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Telegiornaliste anno III N. 19 (97) del 14 maggio 2007


MONITOR Silvia Carrera, il volto giovane di Studio aperto di Giuseppe Bosso

Nata a Cremona, Silvia Carrera è giornalista professionista dal 2005. Dopo una parentesi a SkyTg24 è entrata a far parte della redazione di Studio Aperto come redattrice, in particolare di servizi legati al mondo dello spettacolo.
Sei già entrata nel cuore degli spettatori: soddisfatta, o non te l’aspettavi?
«Ho iniziato nelle tv locali: non ero abituata a questa visibilità, ad essere riconosciuta dalla gente che mi seguiva e che mi segue, anche sul vostro forum. Mi auguro solo che, alla fine, i miei servizi piacciano per quello che riesco ad esprimere, per quello che dico e per come sono costruiti».
Nei servizi tv appari molto esuberante: ritieni la spontaneità una dote essenziale per questo lavoro?
«Io sono considerata una delle meno esuberanti, pensa un po’! Ma per fare il giornalista in tv l’esuberanza è utile: devi metterti in gioco, devi coinvolgere con le immagini e le parole avendo a disposizione pochissimo tempo. I servizi durano al massimo un minuto e mezzo. L’essere spontanei e a proprio agio conta molto, gli altri lo percepiscono.
Nel giornalismo in generale non credo sia una dote essenziale, pensa ad alcuni giornalisti della carta stampata, molto meno presenzialisti di quelli della tv ma bravissimi».
Che tipo di informazione ritieni si debba fare per attrarre i giovani?
«Il nostro è principalmente un pubblico di fascia giovane e quindi cerchiamo sempre di essere attenti a quello che ai giovani interessa. Adesso tutte le nuove mode che appassionano i ragazzi vengono messe in rete, quindi è lì che andiamo a scovarle, oltre ad avere contatti con i ragazzi. Poi, ovviamente, ci guardiamo in giro anche noi! Se non vedi come cambia il mondo intorno a te, che giornalista sei?».
Oggi inviata d’assalto, domani anchorwoman?
«Non sono un’inviata d’assalto, non faccio cronaca, mi occupo principalmente di costume, dove non c’è nulla da assaltare se non i vip quando scappano!
Amo il giornalismo televisivo sotto ogni suo aspetto, mi piace tantissimo fare i servizi, nel senso di pensarli, girarli e costruirli dandogli una logica, un senso, una chiave di lettura. Però, certo, se mi chiedessero di provare a condurre non rifiuterei».
Cosa pensi delle proteste dei colleghi per il rinnovo del contratto di lavoro?
«Gli editori non sono stati molto inclini a trattare, per ora: non è facile tirare avanti per chi, come me, ha un contratto a termine, e neanche per tutti i precari che aspettano da anni una sistemazione definitiva. Così come per i tanti freelance che non hanno ancora visto riconosciuta una vera e propria sistemazione a livello normativo. Spero che lettori e spettatori possano capirci».
Ti è mai capitato di sentirti imbavagliata?
«No, mai».
Cosa viene prima: il lavoro o la vita privata?
«Così come metto tutta me stessa nel lavoro, metto tutta me stessa nel privato.
Certo, a volte il ritmo è pesante, magari non vedo i miei genitori per settimane e spesso devo rinunciare all’ultimo minuto a serate organizzate da tempo, ma quanti vorrebbero essere al mio posto?
Sono immensamente felice di lavorare a Studio Aperto e della fiducia che mi è stata data».
MONITOR Stefania Cioce, esperienza e simpatia di Giuseppe Bosso

Stefania Cioce, comasca, è giornalista professionista. Nata e cresciuta nelle televisioni locali, ha esordito nel 1988 a Espansione Tv di Como. Passata ad Antenna3 nel 1992, vi è rimasta per otto anni.
Dopo una breve parentesi in Rai, dal 2002 è a Telelombardia, nella redazione di Prima serata, e tutti i giorni conduce dalle 12.00 alle 13.00 Orario Continuato, uno spazio quotidiano di approfondimento dei temi più importanti della politica lombarda. Ama tutto ciò che è spettacolo, con una particolare predilezione per la danza.
