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Telegiornaliste anno II N. 10 (42) del 13 marzo 2006


MONITOR Balestrieri, donna dei motori di Tiziano Gualtieri

Federica Balestrieri, bresciana, giornalista professionista dal 1995, è il volto di riferimento della Formula 1 sui canali Rai, e inviata speciale di Raisport.
Nella sua carriera giornalistica, fin da subito, si fa spazio il mondo dei motori. La gavetta è lunga, dalle categorie minori fino all'elite del Circus della Formula 1, ma trova spazio - e non solo nel suo lavoro – anche il calcio. Scorrendo il suo curriculum si legge, infatti, che ha realizzato anche tanti servizi di calcio per Dribbling e per la Domenica Sportiva.
Federica, iniziamo subito con una domanda a bruciapelo: calcio o Formula 1? E perché?
«Formula 1, senza dubbio. Al calcio mi hanno prestata per qualche anno. È un ambiente molto più provinciale di quello della Formula 1 e molto più disorganizzato. Si lavora peggio. L'unica cosa positiva della mia esperienza nel calcio è che ho conosciuto mio marito, agente di calciatori».
In un certo senso sei entrata nella storia. Da due stagioni sei la prima donna a condurre - da sola - un programma di motori (Pole Position, ndr). Perché la donna viene affiancata ai motori solo sulle copertine dei giornali, nei paddock o nelle fiere?
«È un ambiente particolarmente maschilista, e non aiuta che ancora oggi ci siano donne che pur di arrivare si prestano a comportamenti non professionali. Alla fine la loro immagine esce di più di quella di chi lavora con serietà e preparazione. Sono un cancro per la categoria delle donne in generale, non solo in Formula 1».
Secondo te, in campo sportivo, nonostante il passare degli anni, c'è ancora difficoltà a dare fiducia al giornalismo al femminile?
«Ti faccio un esempio: quante donne oltre i quarant'anni, brutte, grasse, magari con pochi capelli o con i capelli grigi vedi in video? Nessuna. Quanti uomini? Una marea. Non serve fare nomi. Ma sono bravi, si dirà. Certo, ma alle donne essere brave non basta. Agli uomini sì».
Quali sono le cose su cui punteresti se ti chiedessero di dimostrare che una giornalista donna può seguire i motori in maniera uguale - se non migliore - rispetto a un giornalista uomo?
«È la passione e la preparazione che conta e non il sesso. Sarebbe come dire che un cuoco uomo cucina peggio di una donna».
Tu sei partita dal basso: nei primi anni Novanta approdi alla Formula 1 seguendo la Scuderia Italia di Brescia, la tua città natale, grazie all'opportunità che ti è offerta dal Giornale di Brescia. Era il tuo sogno, oppure ti sei appassionata dopo ai motori?
«Era il mio sogno. Da sempre. Allora già seguivo le corse da un anno. La Formula 3 e i rally. C'erano parecchi piloti bresciani che ci correvano, alcuni erano miei amici, coetanei. È da lì che è iniziato tutto».
Perché nel calcio, altro sport tradizionalmente maschile, le donne riescono a inserirsi meglio rispetto al mondo dei motori?
«Perché ci vuole meno competenza. Di calcio parlano tutti, è uno sport molto più facile e meno tecnico, è ben più difficile sbagliare e tutto si perdona. Se segui i talk-show di calcio tutti dicono il contrario di tutto. C'è molta approssimazione».
Come tutti, anche tu hai fatto la gavetta. Quali sono i pregi e quali i difetti di seguire lo sport per un giornale locale o per una tv nazionale?
«Dai diciotto ai ventitré anni, quando l'ho fatto io, ci sono solo pregi a lavorare in un giornale locale. Hai la possibilità di farti le ossa con molta meno pressione che in tv. Lavori in ambienti più rilassanti e meno competitivi. Certo oggi è diverso, in Formula 1 Bernie Ecclestone non lo accrediterebbe nemmeno un giornalista locale. C’è una selezione bestiale, solo duecento inviati delle più importanti testate del mondo. Ma la gavetta è fondamentale se si vuole costruire una professionalità solida e non improvvisata. E alla lunga paga sempre».
Per cinque anni hai "girovagato" tra i box. Qual è il pilota che ricordi con maggiore affetto e quale quello, invece, che non sopporti?
«Ancora adesso sono in pista in tre Gran Premi all'anno e durante molti test invernali (ha seguito anche i test di Valencia dove c’era anche Valentino Rossi alla guida della Ferrari, ndr). I piloti sono tendenzialmente molto più simpatici dei calciatori. Umanamente parlando, i miei preferiti sono Giancarlo Fisichella, Jarno Trulli e Felipe Massa. Ma anche il nuovo arrivato, il figlio di Keke Rosberg, Nico, e pure Jean Alesi era un mito».
L'essere donna in un mondo prettamente maschile ti ha aiutata o ti ha penalizzata?
«Come detto prima mi ha sicuramente penalizzata».
Tuo marito è un noto procuratore di calciatori: non ti è mai venuto in mente di lasciare la Formula 1 e ritornare anima e corpo nel mondo del pallone?
«No, per carità. Detesto i conflitti di interesse, metterei in difficoltà lui e non lavorerei bene io. E poi che noia le partite di pallone!».
Il tuo amore per i motori è sfociato nella partecipazione (insieme a Kristian Ghedina, ndr) alla storica Mille Miglia. Di persona mi hai confessato di ammirare fin da piccola le auto d'epoca che partecipavano alla Freccia Rossa. Che
emozioni hai avuto una volta finita dall'altra parte?

«È stata una delle emozioni più grandi della mia vita. Davvero. Quando ero piccola abitavo a due passi dalla partenza della Mille Miglia e mio nonno mi portava a vedere le macchine. Chi mai avrebbe pensato che un giorno avrei partecipato da concorrente?».
Un'esperienza che hai raccontato in un documentario che ha ottenuto la menzione d'onore e la targa della presidenza del Senato al Festival Internazionale Sport Movie And Tv. L'ennesima consacrazione di un lavoro fatto bene.
«È stato un lavoro di montaggio lungo e faticoso. Lo scorso luglio tra i quattro Gran Premi di Formula 1 e il documentario sulla Mille Miglia ho lavorato 31 giorni su 31! Ero a pezzi, ma ne è valsa la pena. Amo molto realizzare documentari, adesso ne ho in programma uno sulle corse americane».
Infine una particolarità. Quando non lavori ti dedichi al volontariato. Poche settimane fa hai partecipato a una missione in Sud Sudan . Se ti dico che una sola delle persone che hai incontrato potrebbe stare meglio, ma devi rinunciare a qualcosa della tua carriera, cosa mi rispondi?
«Con mio marito abbiamo trascorso due settimane nel Sud Sudan. Facciamo parte di un'associazione di Brescia, Cesar, che aiuta un vescovo italiano che ha tredici missioni laggiù. È stata un'esperienza terribile ma bellissima. Laggiù hanno bisogno di aiuto e torneremo sicuramente. Ma molto lo facciamo da qui raccogliendo fondi per scuole e ospedali.
La mia carriera non è importante. Anzi farò presto un passo indietro per dedicarmi alla mia famiglia e al volontariato. Già il prossimo anno. Ho già avuto tanto dal lavoro. Ho raggiunto nello sport tutti gli obiettivi che mi ero prefissata. Nella vita c'è anche dell'altro!».
CRONACA IN ROSA Donna per un giorno di Antonella Lombardi

