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Telegiornaliste anno III N. 6 (84) del 12 febbraio 2007


MONITOR Barbara Dell’Aquila, giornalista ventiquattr’ore su ventiquattro di Gisella Gallenca

Ci sono due aggettivi per descrivere la carriera di Barbara Dell'Aquila, giornalista e conduttrice di Sky Tg24: varia e… avventurosa. Dopo la laurea in Scienze Politiche e qualche anno di esperienza in ufficio stampa, una vera e propria crisi: Barbara si rende conto che il suo posto è dall’altra parte, tra chi l’informazione la fa. Una fuga alle Hawaii precede il suo ingresso nel mondo del giornalismo televisivo: inizialmente a Rete Oro, poi a Stream e, infine, a Sky.
La tua carriera si è sviluppata soprattutto nell’ambito della televisione satellitare. È una scelta casuale o ragionata?
«Da un lato è stato un caso. Ma in realtà la mia tesi di laurea era incentrata sulla televisione via cavo e su Stream. L’ambito delle nuove televisioni era quindi un settore che già mi interessava molto».
Come vedi il futuro dell’informazione sul satellitare, soprattutto in rapporto alla televisione classica?
«Penso che sia un settore in espansione, che in un futuro prossimo è destinato ad affermarsi sempre di più in Italia, così come è già successo negli Stati Uniti. Tuttavia è un prodotto diverso dalla televisione via etere, e questi due mondi continueranno a convivere: ad esempio, il telegiornale di Sky è particolare, in quanto va in onda ventiquattro ore su ventiquattro, in una modalità differente rispetto al tg tradizionale. In ogni caso, la risposta da parte del pubblico è attualmente positiva e in crescita».
Com’è la tipica giornata lavorativa in un’emittente che dà informazioni a flusso continuo, per tutto il giorno?
«La giornata è molto intensa. Mi sveglio alle 3.30 ed esco di casa alle 4.15; alle 5.00 sono al trucco; e conduco dalle 6.00 alle 11.30. In parte, comunque, dipende dal ruolo che si ricopre. Io, ad esempio, sono conduttrice; ma quando non conduco sto in redazione oppure mi occupo della "confezione" del telegiornale, organizzando i servizi che provengono da tutta Italia. Quest’ultimo compito, in particolare, è molto frenetico, in quanto le notizie vengono aggiornate in continuazione e in tempo reale (anche mentre il tg va in onda); però dà anche molta soddisfazione».
Qual è il tuo consiglio per chi vorrebbe intraprendere la carriera giornalistica in un canale satellitare?
«Forza di volontà e determinazione, prima di tutto, perché è un lavoro che comporta dei sacrifici. E passione, per non scoraggiarsi di fronte ad attività molto faticose. Infine curiosità, voglia di imparare e umiltà. Anche la gavetta è importante!».
CRONACA IN ROSA Tensione nel Parlamento italiano dalla nostra corrispondente Silvia Garnero

BUENOS AIRES - Nel momento in cui il Parlamento Italiano si accinge a discutere il tema del finanziamento della missione militare in Afghanistan, si respira un certo clima di tensione dentro e fuori il governo di Romano Prodi, a cui dal suo insediamento come presidente del Consiglio, l'opposizione di centrodestra non risparmia critiche e tentativi di destabilizzazione, a cominciare dalla “riconta” dei voti, poi per le misure economiche inserite nella Finanziaria e ora con la politica estera.
L'approvazione che l'opposizione parlamentare ha dato sull'ampliamento della base USA di Vicenza ha evidenziato che parte del centrosinistra e del centrodestra sono d'accordo su questo tema.
Senza dubbio, lo stesso fatto mette in evidenza anche quanto e quanti, all'interno della coalizione governativa, non appoggiano questa decisione che lo stesso Prodi ha definito “definitiva”.
La sinistra radicale, presente nella coalizione dell'Unione, dissente non solo sulla questione di Vicenza, difesa dal governo di centrosinistra e dalla destra italiana, critica duramente e minaccia di non appoggiare in Parlamento il rifinanziamento proposto dal governo per la missione militare in Afghanistan, considerando questo tipo di missioni inopportune nel contesto della politica estera italiana.
Alcuni media e politici italiani vedono questi dissidi interni come una crisi che potrebbe minacciare la stabilità del governo.