Nella sua carriera si è occupata di tante cose, dagli spettacoli allo sport, dalla cronaca al gossip. Ma lei, Stefania, che tipo di giornalista si considera?
«Una tv locale rappresenta sempre una buonissima scuola che ti permette di fare una gavetta a tutto tondo: per quanto mi riguarda posso dire che mi annoio facilmente, quindi mi è sempre piaciuto cambiare settore, mettendomi continuamente alla prova. Fatto per anni, fino all'anno scorso, un magazine di spettacolo, ora mi occupo di politica e attualità con il programma Orario continuato, in cui, ospitando ospiti di entrambi gli schieramenti politici, do la possibilità anche allo spettatore di interagire con i personaggi del mondo politico, cosa in cui penso Telelombardia e Antenna3 siano dei veri e propri pionieri».
Lei è molto apprezzata per la grande carica di vitalità che trasmette: è una dote importante per il giornalista?
«Credo che ognuno di noi abbia le sue qualità, ma per quanto riguarda il nostro lavoro è indispensabile avere determinate caratteristiche, e non tutti possono andare in video: per quanto mi riguarda cerco sempre di essere spontanea, è importante andare in onda e affrontare il pubblico a viso aperto».
L'informazione in Italia è libera?
«I condizionamenti sono presenti a tutti i livelli dell’informazione, tanto a livello nazionale quanto locale. Qualsiasi mezzo di informazioni fa capo ad un editore che ha precisi interessi. La normale difesa degli editori di tali interessi deve coniugarsi con la coscienza e la professionalità dei giornalisti, in modo che non vengano compromessi la verità e il diritto dell'utente ad essere informato. La notizia è una, ma la si può poi commentare da diversi punti di vista. La pluralità dell'informazione serve proprio a garantire l'espressione dei diversi punti di vista».
Sul sito di Telelombardia si legge che lei «non sa resistere di fronte ad un piatto di pasta o una bistecca al sangue»; i suoi fan, dunque, a prenderla per la gola hanno qualche speranza di conquistarla?
(Scoppia a ridere, ndr) «Affascinarmi sicuramente; ma avrà anche letto che sono felicemente sposata e mamma, di conseguenza... Scherzi a parte, penso che voi uomini, quando volete, sapete davvero come trattare una romantica come me; è vero comunque che apprezzo la buona cucina e direi che potrebbe essere un buon inizio, non trova?».
CRONACA IN ROSA Somalia, ora serve la conferenza di pace di Erica Savazzi

Novella Maifredi è responsabile dei progetti in Somalia, Sudan e Kenya del COSV - associazione di volontariato che opera in Africa, America Latina, Asia ed Europa - e ha seguito da Nairobi gli scontri tra le truppe del governo provvisorio e le milizie islamiche.
Lei è tornata da poco in Italia. Qual è la situazione in Somalia?
«La situazione è migliorata. I combattimenti a Mogadiscio sono finiti, con le forze etiopi e del governo di transizione che hanno bloccato i miliziani».
Cioè le Corti islamiche.
«Chiamarle Corti islamiche è una semplificazione. I miliziani sono membri di gruppi diversi, alcuni che orbitano intorno alle Corti islamiche, altri invece più difficilmente identificabili. Si tratta di più gruppi che non sono facilmente riconoscibili».
Quali sono gli interessi dietro questi combattimenti?
«E’ molto difficile rispondere. Da quando Siad Barre è caduto nel 1991 si è assistito a uno stato di anarchia. Non è stato possibile instaurare un governo stabile per più ragioni, sia per interessi locali che internazionali. Dal punto di vista internazionale potrebbe far comodo a chi può trarre vantaggio dall'instabilità e dalla mancanza di controllo per far passare in Somalia merci varie, spesso poco legali. Tale aspetto si collega a livello locale a logiche anche di clan e di gruppi di interesse che insistono sul territorio».