Anche quest’anno è arrivato, puntuale come san Valentino, con i dibattiti tra favorevoli e contrari, sostenitori e detrattori della festa della donna. E’ l’otto marzo.
Simboli che diventano gadget: i mazzetti di mimose venduti agli angoli delle strade, il giallo che invade le vetrine dei negozi e i menù dei ristoranti, le serate per sole donne. Ma chi vorrebbe davvero una società di sole donne?
Ne è passato di tempo da quell’otto marzo del 1908, quando 129 operaie morirono in uno stabilimento tessile di New York mentre protestavano per le dure condizioni di lavoro, arse vive da un proprietario che ordinò di sbarrare le porte e appiccare il fuoco.
Altri padri - padroni e altre lotte sono seguiti nel tempo.
Parità tra i sessi? No, grazie.
Oggi si parla di quote rosa, in una triste assonanza con le quote latte, nel segno di una politica da “riserva protetta” che non parifica ma divide, come in una guerra dei mondi.
Torniamo a bruciare i reggiseni in piazza? Ma per favore, oggi la sfida tra donne è a colpi di wonderbra e con quello che costano ci penseremmo su due volte!
Se poi ci si vuole fare del male si può sempre curiosare tra alcune riviste di costume; a giudicare da certi titoli eloquenti non sembra ci siano stati grandi passi avanti: «Il nemico delle donne? La cellulite. L’alleato più prezioso? Il silicone».
O ancora: «Stupiscilo con le zucchine», «Di cosa parlano le donne quando sono in bagno», «L’alfabeto del punto G», «Torna in forma con la dieta della patata», «Sei una bomba del sesso? Scoprilo con il nostro test: sei Jessica Rabbit o Mary Poppins?»; «L’idea di lavoro domestico per il tuo uomo? Alzare la gamba affinché tu possa passare l’aspirapolvere».
E, dulcis in fundo, le serate a tema: “No mimosa, no party”. Camerieri travestiti da pistoleri, buffet e sushi serviti su uomini nudi (i prezzi dei vassoi son saliti alle stelle, a quanto pare), spogliarelli e gadget aziendali. Libertà sessuale o mercificazione del corpo sotto mentite spoglie?
Pensateci: nella migliore delle ipotesi, la sera dell’otto marzo si rischiava di tornare a casa con un colorato narghilè o col perizoma di uno sconosciuto e un gran mal di testa. La conquista della mutanda come contentino.
Meditate gente, meditate.
Allora, fateci pure la festa, ma ricordatevi di noi anche quando domani saremo insultate mentre guideremo una macchina, o quando cercheremo affannosamente un asilo nido che non c’è e i vostri fiori di un giorno saranno ormai appassiti.
Infine, un pensiero solidale: alle donne che, in silenzio, hanno cercato, o stanno cercando, da anni, di entrare nella stanza dei bottoni.
A quelle che continueranno a chiedersi come conciliare il lavoro col desiderio, legittimo, di maternità.
Alle donne che, pur disponendo di titoli e istruzione superiore, guadagnano meno di un loro collega. A quelle che ce l’hanno fatta e che, per questo, fanno ancora notizia.
Alle donne costrette a nascondere il proprio corpo sotto un burka, per non turbare il pensiero dominante maschile. A quelle che ancora oggi devono subire una pratica terribile come l’infibulazione; alle bambine cinesi che non vedranno mai la luce, perché nate col sesso sbagliato.
Alle donne che hanno lottato per le donne di oggi affinché potessero godere del diritto di voto e del diritto di famiglia, senza essere considerate un accessorio.
A queste e a tutte, auguri. Perché oggi è un altro giorno. E la vita continua. Si ricomincia a lottare.
CRONACA IN ROSA IL MONDO DELLE DONNE Più diritti per tutte di Erica Savazzi

Eletto qualche giorno dopo gli attentati ai treni di Madrid, aveva impressionato per aver ritirato le truppe spagnole dall’Iraq subito dopo l’entrata in carica. È l’uomo che rispetta le promesse, il presidente Zapatero. Anche nei confronti delle donne, elettrici cercate e blandite che però raramente vedono esaudite le proprie richieste. In campagna elettorale aveva promesso un aumento dei diritti civili, e così sta facendo, grazie anche alle otto donne (su sedici ministri) che compongono il governo.
Dopo l’approvazione dei matrimoni gay con la possibilità di adottare bambini, dopo la modifica che ha reso più veloce il divorzio, dopo le leggi per la protezione delle donne dalla violenza, verrà approvata entro fine mese la Ley de Igualdad. Beneficiarie: le donne.
Pochi ma buoni i principi del provvedimento, presentati dal ministro del Lavoro Jesús Caldera Sánchez-Capitán. Concetto base è il principio di discriminazione positiva, introdotto per eliminare gli squilibri: in uguali condizioni di partenza verranno preferite le persone del sesso meno rappresentato, cioè le donne. Le retribuzioni delle lavoratrici, generalmente più basse rispetto a quelle degli omologhi maschi, dovranno essere portate allo stesso livello, i comportamenti discriminatori verso maternità o gravidanza verranno pesantemente puniti, e i padri godranno di permessi di paternità non alternativi a quelli della madre.
Inizialmente l’adesione alla normativa sarà volontaria, ma le aziende con più di 250 dipendenti saranno caldamente invitate a rispettarla. Dopo quattro anni la norma diventerà probabilmente obbligatoria per tutti, imprese pubbliche e private, grandi e piccole.
In una recente intervista a Micromega il presidente Zapatero, a proposito delle leggi sui diritti sociali approvate dal suo governo, ha dichiarato: «Sono tutte leggi che estendono i diritti di cittadinanza. Sono diritti per la dignità, per la libertà, e sono diritti per l’uguaglianza, come nel caso delle donne, che storicamente sono state le più penalizzate dalla società».
FORMAT Mai dire Platinette di Erica Savazzi