Vorremo credere che non sia così, poiché questo tipo di disaccordi era prevedibile all'interno di una coalizione che comprende un “centro riformista e una sinistra “radicale”, come alcuni la definiscono.
I disaccordi interni non sempre sfociano in questioni istituzionali, sebbene molti lo desiderino, come pare essere il caso dell'ex premier Silvio Berlusconi e dei suoi sostenitori, che hanno chiesto le dimissioni di Prodi il giorno dopo. Secondo loro, i disaccordi politici all'interno della coalizione di governo sono un motivo sufficiente per aprire una crisi, e mancherebbe l'appoggio politico interno a Prodi.
«Un governo che non abbia la maggioranza in politica estera non è legittimato politicamente per governare. Le dimissioni del governo sono un atto penosamente necessario per evitare al Paese una situazione grave e paradossale», ha dichiarato Berlusconi.
Il presidente del Consiglio, per parte sua, ha indetto un incontro tra gli esponenti dei partiti di maggioranza per “riaffermare” le linee di politica estera del governo, accusando l'opposizione di usare «toni apocalittici» con «conclusioni estreme».
Sui fondi per la missione in Afghanistan, dove la presenza italiana si protrae da anni, il governo ha approvato il decreto, che però deve essere confermato dal parlamento entro 60 giorni.
Qualche settimana fa ho scritto un articolo che rimarcava le divisioni interne all'attuale governo sulle linee di politica estera. Oggi più che mai, ne segnalo l'attualità, ma riaffermo il mio personale desiderio di cittadina ed elettrice perché i leader politici italiani di tutti i partiti siano all'altezza della situazione con la coerenza e la maturità che consentano di sostenere le istituzioni, senza cambi repentini, e che ricordino: il voto popolare di aprile diede loro un mandato per i prossimi anni, che merita di essere completato.
Promesse elettorali incluse.
FORMAT  Il sesso velato di Nicola Pistoia

Le cose che fanno veramente scalpore, oggi giorno, quali sono? Una ragazza che, incinta, decide di far sottoporre al test del DNA tredici uomini? Forse. Una donna che, a 67 anni, diventa mamma? Può darsi. Un uomo che lascia la moglie per mettersi con una ragazza di neanche vent'anni?
Per qualcuno niente di tutto ciò. Però un programma televisivo che parla di sesso può certamente scatenare, almeno, la curiosità della gente. Certo non ci stiamo riferendo all’Italia, ché abbiamo già visto di peggio, bensì all’Egitto, dove uno show dedicato all’amore proibito ha suscitato l’interesse dei giovani telespettatori ma ha fatto torcere il naso ai "soliti" integralisti.
Big Talk, in onda ogni settimana sul canale satellitare egiziano Al Mehwar e condotto in studio da Heba Kotb, sessuologa che lavora in una clinica del Cairo, si rivolge alle nuove generazioni e si propone di dare consigli, suggerimenti ed avvertimenti su come affrontare, in modo tranquillo e naturale, la vita sessuale, rispettando, ovviamente, le regole imposte dalla religione islamica.
L’intento della Kotb non è certo quello di stravolgere le fondamenta del Corano, né di «accentuare le perversioni sessuali dei ragazzi», come ha detto qualcuno. E questo proprio i ragazzi, ma non solo, l’hanno capito: gli indici di ascolto si sono impennati e il programma è diventato uno dei talk show più seguiti in Medio Oriente.
Kotb sostiene che essere franchi in una trasmissione come la sua è necessario, e che la maggior parte dei divorzi nel mondo arabo sono dovuti a problemi sessuali causati dall'ignoranza e dalle continue pressioni sociali, a cominciare da quella che riguarda, per le donne, l'obbligo di arrivare vergini al matrimonio.
In Italia abbiamo un programma più o meno simile. Loveline su Mtv, infatti, affronta gli stessi temi, certo con più libertà ma sempre nel rispetto delle tante sensibilità che entrano in gioco in questa delicata materia.
Quello che fa veramente scalpore, scandalo e vergogna, nel mondo, è ben altro. E' la violenza di cui sempre più spesso siamo testimoni. E tutti noi dovremmo esserne consapevoli, o possiamo rendercene conto, guardando i telegiornali o sfogliando un quotidiano.  