Com’è la situazione del punto di vista umanitario?
«I corridoi internazionali si stanno riaprendo, in particolare gli aeroporti del centro-sud che permettono l’accesso dal Kenya. Questo vuol dire che è stato possibile sbloccare gli aiuti umanitari, soprattutto per i migliaia di sfollati di Mogadiscio che si sono diretti verso sud, anche se gli interventi sono ancora insufficienti a coprire tutti i bisogni. Guerra e colera hanno portato a una situazione umanitaria molto difficile».
Qual è la situazione di donne e bambini?
«Donne e bambini, come in tutti i contesti di crisi, sono le parti più deboli. In Somalia la situazione era già difficile prima della guerra: per i bambini è molto difficile accedere all’istruzione, a causa della scarsità di strutture e della difficoltà di raggiungerle. COSV, insieme ad altre ONG locali, sta portando aventi un progetto di supporto a sette scuole, con l’obiettivo di aumentare di almeno il 70% le iscrizioni. Questo obiettivo è stato raggiunto aiutando le comunità locali. Le donne sono coloro che hanno tenuto insieme la società somala. Il COSV lavora molto con loro, per il semplice motivo che sono presenti sul luogo e sono molto più propense ad impegnarsi per le proprie comunità. Più della metà dei nostri gruppi locali è composto da donne».
Quale è stata l’azione della comunità internazionale di fronte alla crisi somala?
«Ci sono stati gli appelli delle agenzie ONU agli Stati membri e a tutta la comunità internazionale per aprire i canali umanitari. L’Onu ha fatto pressione sul governo per riaprire i corridoi umanitari interrotti con la guerra, e oggi il Pam (Programma Alimentare Mondiale) si occupa di distribuire il cibo. Dal punto di vista politico la prossima mossa dovrebbe essere quella di promuovere una conferenza di riconciliazione nazionale. Le truppe dell’Unione Africana, ora che i combattimenti sono cessati, possono portare aventi il lavoro di pattugliamento del territorio, mentre prima, durante gli scontri, restavano all’interno della loro sede: il loro compito è di peace monitoring, un ruolo di polizia».
Quali potrebbero essere gli sviluppi futuri?
«Attualmente ci sono segnali positivi per cui esprimo un cauto ottimismo. D’altra parte però la situazione è estremamente variabile, non si sa fino a quando durerà questa situazione. Proprio per questo sarebbe necessario organizzare al più presto la conferenza di pace, ovviamente una volta che gli scontri saranno cessati definitivamente e si saranno chiarite le varie posizioni».
FORMAT Chiara Tortorella, acqua, sapone e... paracadute di Giuseppe Bosso

Questa settimana incontriamo un volto giovane e frizzante della tv. Figlia di Cino Tortorella, celeberrimo Mago Zurlì dello Zecchino d'Oro, Chiara Tortorella attualmente conduce su All music la striscia quotidiana The Club On the road: in giro per l'Italia, fa incontrare gli iscritti alla community creata dall'emittente, e, il mercoledì, Classifica Download, in cui vengono visionati i migliori video da scaricare votati dal pubblico.
Alle spalle Chiara ha una lunga gavetta fatta di spot pubblicitari (ricordate la signorina Boccasana?), programmi musicali (Top of the pops, Rapido, Wozzup)e la tv dei ragazzi (Disney club, Junior Sport). Al cinema ha partecipato al film Ma quando arrivano le ragazze? di Pupi Avati. E' stata anche deejay radiofonica.
Una domanda che ti avranno già fatto: essere la figlia del Mago Zurlì ti ha aiutato nel tuo lavoro?
«Mah, ti risponderò come rispondo sempre quando me lo chiedono. Ho cercato sempre di camminare con le mie gambe, come penso debbano fare i figli di grandi avvocati che iniziano lo stesso mestiere proprio nello studio legale del padre; ho cercato di costruirmi un mio piccolo mondo, e se all’inizio forse mi è stato d’aiuto essere la figlia di Cino Tortorella, poi ho cercato di dimostrare che avevo delle doti personali».