Che non avesse peli sulla lingua lo si sapeva. Che fosse acidula, anche. Che avrebbe esagerato, in pochi lo avrebbero detto.
I ripetuti insulti indirizzati dall’opinionista di Amici a una ragazza del pubblico che dissentiva dal suo parere "autorevole", hanno suscitato reazioni indignate da parte dei telespettatori, del Codacons e del Moige (Movimento italiano genitori), che hanno denunciato il programma di Maria De Filippi come diseducativo: «L'unica cosa che si insegna – ha dichiarato la responsabile Moige - è la competizione esasperata e il successo a tutti i costi».
Quello che stupisce non è tanto la parolaccia in sé: film violenti e tv trash ci hanno oramai abituati a tutto. Stupisce la ripetizione quasi compiaciuta dell’insulto, l’“odio” (ma si può odiare una persona mai vista prima per un’opinione diversa dalla propria?) che emergeva, e il fatto che “se tu non la pensi come me automaticamente hai torto e io ho il diritto di insultarti”. Gli animi si scaldano a favore o contro un concorrente, la questione diventa di importanza vitale e si perdono ogni ritegno e buona educazione.
Dov’è finita la Platinette acuta, irriverente, ma sensata, dei programmi radiofonici?
Il trash televisivo ha agito portando alle estreme conseguenze il suo personaggio, già di per sé di rottura.
Si è adeguata, andando oltre le previsioni degli autori, a un programma che ormai si è trasformato in un "grande fratello", dove i ragazzi sparlano gli uni degli altri, dove gli odi sono portati agli estremi livelli, dove il lato artistico e lavorativo è solo una scusa per sparlare e fare gara a chi è il più cattivo. E a poco serve il cliché delle lacrime e degli abbracci durante la puntata serale.
Platinette si è persa nel suo personaggio, è annegata nel ruolo di opinionista. Rivogliamo la vecchia Platinette, simpatica, pungente, intelligente.
FORMAT Finalmente è finita! di Giuseppe Bosso

Ore 01.12 del 5 marzo: con la vittoria, non certo annunciata, di Povia, cala il sipario sul 56° Festival della canzone italiana.
Finalmente, per molti: a memoria, almeno per quanto riguarda l’ultimo decennio della storia della kermesse sanremese, solo la rassegna targata Simona Ventura-Tony Renis era andata così male, in termini di ascolti e di qualità, malgrado il botto finale Adriano Celentano.
Un vero flop per la Rai, che sicuramente condizionerà le scelte dei vertici di viale Mazzini per la nuova edizione - e che potrebbe anche far saltare qualche poltrona illustre. Le cause di questo insuccesso sono tante e diverse, ma, volendo sintetizzare, si può sviluppare almeno un paio di considerazioni.
Capitolo conduzione: Giorgio Panariello, da anni ormai, fa sicuramente parte del gotha dei comici italiani; sia sul piccolo che sul grande schermo ha ottenuto vasti consensi, la sua verve toscana avrebbe sicuramente fatto scintille (al pari, ad esempio, di Paola Cortellesi rispetto alla Ventura, oppure di Teo Teocoli all’epoca della conduzione di Fabio Fazio) come spalla, disturbatore di un vero presentatore.
Ma, e il buon Giorgio non ce ne voglia, come padrone di casa, laddove in passato si erano cimentati mostri sacri del calibro di Baudo e Buongiorno, a molti ha dato l’impressione di essere un pesce fuor d’acqua, scontato e piuttosto monotono, e a nulla o quasi sono servite alcune performance con ospiti che verranno ricordati esclusivamente per l’astronomico cachet spillato alla produzione (al pari degli ingaggi dei conduttori), come il palestrato e idolatatro (dai giovanissimi) John Cena o l’amico del cuore Pieraccioni.
Diverso, in parte, il discorso per le gentili donzelle che hanno affiancato Panariello: Victoria Cabello può dirsi soddisfatta da questa parentesi sanremese, uscendone a testa alta con i suoi interventi e le sue punzecchiature (da buona "iena"); col marasma generale tutto sommato la vj originaria di Oltremanica ha ben poco a cui spartire.
Lo stesso non sentiamo di poter dire invece per Ilary Blasi in Totti, della quale quando ci limitiamo a considerare che verrà ricordata per gli appariscenti vestiti, con annessa ampia scollatura nella prima serata, che ha fatto sicuramente trasalire gli spettatori maschili, e per la "carrambata" dell’infortunato consorte, piuttosto che per dialettica e spontaneità negli interventi, diciamo tutto.
Capitolo canzoni: non è un mistero che da anni Sanremo faccia parlare più per aspetti legati alla conduzione e al contorno, che non per il cuore della manifestazione, cioè la musica; nelle ultime annate i dissapori tra discografici e viale Mazzini hanno inciso notevolmente sulla qualità dei brani e dei concorrenti.
Quest’anno,però, non avremo raggiunto i minimi storici - ma ci siamo quasi; a sentire i pareri della gente, sono davvero pochi i cantanti, se non nessuno, ad avere lasciato il segno per testo e intonazione.
E proprio quei pochi che erano riusciti a incidere, guarda caso, sono stati frettolosamente eliminati dal meccanismo della gara (Grignani, Spagna, Ron e Britti).
In conclusione, e non ce ne vogliano coloro che a questo evento hanno dedicato mesi di lavoro, primo fra tutti il buon Giorgio, quella che va in archivio di certo non passerà alla storia come una delle migliori annate del Festival.
Chiuso un capitolo se ne apre un altro, per cui probabilmente è già ora di pensare a Sanremo 2007; occorrerà però che dalla stecca di oggi dalle parti di viale Mazzini sappiano trarne le dovute conclusioni, per offrire al pubblico un prodotto quanto meno all’altezza del canone pagato. Perché Sanremo è Sanremo.
FORMAT Telegiornaliste/i + Telegiornaliste/i – di Filippo Bisleri

Primo gradino del podio di questa settimana per Annalisa Spiezie , tornata ad un grande splendore nelle ultime conduzioni e negli ultimi servizi. La classe c'è e non si discute. Magari sembra, a volte, un po' troppo sul piedistallo, ma è solo l'atteggiamento che caratterizza una grande professionista. Maniacale e puntigliosa. 9
Secondo gradino del podio, un po' a sorpresa, per Maria Luisa Busi. Spieghiamo che la sorpresa non è legata alle indubbie qualità della professionista, ma al fatto che, ultimamente, era sembrata troppo vittima del clima pre-elettorale. Ben trovata alla vera Maria Luisa. 8
Completa il podio l'ottima Mikaela Calcagno. Partita un po' in sordina ad agosto, quando è approdata a Mediaset, si va sempre più imponendo. Grazie alle sue doti giornalistiche che, da brava ligure, mette in campo. 7
All'amico Salvo Sottile, un affezionato della nostra classifica, dobbiamo rimproverare, in questa circostanza, il ritorno ad una conduzione troppo ricca di enfasi. Non lo portiamo in terreno negativo. Ma gli segnaliamo il piccolo passo indietro, da gambero. Certi che si riprenderà come accaduto in passato. 6
A Bianca Berlinguer il clima elettorale sta davvero nuocendo e anche le sue conduzioni del Tg3 sono, ultimamente, farcite di papere che non le sono consuete. Bianca Maria, non vorrai mica diventare il Luca Giurato dell'altra metà del cielo, eh? 5
Contropodio per Gianni Visnadi. Passare dal ruolo di giornalista presente in studio o allo stadio per commentare le partite, a quello di conduttore (Telenova) non gli ha fatto bene. Serve ancora un po' di rodaggio. 4
ELZEVIRO La Puglia come Cinecittà di Nicola Pistoia