ELZEVIRO Tutti scrittori, grazie ai pinguini di Gisella Gallenca

Ogni romanzo ha una storia. Il prodotto finale, che arriva sugli scaffali delle librerie e quindi al pubblico, è frutto di un lungo processo, fatto di riletture, revisioni e cambiamenti. C’è l’autore, in primo luogo. E, nel background, un vero e proprio “formicaio” di persone e professionalità diverse, in continuo confronto e collaborazione.
Ma cosa succederebbe nel momento in cui tutto ciò fosse portato alla luce, davanti agli occhi dei lettori? E se questi potessero addirittura partecipare alla creazione, contribuendo in maniere differenti e a seconda delle proprie capacità?
Un esperimento del genere è stato lanciato pochi giorni fa, dalla casa editrice inglese Penguin.
Si tratta del primo tentativo di wiki-romanzo, un’opera letteraria aperta agli aspiranti scrittori e ai surfer della Rete. A million penguins – questo il titolo – sta diventando un vero e proprio caso editoriale: nel corso delle prime ventiquattr’ore dall’apertura, erano già stati creati dodici capitoli.
E, dopo circa una settimana, questa imprevedibile creatura di Internet continua a evolversi senza interruzione. Ogni refresh della homepage del sito (A Million Penguings), infatti, riserva sorprese e novità. Anche a distanza di pochi minuti. Una risposta fortissima, fuori da ogni aspettativa e previsione.
Certo, la collaborazione tra utenti è una delle caratteristiche fondamentali del fenomeno indicato col termine Web 2.0. E le realtà che appartengono a questo filone sono molte e in forte crescita (Wikipedia e We are smarter than me sono solo due esempi, tratti dall’ambito della divulgazione del sapere).
Ma l’applicazione di questo modello in ambito artistico e creativo non era ancora stata sperimentata, a livello globale. Jeremy Ettinghausen, manager del progetto, si appella alla creatività collettiva: «A million penguins è solo un esperimento, per sondare le potenzialità e i limiti della scrittura collaborativa in rete […]. La speranza principale consiste in un romanzo finale perlomeno coerente dal punto di vista narrativo».
Insomma, una sfida ambiziosa. I risultati? Li vedremo in un paio di mesi
DONNE La prima italiana che spicca il volo di Tiziana Ambrosi

Nel 1913 il ruolo della donna era confinato, nella maggior parte dei casi, tra le spesse mura domestiche: lavare, stirare, cucinare, crescere i figli, mandare avanti la casa.
Per la verità alcune lavoravano, ma difficilmente potevano essere altro che maestre o impiegate.
Nel 1913 Rosina Ferrario, un'impiegata milanese, fu la prima donna italiana a prendere il brevetto di pilota. L'ottava nel mondo.
Già appassionata di ciclismo ed escursionismo, con caparbietà volle aggiungere anche la passione per il volo. Dopo aver assistito ad una esibizione di volo a Milano nel 1910, l'anno successivo si iscrisse ai corsi di volo.
Non fu facile, da una parte l'avversità della famiglia, dall'altra i pregiudizi di colleghi e superiori, in un mondo maschilista e "virile". Alla forza fisica necessaria per pilotare un aereo - i primi mezzi erano poco più che trabiccoli - si univa la necessità di un grande coraggio, dato l'elevato tasso di incidenti.
Tutto ciò non scoraggiò Rosina, che arrivò a realizzare il suo sogno: alzarsi in volo con un aeroplano pilotato da lei stessa. In assoluto, la prima donna ad ottenere un brevetto di volo fu la baronessa francese Elise de La Roche, nel 1909. Poche altre seguirono, alcune perirono nelle loro imprese, e l'ambiente rimase sempre piuttosto settario.
A complicare ulteriormente le cose, in Italia ci fu l'inizio della guerra. I voli civili furono sospesi, e quindi anche Rosina, dopo alcuni anni di esibizioni e premi, fu costretta a terra.
Per la verità, Rosina Ferrario offrì il proprio contributo allo sforzo bellico. Chiese infatti di poter diventare "crocerossina aerea" per il trasporto dei feriti dal fronte a luogo sicuro.
Ma si sa: la guerra è affar di uomini e il ministero della Guerra le rispose che non era «previsto l’arruolamento di signorine nel Regio Esercito».
Nel 1921 Rosina si sposò e mise al mondo due figli. Chiuse il brevetto in un cassetto, forse sotto la biancheria: lavare, stirare, cucinare, crescere i figli, mandare avanti la casa.
E mandare avanti un albergo assieme al marito.