La tv dei ragazzi è stata una buona palestra per te?
«Assolutamente sì, a maggior ragione per la grande spontaneità e la vivacità che hanno i bambini, con i quali è impossibile fingere e che ti fanno chiaramente capire se una cosa gli piace oppure no».
Hai cercato, in questo ambito, di ispirarti a quello che tuo padre ha fatto e continua a fare?
«La tv dei ragazzi in cui lui ha lavorato è molto diversa da quella in cui mi sono trovata io, e comunque, ti ripeto, ho cercato sempre di fare le cose a modo mio, pur ricevendo all’inizio una giusta ispirazione da papà».
The Club on the road ricorda vagamente programmi del passato come Colpo di fulmine. Nei concorrenti che incontri noti più lo spirito del gioco oppure c'è chi cerca realmente l’anima gemella?
«Il viaggio in palio credo sia la molla scatenante, il motivo principale che anima i concorrenti. Altri lo fanno per lo più per divertirsi in modo diverso, credo, ma è anche capitato, certo, che qualcosa tra i ragazzi sia nato».
Cambiamo argomento: emittenti come All Music servono a valorizzare la musica nel nostro Paese?
«Certamente, perché danno anche molto spazio agli artisti emergenti, ma è una cosa che, penso, dovrebbero fare anche le grandi emittenti generaliste, che alla musica non danno molto spazio».
Continuerai a condurre programmi musicali o cercherai altri percorsi?
«Ho fatto anche altre cose, ho partecipato a dei film di Pupi Avati, e intendo continuare a seguire la strada della recitazione, senza naturalmente trascurare la mia carriera televisiva».
Hai avuto anche un’esperienza da inviata nel reality Ritorno al presente. E se ti offrissero di parteciparvi?
«Se fosse un programma ben costruito, in cui magari i concorrenti dovessero misurare le loro abilità sportive, mi piacerebbe farlo, evitando invece i soliti reality che in questi anni hanno dilagato nella nostra tv».
Sei un’appassionata di sport estremi, che riscontrano un crescente successo in Italia. Come mai secondo te?
«Perché finalmente tutti li stanno scoprendo, rendendosi conto che sono alla portata di tutti, non solo degli uomini e non solo di quelli dotati atleticamente. Ho fatto paracadutismo e altre discipline che mi fa piacere, appunto, constatare riscuotano molti consensi».
Chiudiamo con una considerazione che fece Carlo Conti proprio su di te, tempo fa. Parlando a Sorrisi e canzoni ti citò tra alcune ragazze acqua e sapone sulle quali, secondo lui, la tv dovrebbe puntare. Credi che sarebbe questa davvero la strada da seguire?
«Eh, bella domanda! Diciamo che la lealtà e l’impegno sono secondo me i principi che dovrebbero essere premiati, alla lunga, ma non sempre è facile individuare chi veramente si applica e chi ricorre ad altri stratagemmi».
CULT Desaparecidos in mostra di Antonella Lombardi

Centri Clandestini di Detenzione. A metà degli anni Settanta, durante le persecuzioni del regime militare in Argentina, erano più di 350 i luoghi dell’orrore che causarono migliaia di desaparecidos: uomini e donne arrestati, umiliati, trucidati.
Costretti a lunghe e durissime prigionie, sottoposti a torture atroci, i presunti sovversivi venivano sequestrati, in casa o in strada, davanti agli attoniti familiari, incappucciati, caricati su auto senza targa e portati nelle prigioni.
Qui, sempre incappucciati, i prigionieri venivano denudati e incatenati, costretti a fare i propri bisogni corporali in condizioni precarie e promiscue. Sottoposti a interrogatori sotto tortura, trovavano la morte in scuole, caserme; in luoghi noti come Olimpo, Club Atletico, ESMA.