La Puglia, una terra in cui il tempo sembra non passare mai. Una terra concepita e disegnata per i forti, e nella quale solo i forti resistono. Una terra dalla tradizione immensa e dai riposi dolorosi. Quelli che una storia ingiusta, spietata, gli ha messo addosso. La terra dei sospiri, delle espiazioni, delle eterne fughe. La terra di chi scappa in cerca di speranze e di chi le speranze le ha trovate proprio qui.
La Puglia come una giostra di colori che si fondono intimamente per dare vita ad uno spettacolo unico al mondo. Il blu del cielo che si mescola, all’orizzonte, con l’azzurro del mare, il giallo del sole che splende sul verde dei campi e che accentua ancor di più il bianco delle antiche masserie, che qui si ergono, fiere, quasi a voler proteggere questa bellezza ancestrale.
La regione pugliese come set preferito, da registi e scenografi, dove ambientare i propri film. Sembra essere diventato ormai un must, quello di voler utilizzare come location le enormi distese di ulivi secolari piuttosto che le bellezze artistiche e monumentali di Roma, talvolta ricostruite, meravigliosamente, negli studi cinematografici.
Soprattutto negli ultimi anni si è voluta dare una chance in più ad una terra che per diverso tempo è stata vista un po’ come una "farsa", come se l'unico elemento caratterizzante fosse il dialetto un po' bizzarro, accentuato anche da uno degli attori simbolo della Puglia: Pasquale Zagaria, più noto con il nome d'arte Lino Banfi.
Oggi, invece, registi come Gabriele Salvatores, Pupi Avati e Sergio Rubini hanno realizzato vere perle cinematografiche, che hanno saputo sposarsi a pieno con lo splendore dei luoghi.
Rispettivamente, Io non ho paura, La seconda notte di nozze e La terra riflettono, in modo diverso, una realtà difficile, e ci portano ad immergerci in una terra di nessuno, una landa desolata dove può capitare di vedere cose che non esistono, di confondere realtà e fantasia, una confusione cha nasce dalla percezione di essere stati catapultati in una terra dannata, ma beata dal suo stesso esistere. Anche la tv, nella sua complessa varietà, ha saputo apprezzare il calore della terra del sud, ambientando la fiction televisiva Il Giudice Mastrangelo, con Diego Abatantuono, tra le immense distese, dorate, di grano.
Questa è la terra di Puglia. Questa è la sua eterna magia e, in fin dei conti, la sua forza... il suo assoluto.
ELZEVIRO L’università della notte: 21 marzo, equinozio dei saperi di Antonella Lombardi

Dalle 20.30 del prossimo 21 marzo e fino a tarda notte, le università capitoline La Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre terranno le porte aperte agli studenti e ai cittadini che vorranno fruire per una notte di lezioni curiose e sorprendenti, ma anche di spettacoli e concerti.
Il corpo docenti delle tre università si alternerà tenendo lezioni che avranno come tema la notte”. Un tema caro all’immaginario artistico e sociale che sarà declinato secondo il punto di vista delle diverse discipline per coglierne le stratificazioni filosofiche, culturali e socio-antropologiche: la notte celebrata dall’arte e quella descritta dalla letteratura, la notte esplorata della scienza o analizzata con i parametri dell’economia.
L’esperienza di docenti di grande prestigio saprà rendere accessibili gli argomenti più complessi, nel segno di un sapere alla portata di tutti.
Alla Sapienza si potrà scegliere tra La notte porta consiglio quel che dicono le scienze umane; Le scienze della notte vite e numeri quando il sole tramonta e ancora Anime e spiriti della notte tra cultura e comunicazione.
A Tor Vergata, invece, i percorsi saranno: Canti, parole e immagini di un notturno tra cultura e società; Prime luci della notte uno sguardo sulla scienza e La notte del fantasticare tra sogno e fantasia.
Infine, a Roma Tre Se una notte di marzo – musica, immagini, parole; Riprendersi la notte – storie di donne, uomini, paesi e città; e ancora O buio o mia luce, scienze di cielo e di terra.
In quella che si presenta come una sorta di notte bianca delle università, sarà possibile scegliere tra diverse iniziative che faranno da cornice alle lezioni: le esibizioni musicali di Eugenio Finardi, Massimo Nunzi, i Têtes de Bois, il Coro Polifonico di Roma Tre e la Steve Martland Band; le letture e performance di Marco Baliani, Cosimo Cinieri, Corrado Augias, Mara Baronti, Yari Selvetella, Giovanni Bianconi e Antonio Padellaro, Edoardo Albinati e Filippo Timi e le installazioni Luci Sonore a cura di Dissonanze.
Oppure aree con produzioni artistiche degli studenti, spazi per l’acquisto e il prestito di libri gestiti dalle Biblioteche di Roma in collaborazione con Zètema Progetto Cultura e le librerie Almayer e Fierobecco. Inoltre, spazi del mercato equo e solidale in collaborazione con il Dipartimento dell’Autopromozione Sociale del Comune di Roma e l’associazioneVoci della terra”.
La manifestazione è realizzata in collaborazione con Radio Città Futura che, a partire dalle 20.00, racconterà in diretta l’Università della Notte.
Alle 23.00 la manifestazione entrerà all’interno del contenitore notturno a diffusione nazionale Domani è tardi, ritrasmesso in diretta da 35 emittenti locali in tutta Italia.
Per informazioni è possibile contattare il Dipartimento Cultura del Comune di Roma al numero 06/67102202.
TELEGIORNALISTI Orient Express-international da applausi di Filippo Bisleri