Non era più tempo di spiccare il volo. Ma la strada - quella dei cieli e dell'emancipazione - ormai era aperta.
TELEGIORNALISTI Angelo Santoro, una "iena" di giornalista di Nicola Pistoia

Angelo Santoro ha 42 anni. Non è parente di Michele, e infatti alle Iene era soprannominato “il meno famoso”. Figlio di un carabiniere pugliese e di una casalinga altoatesina, inizia la carriera giornalistica alla fine degli anni Ottanta nella redazione dell’emittente veronese TeleArena. In seguito collabora a lungo col quotidiano La Nuova Sardegna e con l’emittente regionale Sardegna Uno. Tra il 1998 e il 2001 scrive per il settimanale satirico Cuore, è autore di programmi radiofonici per RDS – Radio Dimensione Suono, e realizza numerosi servizi per la trasmissione Mediaset Le Iene. Nel 2001 viene assunto a Studio Aperto, dove conduce l’edizione delle 12.25.
Angelo, se le proponessero di partire come inviato di guerra, sarebbe pronto o rinuncerebbe?
«Solo tre anni fa avrei risposto senza esitazione sì, con la valigia già pronta in mano. Oggi no, non partirei. Con l’età, cambia l’ordine delle priorità della vita. La cosa più importante per me oggi è la famiglia che sto costruendo. Mia moglie, Cristina Stanescu, anche lei giornalista. E mio figlio Leonardo, nato solo quattro mesi fa. Rinunciare a loro, magari per mesi, è un prezzo troppo alto da pagare. Poi al fronte c’è troppa ressa, vogliono diventare tutti inviati di guerra. E nessuno scrive più le tante storie di casa nostra. Migliaia di piccoli conflitti senza cannoni che meriterebbero di essere raccontati, ma che hanno poco fascino per chi si avvicina al giornalismo».
Lei ha lavorato in una delle trasmissioni satiriche più importanti della tv, Le Iene. Ci spiega questo passaggio un po' insolito?
«Alle Iene facevo il giornalista. Prima ancora, facevo il giornalista anche scrivendo per il settimanale satirico Cuore. E ora faccio il giornalista a Studio Aperto. Cambiano i contenitori, le testate, i direttori. Ma il mestiere è lo stesso. Credo che la dote più importante di chi fa questo lavoro è l’essere consapevoli dei propri limiti. La vera "Iena" è un fuoriclasse, come Enrico Lucci. Io sono solo un modesto artigiano della penna. E già tanto che il direttore di Studio Aperto, Mario Giordano, mi abbia offerto un’opportunità professionale che molti sognano: condurre il quarto telegiornale per ascolti in Italia».
Da un punto di vista giornalistico, secondo lei, hanno fatto bene quelli delle Iene a realizzare un servizio sull'uso di droga da parte di alcuni parlamentari? E il fatto di interrompere la trasmissione del video?
«La legge prescrive che i dati sensibili, ad esempio quelli sanitari, debbano essere tutelati. Ma il diritto alla privacy prevede nomi e cognomi, oppure volti riconoscibili. In questo caso, veniva garantito l’anonimato. Con la stessa procedura erano stati testati i giovani in discoteca e tanti altri. Conoscendo gli autori del programma, credo che lo scopo dell’inchiesta non fosse tanto dimostrare che i politici si drogano, ma che la droga ormai è diffusa ovunque. Nei locali, negli ambienti di lavoro, nelle famiglie e pure in Parlamento. Detto questo, lo stop del Garante – per quanto legittimo - ha avuto un po’ troppo il sapore amarognolo dell’avvertimento: vietato disturbare i potenti».
Il vostro tg viene accusato di dare troppa importanza a notizie frivole piuttosto che ad eventi seri ed importanti. Cosa pensa a riguardo?