Adesso, un'esposizione, con le fotografie di Giorgio Palmera e Ariel Gabriel La Rosa, alla Casa della memoria e della storia di Roma, racconta, fino al 31 maggio, i luoghi e le storie legate alle persecuzioni del regime militare in Argentina. La mostra, Spazi (des)aparecidos, riporta alla luce i Centri Clandestini di Detenzione (CCD), con panoramiche di grande formato, documentari e interviste.
Il punto di ripresa è vicino alla posizione sdraiata a terra a cui erano costretti i prigionieri, per restituire soggettivamente un'impressione visiva simile alla loro. Interni bui e profondi, in cui sprazzi di luce diventano elemento narrativo, capace di restituire emozioni palpabili in luoghi ancora carichi di presenza. A queste immagini si affiancano intensi ritratti, associati a racconti personali, che testimoniano ciò che nessuno di loro può - e vuole - rimuovere dai propri ricordi.
Completano il racconto alcuni significativi scatti a colori di Ariel Gabriel La Rosa, che ritraggono oggetti dissotterrati nei luoghi di detenzione che diventano agghiaccianti “still life”.
A Roma, alla Casa della memoria e della storia, fino al 31 maggio.
DONNE Madres di Tiziana Ambrosi

Da trent'anni, ogni giovedì sfilano davanti alla Casa Rosada. Con un fazzoletto bianco a coprire la testa. Sfilano tenendo in mano le foto dei figli svaniti nel nulla.
Sono madri che chiedono verità e giustizia. Quelle verità e quella giustizia che cominciarono ad essere calpestate il 25 marzo del 1976, quando, con un colpo di Stato, il generale Videla destituisce dal potere la Presidenta, Isabela Peron vedova di Juan.
Non è un golpe "scenografico", come quello di Pinochet in Cile. La vita in Argentina continua a scorrere come prima, la gente si diverte, fa la fila al cinema. E alcuni, nell'ombra, cominciano a sparire. Oppositori politici, ma anche chi è impegnato nel sociale o in attività sindacali.
Ai familiari che chiedono notizie, i militari rispondono semplicemente desaparecidos: scomparsi.
La realtà va ben oltre: persone imprigionate in luoghi segreti, torturate, uccise. Una mostra fotografica a Roma ricorda le terribili condizioni in cui i prigionieri erano costretti.
E' stato stimato che negli anni della dittatura - dal 1976 al 1983 - nell'ambito di una fantomatica "riorganizzazione nazionale" almeno 30.000 persone siano scomparse.
Cominciò la processione di madri che andavano a cercare notizie dei propri figli. Ognuna per conto suo. Ma i volti che si incontravano erano sempre gli stessi: sempre le stesse madri, sempre per gli stessi figli. Un giovedì dell'aprile 1977 per la prima volta decisero di darsi appuntamento per sfilare in Plaza de Mayo. Il regime militare aveva proibito qualsiasi tipo di riunione nei luoghi pubblici. Le madri, che si riconoscevano dal pannolino di stoffa bianco - diventato poi fazzoletto - sul capo, camminavano in circolo, chiedendo notizie dei loro congiunti. Erano le Madri di Plaza de Mayo.
Hebe de Bonafini, presidente dell'Associazione Madres Plaza de Mayo, ha spiegato che «in piazza tutte eravamo uguali. A tutte avevano sequestrato il figlio, tutte stavamo passando lo stesso dramma, tutte eravamo andate negli stessi luoghi. Fu come se nessuna distanza e nessuna differenza ci diversificasse. Per questo ci sentimmo bene. Per questo la piazza ci raggruppò. Per questo la piazza ci consolidò».
Alla caduta del regime militare una parte della verità venne a galla. Vennero alla luce fosse comuni, vennero effettuati dei test del DNA per dare un nome alle salme. Dramma parallelo lo vivono gli Hijos - soggetto anche di un film, bambini strappati ai genitori, spesso uccisi - affidati e cresciuti dalle famiglie dei militari.
Le Madri sono ormai diventate un simbolo, quasi un'istituzione. Sono la memoria storica dell'Argentina moderna, che ancora fa fatica a chiudere i conti con il proprio passato. Tutta la verità non è uscita, tutti i responsabili non sono stati perseguiti, ma con costanza e dignità queste donne chiedono giustizia.