È partito (letteralmente) sabato 4 marzo alle 8.30 su Canale 5 il treno del programma Orient Express-international.
Prima puntata molto forte e seconda di impatto altrettanto forte.
Si tratta di un programma di approfondimento, di una sorta di costola di Terra! , il settimanale serale del sabato del Tg5. La sfida del nuovo programma, per il quale si prevede una prima tranche di dieci puntate, è quella di creare una sezione di approfondimento dopo le news del Tg5 delle 8.00 del sabato mattina.
E diciamo che, almeno stando alle prime due puntate, la sfida è stata pienamente vinta, nonostante la poca pubblicità concessagli dalla rete. Unica vetrina nota, quella dedicata da Sandro Provvisionato durante Terra! del 25 febbraio scorso.
Telegiornaliste ha raggiunto Toni Capuozzo, il "papà" del nuovo magazine di approfondimento del Tg5.
Toni, avete scelto un orario coraggioso per lanciare un così bel prodotto. Come mai?
«In effetti l'orario è coraggioso, ma ci consentirà di crescere senza l'assillo dei dati dell'audience e di rappresentare, per la televisione italiana, quello che, per i lettori inglesi, è il grande giornale di approfondimento del week-end».
In calendario avete altre otto puntate. E poi?
«Complessivamente abbiamo ipotizzato una tranche di dieci puntate per aprofondire delle tenatiche che vengono presentate nel tg del mattino. Vedremo come risponderà la gente e poi decideremo il futuro».
Il titolo è una tua idea?
«Sì, mi piaceva l'idea dell'Orient Express che da Instanbul collegava l'Europa all'Oriente».
Con te collaborano Magdi Allam e Fiamma Nierenstein, davvero un bel cast di pezzi da novanta. Concordi?
«Certo, un bel gruppo. Con Magdi avremo sempre qualche problema a limitarci ad interventi da editorialista, perchè lui ha il problema di dover vivere sotto scorta. Io mi occuperò delle storie italiane lanciando sempre i servizi dalle stazioni ferroviarie che, per la prima puntata, sono state dell'Emilia Romagna, un po' dove avete casa voi di Telegiornaliste. Per quanto riguarda, infine, Fiamma Nierenstein, lei ha più familiarità con la carta stampata ma avete già potuto vedere, specie con la prima puntata sul nord di Israele e il problema degli hezbollah del sud del Libano quanto se la cavi bene anche in tv».
Quali le differenze con Terra!?
«Non avremo la necessità di essere politically correct anche se siamo una costola di Terra!, con cui abbiamo in comune la produzione a cura di Claudia Severino e gli operatori. Tuttavia, la redazione di questo programma, che offre l'occasione di conoscere le tre grandi religioni monoteistiche del mondo con le loro differenze interne, come evidenziato nel reportage della prima puntata, che ha affrontato il tema della guerra di civiltà o meno in corso, è differente da quella di Terra!».
OLIMPIA Paralimpiadi: intervista a Daniela Colonna Preti di Mario Basile