«Che tutti hanno il diritto di usare il telecomando. Se una cosa piace, la si guarda. Se no, si cambia canale. Credo che Studio Aperto abbia quantomeno il pregio di avvicinare all’informazione tanti giovani che normalmente non leggono i quotidiani, sono disinteressati alla politica e a ciò che accade attorno a loro. La struttura rapida, snella e informale del nostro tg affianca i fatti più importanti della giornata a servizi più leggeri. Ma se guardate bene, in quella mezzora c’è tutto. E’ vero, si parla spesso di personaggi televisivi. C’è la cronaca rosa. Ma anche inchieste sulle emergenze ambientali, sul mondo della scuola, sull’emarginazione, sul razzismo. Vorrei ricordare i reportage dall’Iraq e dall’Afghanistan della nostra Gabriella Simoni. Con lo scoop sull’incidente aereo di Linate Massimo Miori ha vinto il premio Ilaria Alpi. Maurizio Zuffi è stato il primo ad intervistare Annamaria Franzoni. Abbiamo svelato tante magagne della burocrazia italiana. Quel che vedo, piuttosto, sono tanti altri telegiornali considerati “seri” che lentamente stanno cominciando ad “alleggerirsi”. Mi verrebbe da dire, a studioapertizzarsi…».
Chi dei suoi colleghi, anche di altri tg, apprezza maggiormente?
«Vorrei avere il coraggio di Milena Gabanelli di Report, l’onestà intellettuale di Alessandro Sortino delle Iene, la malizia di Claudio Sabelli Fioretti, l’ironia di Michele Serra… e lo stipendio di Bruno Vespa!».
OLIMPIA  Voci attorno allo stadio di Silvia Grassetti

I fatti di Catania hanno dato il via a una lunga sequela di parole e ai consueti fiumi d’inchiostro sul male del calcio, della società italiana e delle società calcistiche; hanno messo in luce che Moggiopoli era solo la punta di un iceberg che non teme l’effetto serra, e hanno evidenziato che il problema della violenza negli stadi è molto urgente, e di non facile soluzione.
Per avere qualche elemento di riflessione in più rispetto alle troppe parole sentite nei giorni scorsi, questa settimana la nostra rubrica sportiva ospita l’intervista esclusiva a un collega del poliziotto ucciso.
Come la fa sentire il circo mediatico attorno all’omicidio Raciti?
«E’ una buffonata: sull’onda emotiva se ne dicono tante, ma quel che conta è solo il business. Il calcio è un’industria, perciò, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo, la morte di un poliziotto sta nel pacchetto, come ha detto Matarrese. Tra un anno qualcuno intervisterà la moglie di Raciti che dirà che non ha ancora la pensione e campa della carità dei colleghi».
Che differenza c’è tra gli ultras che attaccano la polizia e i no global che manifestano a Genova?
«Nessuna: è sempre una violenza contro l’ordine precostituito. Sono le stesse persone con le stesse metodologie: cambiano solo le definizioni. Non si tratta del manifestante che va a manifestare, o del tifoso che va allo stadio, ma di gente organizzata che parte da casa per colpire le forze dell’ordine».
Ma i no global hanno forse degli ideali…
«Lo vada a dire ai milanesi che l’11 marzo scorso avevano la macchina parcheggiata in corso Buenos Aires, o mi dica lei che differenza c’è tra le immagini del G8 di Genova e quelle della guerriglia fuori dallo stadio di Catania. Tutti possono avere ideali. La Costituzione garantisce il diritto di manifestare e di esprimere opinioni. Ben venga. Ma questa non è gente con ideali, è solo gente che cerca lo scontro ad ogni costo. Gli ideali sono una scusa».
Lei ha prestato servizio allo stadio qualche anno fa: crede che la situazione sia andata peggiorando negli anni o è sempre la solita solfa?
«E’ sempre la solita solfa: c’è gente che non va allo stadio per la partita, ma appositamente per scontrarsi con le tifoserie avversarie o, all’occorrenza, per allearsi con loro e scagliarsi contro la polizia. Le società spesso sono complici in tutto questo».
E il silenzio dei calciatori?
«E’ un silenzio assordante. Proprio quelli che sono pronti a correre sotto la curva a ogni gol e che si toglievano la maglietta per lanciarla ai tifosi, adesso tacciono. Ma forse, tutto sommato, sono più onesti loro a tacere che altri, che hanno parlato fin troppo».
Cosa può fare la polizia che attualmente non fa?
«Facciamo davvero molto, e non si capisce neanche perché dobbiamo farlo noi. Le società incassano miliardi e non c’è ragione perché la tutela dell’ordine pubblico debba ricadere sulle tasche del cittadino. Visto che i tifosi sono sempre e solo di due squadre alla volta, sono le società che possono e devono rispondere».
E’ una soluzione la vendita degli stadi alle società?
«Sì, assolutamente: si responsabilizzerebbero e, rispondendo dei danni ai loro beni, ci sarebbero meno scalmanati negli stadi».
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