, come tanti... insomma aveva tutto per piacere, il gioco, la simpatia e, cosa rara nelle tv nazionali, l’autenticità di un personaggio reale, Ina. Quello che il digitale ha comportato con la sua entrata in vigore è talmente vecchio che è già storia, oggi è il cyberspazio che detta legge, ed io ne sto studiando lo statuto... sempre rigorosamente per gioco!».

Qual è il tuo luogo dell’anima?
«Il mio giardino, nell’accezione medievale di hortus conclusus; un posto, il mio, che ho cercato, desiderato e finalmente realizzato: il mio giardino, con il mio orto, con i miei animali e i miei fiori è il mio luogo dell’anima».

Non pensi che la ‘donna d’avventura’ di cui potresti essere un esempio sia ormai un’immagine abusata e usurata?
«Premetto che non sento il bisogno di specificare il mio essere donna. Probabilmente mi attirerò l’odio delle vostre lettrici, ma ho sempre ritenuto sbagliato l’atteggiamento di dover difendere questa caratteristica o di doverla esibire a tutti i costi; si potrebbe pensare: ma come, abbiamo fatto tante lotte per far valere i nostri diritti e tu dici questo? Le donne hanno ancora molto da lottare, anzi sembra che stiamo rivivendo una sorta di medioevo in questo senso e sono molto sensibile all’argomento, ma non sento il bisogno di dover imporre il mio essere donna nel mio lavoro; io viaggio perché amo quella che considero una condizione dello spirito ma non perché devo imporre il concetto sono donna dunque viaggio».

Cosa riesce a riportarti nella tua città?
«Il mio giardino, l’hortus conclusus di cui parlavo prima: che non è fatto solo di terra, di colori e dell’amore che nutro per i miei animali; è anche mio marito, è lui che mi sta insegnando a viaggiare ed è lui che due anni fa mi ha aiutata a mollare tutto per vivere il viaggio come un modo per meditare sull’esistenza. Il mio orto è anche il mio lavoro. In quella che io considero la mia nuova vita, accetto solo quei lavori che mi piacciono, in cui sento di potermi esprimere liberamente: lavoro, terra e viaggi sono il mio orto».

Non trovi sia un paradosso che gli italiani siano così amanti del viaggio verso terre lontane e nel contempo così poco propensi all’accoglienza?
«Non è un paradosso perché in realtà non sappiamo viaggiare, come ho già detto io sto imparando a ‘vivere’ il viaggio solo adesso: noi italiani siamo molto calorosi, affettuosi, ma non siamo aperti al nuovo, amiamo solo se conosciamo ma non siamo educati ad amare incondizionatamente. Gli abitanti di Lampedusa, che meriterebbero il Nobel per la pace, accolgono perché conoscono, hanno porto tante mani e tante ne hanno ricevute che conoscono le sensazioni, le emozioni, le paure, i dolori che scorrono dietro quelle cinque dita che si afferrano al prossimo trasferendovi le aspettative di una umanità capace di dare quello che non hanno mai avuto o che hanno perso».

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