Mentre iniziano le Paralimpiadi a Torino abbiamo raggiunto Daniela Colonna Preti, presidente dell'associazione polisportiva dilettantistica per disabili Polha Varese e consigliere e segretaria del Comitato Italiano Paralimpico Lombardia, che ci ha introdotti nel clima della manifestazione.
Cosa sono le Paralimpiadi?
«Sono soprattutto una grande occasione, una grossa opportunità per l’Italia. E non soltanto per il nostro movimento dello sport per disabili. Sono un’occasione per scoprire una realtà ancora poco conosciuta da noi. So che è stato investito moltissimo perché fin dall’inizio il comitato organizzatore dei Giochi Olimpici ha lavorato di concerto col comitato organizzatore dei Giochi Paralimpici.
Questa è la chiave per un successo, ma soprattutto per l'integrazione di questo tipo di sport che praticano i ragazzi con handicap. Noi ci aspettiamo una kermesse importante non tanto dal punto di vista dei risultati: per noi, l’evento è quello che si svilupperà a Torino. Evento mediatico sicuramente, ma anche evento in quanto tale, con la possibilità per tanti ragazzi di misurarsi con altri con lo stesso tipo di handicap e, di conseguenza, di dimostrare quello che sanno fare e quello per cui hanno lavorato per tanti anni».
A suo avviso quali sono gli atleti della Nazionale italiana che hanno maggiori possibilità di salire sul podio?
«Gli atleti medagliati a Salt Lake City nel 2002, anche se non ci sarà Ruepp, che ha dovuto rinunciare a causa di una frattura al femore. Anche Zardini, essendo un veterano dello sci, potrebbe portare dei risultati. Non ci aspettiamo granché dall’hockey: è già un risultato il fatto di avere creato una formazione, avere iniziato a praticare una disciplina sportiva che prima non si praticava in Italia.
Poi c’è attenzione su atleti nuovi come Melania Corradini che è una nuova atleta, non nota negli anni scorsi. È una ragazza che si è avvicinata al nostro movimento quando già stava facendo sci.
Ecco, questo bisogna dire del movimento per lo sport per disabili: che c’è la possibilità, ed è appunto quello che è successo con Melania, di vedere ragazzi che prima facevano attività per conto loro avvicinarsi al nostro sport, e ragazzi che magari con minima amputazione, un braccio o una gamba, possono sciare quasi normalmente e, di conseguenza, non immaginano neanche che possa esistere l'opportunità di fare sport disabili con disabili. Poi, come dicevamo, ci sono atleti che purtroppo sono di nuova “formazione” nel senso che, come Michael Stampfer nello sci alpino, fino a tre anni fa erano ragazzi normali. Poi un incidente ha cambiato loro la vita. Michael ha avuto un incidente cadendo da un tetto nel novembre di tre anni fa e adesso sta andando alle Olimpiadi.
Pronostici? Abbiamo una squadra quasi completamente rinnovata e noi speriamo che qualcosa arrivi, ma, come si diceva prima, il risultato è già quello che questi ragazzi siano lì a misurarsi sulle piste da sci, a misurarsi negli impianti sportivi e non magari a casa a disperarsi per una condizione che è vista dai più come limitativa».
Quali sono le difficoltà che si incontrano nell’organizzare un avvenimento di questa portata? È più difficile rispetto alle Olimpiadi?
«Quando si parla di eventi di questa portata bisogna intanto parlare di grandissime misure, di numeri immensi e di grosse, grossissime macchine organizzative. Non è che ci voglia tanto di più rispetto all’Olimpiade, perché si parla di numeri molto ristretti rispetto a quelli delle Olimpiadi. Diciamo che ci vuole un'attenzione particolare a quelle che sono le esigenze di atleti con funzionalità ridotte. Per fare un esempio, nel Palazzo delle Esposizioni, che è stato attrezzato per l’hockey, per lo sledge hockey, la pista è stata costruita in modo tale che gli atleti sullo slittino possano accedervi dalla panchina. Nel momento in cui si progetta un impianto sportivo nuovo l’attenzione alle difficoltà della persona disabile non toglie niente al normodotato; la difficoltà sta in questo: normalmente la gente non ci pensa».
Parliamo di visibilità dell’evento. A suo avviso le Paralimpiadi godono di un’adeguata considerazione dal punto di vista informativo?
«Decisamente no. Nel senso che queste sono le prime Olimpiadi e Paralimpiadi invernali italiane, infatti le ultime Olimpiadi sono state nel 1956 (all’epoca non esistevano le Paralimpiadi invernali, ndr) e, quindi, per quanto riguarda la visibilità, si può dire manchi qualcosa. Dopo Sydney e Atene, siamo riusciti ad avere una buona visibilità grazie ad una collaborazione con la Rai, e ha preso il via la trasmissione Sportabilia che ha portato in trasmissioni “normali", il nostro sport.
Il futuro è tutto da inventare. Quello che ho visto fino adesso mi fa ben sperare: ho visto degli spot in orari in cui la visibilità è alta, ho visto al Tg1 un intervento della portabandiera Melania Corradini con Tiziana Nasi, presidente delle Paralimpiadi. Ecco: messaggi del tipo “Finiscono le Olimpiadi, ma ci sono le Paralimpiadi”. Questo è nuovo! Non l’ho mai visto negli anni passati».
Per quale motivo?
«Mah, i motivi possono essere tanti. Non penso che sia soltanto un disinteresse, anche se in fondo può essere anche questo: io credo che tante volte i giornalisti si trovino spiazzati di fronte al nostro movimento e che non sappiano commentarlo. Nel senso che trovano difficile commentare il nostro sport, anche se poi è uno sport normale, con regole normali e qualche adattamento. Quindi può darsi ci sia quest’imbarazzo nei confronti di qualcosa di nuovo. Poi forse la paura di non fare share, visto che è tutto un discorso di audience e di gradimento: il mondo moderno è un mondo di gente che, io parlo molto liberamente (ride, ndr), guarda trasmissioni stupide, e si ha voglia, forse, di non impegnarsi. E seguire delle attività sportive diverse può sembrare non importante».
Lei, oltre ad essere membro del Comitato Paralimpico Lombardia, presiede anche un’associazione polisportiva per disabili: la Polha Varese. Quanto è importante lo sport nella vita di una persona disabile?
«Su una persona disabile lo sport ha ottimi effetti, sicuramente da un punto di vista fisico, perché lo sport comunque fa bene. Fa bene alla persona senza handicap; è un diritto di tutti e, a maggior ragione, fa bene alla persona con handicap. E poi, diciamo che lo sport ha una marcia in più. Il fatto di avere l’opportunità di trovarsi in una società sportiva, di fare attività fisica “normale”, è qualcosa che stacca dall’ambito ospedaliero che normalmente viene associato alla figura della persona disabile. E non dimentichiamoci che la persona disabile può essere una persona che è nata con un handicap, e quindi sin dalla nascita ha avuto a che fare con medici, fisioterapisti, riabilitazioni; oppure una persona che per un incidente o una malattia si ritrova disabile nel corso della vita. Quindi da un’esperienza assolutamente normale come siamo abituati a vederla noi, e per noi intendo una persona come me, normodotata, si ritrova dall’oggi al domani catapultato in un mondo completamente diverso: che è quello degli esclusi, degli emarginati.
Lo sport offre l'opportunità di star bene, di fare anche terapia perché è sport-terapia, ma allo stesso tempo di sentirsi vincenti, perché appunto si fa qualche cosa che proietta in un mondo che è visto come il mondo di chi sta bene. Cioè: chi fa sport è una persona sana.
Noi a Varese siamo la prima società sportiva, che è nata nel 1982, e soltanto adesso cominciamo ad avere un certo numero di società. Non c’è la capillarità di esistenza che c’è per i normodotati. La risposta potrebbe essere proprio creare una collaborazione tra le società sportive per normodotati, come li chiamiamo noi, e il Comitato Italiano Paralimpico: per una vera integrazione.
Certo, non tutti possono fare tutto, perché dipende dalle menomazioni, però avvicinarsi a una società sportiva come la nostra significa avvicinarsi a delle persone che hanno problemi simili ai propri e poi trovare un ambiente dove magari c’è un’offerta sportiva varia. Noi offriamo, al momento, la pratica di dodici discipline sportive. E siamo arrivati a questo numero proprio per la richiesta delle persone e dei ragazzi che venivano da noi e che dicevano Ma non fate questo?, o Non fate quest’altro?».
Molti pensano che i disabili siano solo quelle persone con una menomazione sensoriale o motoria, ignorando i cosiddetti “disabili intellettivi”. Esistono anche per loro gare sportive a livello agonistico?
«All’interno della disabilità intellettiva e relazionale, noi abbiamo due grossi movimenti. Il primo è quello dello sport promozionale, che viene praticato dai principianti e da quelli che per problemi di comprensione hanno bisogno di essere guidati in un certo modo nel fare sport. In quest'ultimo caso si adattano gli sport affinchè loro possano farli, soprattutto a livello ludico.
E poi c’è la disabilità intellettiva relazionale agonistica, e queste sono persone a tutti gli effetti inserite nella programmazione e nel calendario gare del Comitato italiano Paralimpico: sono atleti che gareggiano con normative regolamentari delle federazioni sportive del Coni, e lo fanno insieme agli atleti ciechi e a quelli con disabilità fisica. Quindi abbiamo i campionati italiani, per esempio di atletica, con appunto le tre disabilità (motoria, intellettiva e sensoriale, ndr), e ci sono poi i campionati italiani di atletica per i Dir promozionali.
Da quando ho iniziato io, nel 1985 a Varese, le cose stanno cambiando tantissimo: un aiuto grosso sta arrivando anche dalla scuola, dall’attività di proposta, dalle attività che si fanno, dal lavoro delle società sportive del Comitato italiano Paralimpico sul territorio. È un lavoro che sta dando dei frutti».
Gli enti pubblici e le istituzioni si sono mostrati vicini alla vostra causa? E gli sponsor?
«Tanto dipende dalle Giunte e dal lavoro che si fa. Io parlo per la mia esperienza a Varese. Ultimamente abbiamo avuto una grossa flessione, forse è un momento in cui ci sono difficoltà economiche, però, per quanto riguarda Varese, grossi contributi da enti pubblici non ne abbiamo. Noi abbiamo la fortuna di essere un’associazione molto conosciuta e soprattutto di avere realizzato degli eventi internazionali di grandissimo richiamo. E poi io ho avuto proprio la “presunzione” di volere che per i nostri atleti ci potesse essere un'occasione di sponsorizzazione proprio come per gli atleti normali.
Chi aiuta una società come la nostra in qualche modo cerca di essere partner a doppio senso, e quindi loro sicuramente a noi danno qualche cosa, ma noi a loro diamo altrettanto se non di più. Abbiamo la fortuna, a Varese o a Cantello, il cui Comune anni fa ci ha premiati per il basket all’interno di una manifestazione internazionale, degli atleti che non si nascondono e intervengono a parlare nei convegni, intervengono a parlare a scuola con i bambini. Siamo conosciuti e abbiamo un certo tipo di risposta anche dal punto di vista degli sponsor, che comunque non bastano mai: mettere insieme una squadra di hockey ha voluto dire dall’oggi al domani tirar fuori 35 mila euro».
La sua associazione, come spiega nel sito, auspica di trovare una sede sociale e maggiori spazi d’acqua per l’attività natatoria a Varese. Spostando il discorso più in generale, secondo lei c’è una carenza di strutture appropriate per lo sport dei disabili?
«È difficile generalizzare. Ma la situazione qui a Varese è proprio deludente, perché girando in altre città, in altre regioni, ho visto dei centri molto belli, dove oltretutto avendo avuto un'attenzione nella costruzione alle persone disabili c’è una fruibilità piena anche per persone in carrozzina o con altri tipi di handicap.
Il nuoto è la primissima attività che può essere consigliata ad un ragazzo disabile: dovrebbe essere ilbacino di raccolta dove poter veramente accogliere tutti e poi eventualmente farli proseguire».
Il nostro magazine ha intervistato Candido Cannavò alla presentazione del suo libro E li chiamano disabili a Roma. Il libro ha avuto un successo inaspettato. Come giudica questo fatto?
«Il libro è scritto molto bene ed è scritto come si potrebbe raccontare. Il nostro è un mondo di vincenti, così come sono vincenti le persone di cui parla Cannavò. In fondo, lui ha esorcizzato anche tante nostre paure. Quelle delle persone normali che hanno paura delle malattie, hanno paura delle sofferenze, e l’ha fatto descrivendo persone che nonostante l’handicap hanno fatto delle cose incredibili e che forse le hanno fatte proprio perché hanno l’handicap.
Perché, come dice sempre uno dei miei atleti che ha fatto tre Olimpiadi: Ma se io non avessi perso le gambe, quando mai sarei potuto andare alle Olimpiadi?. Quindi, forse, si tratta di riuscire a vedere questa bottiglia mezza piena e non mezza vuota.
Candido (Cannavò, ndr) secondo me ha assunto una grandissima missione. Lui è una persona che ha vissuto nello sport, quello inavvicinabile, quello dei campioni, quello mediatico, delle persone famose che rilasciano autografi e che, incontrando il mondo dello sport per disabili, se ne è innamorato al punto da divenirne ambasciatore. E io gliel’ho proprio detto, Hai una missione perché persone come te le ascoltano molto di più che tutti noi, noi sono anni che stiamo “gridando” (ride ndr)».
Parliamo di volontariato. Nella sua associazione tutti sono volontari. In generale lei pensa che le persone che si dedicano al volontariato per disabili siano in numero soddisfacente? Oppure si può fare di meglio?
«Certamente si parla di volontariato in Italia come di una realtà molto diffusa. Per volontario non si deve intendere necessariamente la persona che spinge la carrozzina o che aiuta il povero ragazzo disabile a far qualcosa. Il volontario è anche l’atleta disabile stesso, chiunque metta volontariamente a disposizione le proprie capacità e il proprio tempo per gli altri. Il mio vicepresidente, che è una persona amputata e in carrozzina, è volontario nel senso che coordina il settore del tiro con l’arco e io, se non avessi lui, non potrei avere il settore del tiro con l’arco».
Infine, cosa si aspetta da questi Giochi Paralimpici invernali e cosa si augura per il futuro dello sport per disabili?
«Mi aspetto che la macchina operativa funzioni come pare abbia funzionato per quanto riguarda le Olimpiadi. Io mi auguro prima di tutto che i nostri atleti non siano delusi: questa è la cosa più importante. Bisogna pensare a loro che si sono allenati ed hanno dedicato tantissimo, io ho visto i miei ragazzi. Quattro atleti che da tre anni, da quando abbiamo creato la squadra di hockey, lavorano ininterrottamente per questo appuntamento e, ovviamente, per il dopo appuntamento. Spero che non siano delusi dalla macchina organizzativa, dalle loro prestazioni, dalla tensione mediatica. Prima di tutto è questa la mia speranza, poi logicamente qualche medaglia ci fa sempre piacere. Noi abbiamo ancora l’altra vittoria da portare a casa ed è la vittoria della visibilità, ma non per la soddisfazione della visibilità: questi ragazzi che sono alle Olimpiadi sono la punta dell’iceberg di una realtà di ancora pochi ragazzi che stanno facendo sport in Italia, di una base vastissima, sommersa, di persone disabili che non sanno neanche che questa opportunità esiste.
Grazie a questa onda d’urto anche proprio d’informazione, per la quale ringraziamo tutti voi che state collaborando, noi ci aspettiamo proprio che il messaggio vincente dello sport arrivi a tutti e che cambi la vita un po’ di tutti quelli che vogliono lasciarsi cambiare.
OLIMPIA Le Paralimpiadi, un'altra Olimpiade di Danila Di Nicola

