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Telegiornaliste anno III N. 43 (121) del 26 novembre 2007


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MONITOR Ilda Bartoloni, parola alle donne di Nicola Pistoia

Donne disperate, violentate, uccise e umiliate. Donne straordinarie, fantastiche e martiri della guerra. Donne povere, rom, zingare e schiave del sesso. Ma anche donne ricche, sovrane, politiche e professioniste. Semplicemente donne. Intorno ad esse ruota la rubrica del Tg3 Puntodonna, appuntamento settimanale che va in onda ogni martedì alle 12.25.
Abbiamo intervistato la giornalista Ilda Bartoloni, studiosa del genere, femminista convinta e conduttrice, ideatrice e curatrice del programma.

I problemi che coinvolgono le donne sono tanti. In base a quale criterio decide di trattare un argomento?
«I criteri sono il naso giornalistico dopo trent'anni e... a parte gli scherzi, gli input che mi arrivano dalle lettere e dalle mail dei telespettatori e delle telespettatrici, ma anche dalle organizzazioni, dai ministeri. Mi inviano comunicati e notizie positive da tutto il mondo, non solo dall'Italia. Su quello e sul mio naso organizzo i temi delle puntate, cercando ovviamente di fare quello che non fanno gli altri».

In merito ai fatti di cronaca che puntualmente riempiono i giornali, la condizione della donna, negli ultimi anni, è migliorata o è addirittura peggiorata?
«La condizione della donna è senz'altro migliorata, altrimenti non avrei scritto il libro Come lo fanno le ragazze dove faccio il raffronto tra due generazioni di donne: le ragazze degli anni Settanta e quelle di oggi.
Le donne hanno un'identità, non sono più le proiezioni dei desideri maschili e sono al tal punto strutturate che i maschi hanno paura e si sentono aggrediti, per cui spesso rispondono aggredendo».

Cosa pensa del tragico caso di Roma e della morte di Giovanna Reggiani, uccisa da un rumeno?
«E' il seguito della risposta di prima. Se esiste una questione rumena, nel senso che i rumeni sono il gruppo etnico che in questi ultimi tempi ha commesso più reati, ok ci sto, ma senza dimenticare che il nodo centrale di questa tragica storia è l'aggressione, la violenza sino alla morte di una donna».

Nei suoi libri e nei suoi passati interventi ha parlato di una serie di problematiche legate alla sessualità femminile. Non crede che la tv in qualche modo accentui questi problemi?
«Ho affrontato il tema delle donne e il potere nel libro Il nuovo Potere delle donne e il tema della sessualità in Come lo fanno le ragazze perché, secondo me, sono due facce della stessa medaglia: il desiderio del potere e il desiderio di prendersi il proprio piacere. Secoli di sottomissione avevano insegnato alle donne a desiderare per gli altri, per il marito, per il figlio. Oggi la donna desidera per se stessa. E' un processo d’identificazione che si è compiuto e che genera problemi nel maschio. La tv mostra le veline e le donne poco vestite, belle e spesso un po’ sceme. Qualche volta intelligenti e belle. La tv accentua solo i problemi relativi alla volgarità e alle mediocrità».

Come si è sentita quando le hanno detto di aver vinto il premio giornalistico Matilde Serao? Tra l'altro come unica italiana...
«Avevo già vinto altri premi e dietro ogni premio c'è la volontà di qualcuno che ti stima a proporti. Mi sento quindi gratificata. Vuol dire che ho fatto qualcosa di buono nella mia vita professionale».

C'è qualcosa, ancora, che vorrebbe realizzare?
«Tante cose: altri libri, una trasmissione in seconda serata, ma in primis dei bei viaggi, godermi il mio uomo e godere dell'amicizia».

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MONITOR Daniela Sitzia, inviata è bello di Giuseppe Bosso

Dalle tv locali alla carta stampata, fino a inviata di guerra in Iraq. Questo è il percorso di Daniela Sitzia, oggi conduttrice del tg di Antenna 3 Nordest.

Come ha iniziato la carriera giornalistica e come è arrivata ad Antenna 3 Nordest?
«Durante gli anni scolastici e universitari, ho iniziato collaborando con La Tribuna, quotidiano di Treviso, e poi con Il Gazzettino. Dopo qualche anno ho esordito in televisione a Telenuovo di Padova e poi sono arrivata ad Antenna 3. Ho avuto anche una parentesi radiofonica, quindi posso dire di aver avuto esperienza in tutti i mezzi di informazione».

Come pensa debba porsi il mondo dell’informazione rispetto ai tanti e purtroppo frequenti fatti di cronaca nera che riguardano il nostro Paese?
«La gente deve sapere quello che succede, anche quando si tratta di vicende drammatiche come quelle a cui assistiamo negli ultimi tempi. L’importante è saper ascoltare e portare notizie vere».