«L’intento è arrivare a ottenere quella cultura, quell’educazione popolare che ci permetta di ottenere un governo che sia realmente il rappresentante di ciò che noi chiediamo, e non come adesso, che stiamo solo votando, senza che a noi sia veramente possibile essere eletti. Un giorno lo avremo questo governo, che con giustizia condannerà gli assassini che ci hanno fatto vivere tanto orrore in questi anni. Questo è quanto vogliamo. Niente più.»
E ancora, senza fine, continua la marcia in circolo di ogni giovedì.
TELEGIORNALISTI Il romanziere Sottile di Silvia Grassetti

Forse non ve l'aspettavate, ma tra i talenti di Salvo Sottile c'è quello di romanziere.
Il 15 maggio esce Maqeda: la prima storia che Salvo ci racconta non nelle vesti di giornalista, ma in quelle di scrittore.
Maqeda sta al centro della mafia come via Maqueda sta al centro di Palermo?
«Maqeda è la metafora di una salvezza possibile. Il protagonista del romanzo vive di esagerazioni, nel bene e nel male. E la sua vita corre sul filo di un pericoloso gioco d’azzardo, una partita a poker con la mafia che gli chiederà di mettere sul piatto i suoi affetti più cari. Maqeda dovrà risolvere un giallo, ha subito la fascinazione della ricchezza facile, ha sentito l’ebbrezza di appartenere a un mondo - quello mafioso - che gli chiederà di superare prove sempre più difficili.
Ma quando capirà di essere caduto in trappola, prigioniero di una ragnatela di inganni, l'unica via di salvezza per lui resterà la Sicilia, la sacralità della terra, con i suoi profumi, i suoi sapori. Il protagonista potrebbe diventare un killer o un boss mafioso: ha tutti i presupposti per riuscirci. Invece, grazie al carcere, diventa un grande cuoco. Uno chef che all'apice del successo, una sera riceve una telefonata e si incammina in un doloroso viaggio nella memoria, un viaggio alla ricerca di se stesso».
Il tuo protagonista, Filippo Maqeda, quali punti di contatto ha con la tua personalità, le tue esperienze?
«Dipende dai casi. In certi momenti tanti, in altri nessuno. Quando Maqeda è attratto dalla mafia, dai soldi facili, dall’idea di poter avere, grazie alla prevaricazione, il mondo dentro il palmo della sua mano, beh, quella è una storia lontana anni luce dalla mia. Il mondo di Cosa Nostra non mi ha mai attratto, l’ho solo raccontato e a talvolta con qualche difficoltà.
In altre pagine del libro invece Filippo Maqeda mi somiglia molto. Il protagonista a un certo punto - in uno dei mille copioni che si trova a interpretare - diventa un fotoreporter di cronaca nera. Deve lavorare per il giornale L’ora – il giornale in cui cominciò mio padre - in una Palermo difficile, quella della fine degli anni ’70, una città tenuta ancora una volta in ostaggio da una delle tante guerre di mafia. Filippo vuole diventare il numero uno dei fotografi, è bravo ma esagera. In questo caso ho pescato dalla mia memoria».
La realtà della mafia la conosci fin troppo bene: da tuo padre, Giuseppe, giornalista de L'Ora insieme a Tullio De Mauro, ai tuoi primi servizi per Mediaset nei giorni delle stragi di Falcone e Borsellino...
«Maqeda racconta - a volte senza che io me ne accorga - certi miei ricordi d'infanzia, soprattutto la difficoltà di muovere i primi passi nel mestiere di giornalista, un mestiere che non fa sconti a nessuno e che ho iniziato a 18 anni in una città difficile, che doveva fare i conti con la morte di Falcone e Borsellino, due eroi.
Molti aneddoti in quella parte del libro – alcuni tristi, alcuni molto divertenti, alcuni di sapore agrodolce - li ho vissuti davvero e li ho riadattati per essere vissuti vent’anni prima. Questo libro mi ha fatto capire quanto amo Palermo. Se dovessi parlare di un rimpianto è quello di andarci molto poco».