 Lo spegnimento del braciere olimpico, nella cerimonia di chiusura delle Olimpiadi, aveva portato un senso di malinconia dopo due settimane all’insegna delle gare e della gioia.
Ma il primo marzo la fiamma olimpica è tornata ad ardere in una cerimonia di accensione in contemporanea che ha collegato Roma, prima città ad ospitare le Paralimpiadi, e Torino.
Dopo l’accensione, la torcia paralimpica è stata custodita dal sindaco Sergio Chiamparino fino all’otto marzo — se si escludono i due giorni in cui è stata sul Monte Rosa — per poi iniziare il viaggio in città conclusosi con l’accensione del braciere nello stadio Olimpico, durante la cerimonia d’apertura di venerdì scorso, che ha ufficialmente aperto la nona edizione delle Paralimpiadi invernali.
Durante i dieci giorni di gare, ci saranno 1300 persone tra atleti, guide, tecnici e staff di quaranta nazioni diverse. Si disputeranno quarantacinque gare.
Le medaglie in palio saranno 58 nelle cinque disclipline paralimpiche: sci alpino, sci di fondo, biathlon, ice-sledge hockey, wheelchair curling.
L’Italia spera di far dimenticare gli insuccessi dello sci alpino alle Olimpiadi, ripetendo il successo della passata edizione dei giochi, dove vinse sei medaglie. Ci auguriamo che arrivi qualche soddisfazione dalla giovane promessa italiana Melania Corradini, già nostra portabandiera nella cerimonia d’apertura.
Tra gli atleti dello sci nordico — sci di fondo e biathlon — ci sono Francesca Porcellato e Enzo Masiello. Entrambi hanno avuto un passato nell’atletica, e Masiello ha anche ottenuto medaglie a livello internazionale. Nello ice-sledge hockey, dove per la nazionale italiana non si prospettano medaglie, gareggerà anche Orazio Fagone, già vincitore nella staffetta dello short track a Lillehammer nel 1994.
Il successo crescente negli anni delle Paralimpiadi ha permesso di incrementare il numero del pubblico, degli atleti e delle nazioni partecipanti. Basti pensare che durante questa edizione ci saranno per la prima volta rappresentanti della Grecia, della Mongolia e del Messico.
Ma anche le discipline, con il passare delle edizioni, aumentano: quest’anno è stato introdotto il curling, che spera di ottenere, in termini di ascolto, gli stessi risultati ottenuti durante le Olimpiadi. E gli appassionati non mancheranno di certo dato che Rai e SportItalia seguiranno l'evento.
Le gare sono iniziate da pochi giorni e speriamo che i nostri atleti sappiano darci le stesse soddisfazioni dei colleghi che li hanno preceduti qualche giorno fa, contando sull’affetto della città di Torino. Che si è dimostrata, durante tutto il periodo, la vera vincitrice dei giochi.
VADEMECUM In redazione: la carta stampata di Filippo Bisleri

Come nascono un quotidiano o un settimanale cartacei? Presentiamo, per il nostro Vademecum, l’esperienza di un settimanale lombardo (due edizioni, ventimila copie complessive) che chiude in redazione il mercoledì sera e viene stampato nella notte tra mercoledì e giovedì, per andare nelle edicole il sabato.
Un direttore, cinque giornalisti, un settimanale di poca cronaca e molto attento all’approfondimento, dopo ben novant’anni di attenta cura alla cronaca.
Il lavoro della redazione parte con la riunione di redazione del giovedì, nella quale ogni redattore e il direttore scelgono i temi da approfondire e gli spazi (una o due pagine) da dedicare all’argomento.
Poi parte la macchina organizzativa del numero. Va detto che la riunione di redazione del giovedì nasce anche sugli input raccolti dai redattori e dal direttore; dai collaboratori esterni, dai comunicati stampa e dalle segnalazioni pervenute alla segreteria di redazione.
Dopo la riunione di redazione, abbiamo detto, si avvia l’iter realizzativo del numero. Che significa: calcolare gli spazi pubblicitari, prendere contatti e appuntamenti per interviste e consegna di materiale e, dopo aver disegnato i menabò cartacei a grandezza ridotta, trasmettere tutto il materiale alla prestampa (interna al settimanale) per la videoimpaginazione.
Dalla prestampa nascono i “bozzoni”, ovvero le pagine grezze e da correggere su carta (il settimanale dispone ancora di un valido correttore di bozze, che si legge tutti i cinquanta bozzoni realizzati settimanalmente), per ovviare ai consueti errori di battitura o a doppioni di termini nei titoli.
Ultimata questa fase, e rivista la bozza corretta da parte del redattore competente e del direttore responsabile, si effettua il ".pdf" della pagina e la sua teletrasmissione alla tipografia.
Tutte queste lavorazioni avvengono tra il venerdì e il tardo mercoledì pomeriggio e possono anche essere intervallate da ulteriori riunioni di redazione per trovare spazio e collocazione ad eventi verificatisi dopo la riunione del giovedì.
La professionalizzazione tematica dei redattori sta aiutando, in questo primo anno di esperienza di settimanale così realizzato, a conquistare nuove fette di lettori, che cercano più spunti di riflessione e meno pettegolezzo da borgata.
(23 – continua)
VADEMECUM L'esperto risponde

Un anonimo chiede
:
Cosa c'è nelle pagine degli interni?
Risponde Filippo Bisleri:
Nelle pagine di interni vengono pubblicate tutte le notizie di carattere nazionale.
Claudia di Milano ci scrive:
Per poter accedere all'esame di Stato, si può fare il praticantato presso un service? Oppure deve necessariamente trattarsi di una redazione? Ci sono dei vincoli "tecnici" o di numero di redattori?
Risponde Filippo Bisleri:
Non mi risulta possibile il praticantato presso i service. Come giornalista di riferimento per il praticantato si segnala sempre il direttore responsabile del media interessato. Non esistono vincoli tecnici se non l'età (almeno 21 anni compiuti alla data dell'esame di Stato). Si può, insomma, fare il praticantato anche in riviste che abbiano il solo direttore come assunto.
Una lettrice anonima ci chiede:
È vero che si può accedere all'esame per divenire professionista anche senza praticantato? E cioè richiedendo al direttore una dichiarazione che attesti che si è lavorato ai Videoterminali (Vdt) per due anni, e allegando l'attestazione di una retribuzione, nel biennio, di almeno seimila euro?
Risponde Filippo Bisleri:
Cara aspirante collega professionista (deduco tu sia una ragazza dall'apostrofo nella firma), francamente questa ipotesi non mi risulta. Probabilmente ti hanno parlato del praticantato d'ufficio che porta dritti all'esame di Stato. Per informazioni e documentazioni precise, però, devi rivolgerti al tuo Ordine regionale dei giornalisti.
Maurizio di Torino ci scrive:
Vorrei sapere se esiste una soglia di pagamento minima per poter presentare richiesta di iscrizione all'albo dei giornalisti pubblicisti. Mi risulta che fino a qualche anno fa bisognava dimostrare di aver percepito almeno un milione e mezzo di lire all'anno; è ancora così?
Risponde Filippo Bisleri:
Prima dell'iscrizione all'Ordine nessuno è tenuto ad osservare il tariffario (anche se sarebbe utile) e dunque non esiste un minimo. Talvolta le domande vengono bocciate dall'Ordine regionale per insufficienza di pagamenti ma, nella mia esperienza, tutti i ricorsi all'Ordine nazionale hanno trovato accoglimento pieno.
EDITORIALE Donne in un corpo che non ci deve appartenere di Silvia Grassetti

Non bastava l’ostracismo politico, in Italia, sull’aborto, né quello dottrinale della Chiesa. Ci si è messo pure il vice-premier ceceno a ribadire il concetto: donne, sono gli uomini a stabilire come dovete usare il vostro corpo; nella fattispecie, rassegnatevi alla poligamia.
E’ forse vero che l’uscita di Ramzan Kadyrov, subito ripresa con enfasi dal famigerato Zhirinovski, vicepresidente del Parlamento russo, rientra in questioni di politica interna: dopo decenni di guerra e migliaia di uomini morti, nel Caucaso si ritrovano con dieci milioni di donne in più rispetto al numero degli uomini; con troppe babushke sole in villaggi semivuoti e dieci milioni di abitanti in meno rispetto a quindici anni fa; con la prospettiva di una diminuzione ulteriore di altri venti milioni nel prossimo ventennio.
Se ci aggiungiamo che la Cecenia è musulmana e che la Sharia lo consente, il gioco è fatto: anche se la proposta della poligamia non piace a molti, sarà probabilmente meglio accolta rispetto all’unica altra soluzione per evitare il crollo demografico. L’immigrazione massiccia sembra non piaccia, a un popolo di ultranazionalisti.
Non c’è pace per il corpo delle donne: mercificato ove possibile, guardato con sospetto nella sua facoltà di dare la vita, si rivela quasi, per gli uomini e sugli uomini, uno strumento di potere insondabile e destabilizzante.
E così ancora una volta dobbiamo constatarlo: la donna ha diritto di scegliere, ma solo fino a un certo punto. Il suo corpo le appartiene solo finché si presta ai voleri di qualcun’altro, che sia la natura, Dio, la politica o la demografia.
 
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