Come definiresti il tuo romanzo: ottimista, fatalista, cinico?
«Lo definirei ottimista, perché la morale di Maqeda è che si può cambiare, che un'altra vita è possibile dopo il dolore, dopo il sospetto, perfino dopo un’ingiustizia. Per scrivere questa storia mi sono ispirato anche ai racconti del mio amico Filippo La Mantia. Negli anni ’80 era finito in carcere con l’accusa di essere un killer di mafia: oggi è diventato uno chef di prim’ordine. Oggi lui è un’immagine vincente della Sicilia».
Hai già in mente nuove storie da raccontarci in qualità di romanziere?
«Qualche altra storia, qualche altra idea mi frulla per la testa, come negarlo. Ma Maqeda è così vivo ancora dentro di me che pensare ad altro adesso sembra volergli fare a tutti costi uno sgarbo».
OLIMPIA Silvia Cavalleri, un sogno che si avvera di Mario Basile

Per la maggior parte degli italiani è lo sport dei ricchi. Un vezzo, status symbol riservato a pochi eletti, buono per staccare la spina da una vita upper class. Se poi contiamo che in Italia il calcio è una religione mentre gli altri sport vivacchiano accontentandosi delle briciole, capiamo quanto sia difficile per il golf far breccia nel cuore degli sportivi del Belpaese.
C’era riuscito all’epoca di Costantino Rocca, il migliore in Italia dal dopoguerra, capace anche di battere niente meno che Tiger Woods, leggenda vivente del golf internazionale. Per Rocca qualche pagina di giornale, diverse apparizioni in tv, poi, passato il momento di gloria, ha imboccato la strada del dimenticatoio.
A riportare l’attenzione sul golf azzurro ci ha pensato una donna, una “proette” come si dice in gergo: Silvia Cavalleri. La 34enne milanese ha vinto a Morelia, in Messico, il Corona Championship, torneo dell’LPGA, tour americano riservato alle golfiste.
Prima volta per lei, e prima volta in assoluto per una golfista italiana in una gara di questa portata.
La nostra Silvia ha dedicato la vita al golf: da ragazzina passava ore ed ore ad allenarsi sul campo di Verona, dove la madre la accompagnava quasi ogni giorno. Proprio sua madre è stata, ed è tuttora, parte importante nella vita sportiva di Silvia: la segue dovunque e le fa da caddie durante le partite, oltre ad offrirle un sostegno psicologico.
Vita dura quella della Cavalleri, spesa tra viaggi, gare ed alberghi. Al professionismo ci è arrivata dieci anni fa, dopo ottimi risultati da dilettante. Poi solo buone prestazioni fino a due settimane fa, quando si è presa la rivincita. E che rivincita. Alla gara di Morelia c’erano le migliori, tra cui Lorena Ochoa, favoritissima alla vigilia e idolo del pubblico di casa, che nonostante il tifo da stadio per la sua beniamina si è ammutolito di fronte alla perfetta prova dell’azzurra.
Vincere un torneo così era il sogno di Silvia. Da diversi anni ci andava vicino, adesso è finalmente realtà. Trionfo arrivato, però, senza l’apporto di sua madre: «E’ il mio unico rimpianto», ha detto la Cavalleri. Ma è solo un dettaglio che non scalfisce la gioia. Una gioia troppo contenuta, secondo alcuni. Silvia è fatta così, dice chi la conosce bene. Chiusa e taciturna quanto forte e determinata.
La vittoria della Cavalleri è un’iniezione di fiducia e visibilità per il golf italiano. Basti pensare che le due più famose proettes azzurre, Diana Luna e Sophie Sandolo, sono conosciute più per le doti estetiche che per quelle sportive. Due anni fa, la Sandolo ha perfino posato per un calendario.
«L’ho fatto per pubblicizzare il golf», disse. Cosa non si fa per amore dello sport…
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