C’è un suo servizio, un'intervista che le è rimasta particolarmente impressa?
«Più che un servizio o un’intervista, c’è un periodo che ricordo con grande affetto: quando andai in Iraq con un collega durante la guerra. La vita da inviata è la cosa che amo di più del giornalismo, a maggior ragione in quel contesto in cui ho potuto a lungo interloquire con soldati, medici e volontari. E' questo, secondo me, il giornalismo più vero e attivo. Spero proprio di poter ripetere in futuro una parentesi come questa».

Pensa che a livello locale l’informazione sia libera da pressioni e interferenze di natura politica?
«Almeno per quanto mi riguarda, sì. Non posso parlare per altre emittenti, ma senza dubbio ad Antenna 3 non avverto particolari pressioni rispetto a quanto magari può accadere in un contesto nazionale. E' ovvio che ogni emittente abbia una sua linea editoriale, ma al di là di questo mi sono sempre sentita libera nel mio lavoro».

Scoprire di avere un certo seguito sul nostro forum, cosa le suscita?
«E' una cosa divertente e piacevole. Vi ho scoperti tramite delle colleghe e, devo ammettere, non mi aspettavo ci fossero persone che mi seguissero al punto da registrare le mie immagini e pubblicarle sul vostro sito. Anche solo per commentare le mie pettinature e il mio look. Ma del resto è inevitabile che, lavorando in televisione, la gente ti guardi e a qualcuno possa interessare seguirti assiduamente».

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CRONACA IN ROSA Somalia: in attesa di cortese riscontro di Erica Savazzi

Dopo la crisi dell'inverno scorso – quando le truppe militari etiopi entrarono in Somalia con l'obiettivo di cacciare le cosiddette Corti Islamiche - è calato il silenzio sulla crisi politica e umanitaria del Paese.

Nonostante durante la primavera e l'estate la situazione sembrasse stabilizzata, a quasi un anno di distanza i combattimenti continuano, i soldati etiopi sono sempre meno tollerati dai somali e gli scontri proseguono con il risultato che il numero dei profughi e degli sfollati è in costante aumento. L'Onu è impotente, i soldati ugandesi sono le uniche forze internazionali che sono intervenute rispondendo all'appello dell'Unione Africana per una missione di stabilizzazione.

«E' la peggiore crisi umanitaria dell'Africa nel momento attuale, più di quella del Darfur» ha dichiarato Ahmedou Ould Abdallah, l'inviato speciale delle Nazioni Unite per la Somalia. «Se non facciamo subito qualcosa a Natale non ci rimarrà che seppellire i morti», rincara il consigliere Stefano Dejak, rappresentante dell'Italia per la Somalia. Sono circa 250mila gli sfollati che hanno lasciato Mogadisico nelle ultime settimane, 80mila solo negli ultimi giorni.

Ecco allora l'appello di Italia Aiuta che ribadisce la necessità di agire, subito.

Per portare generi di prima necessità a una popolazione stremata, perché la pressione della comunità internazionale faccia cessare le ostilità, perché l'opinione pubblica italiana e non solo - tramite i media - venga informata e sensibilizzata sul tema, perché si renda realizzabile un piano che consenta la presenza continuativa delle organizzazioni umanitarie nelle aree dove si concentrano gli sfollati e una costante distribuzione di cibo, per raccogliere fondi.

La Somalia urla la propria richiesta di aiuto e attende, silenziosa, un cortese riscontro.

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FORMAT La mafia in tv di Nicola Pistoia

Accettiamo le lunghe e noiosissime fiction in costume, i numerosi serial dedicati ai medici e ai poliziotti, i film che ripercorrono la vita nefasta di quell’artista piuttosto che un altro. Accettiamo tutto. Ma non che Canale5 - o qualsiasi altra rete - trasmetta per più di un mese una fiction che racconta la vita di un Totò Riina.

La fiction in questione è Il Capo dei Capi, in onda ogni giovedì sera sulla rete ammiraglia di Mediaset. Un elogio ai registi, Enzo Monteleone e Alexis Sweet, che fedelmente e magistralmente hanno saputo ricreare luoghi, momenti e situazioni di un periodo da cancellare nella memoria di tutti. Particolare menzione a Claudio Gioè (Riina) e a tutti gli attori che hanno emozionato identificandosi in personaggi non certo facili. Un prodotto buono che ha riscosso notevole successo di pubblico e di critica. Qui infatti non si vuole mettere in discussione la qualità del film, sia chiaro. Ma solo capire se sia servito mobilitare così a lungo un intero canale.

E' vero, attraverso la vita di Totò Riina si è voluto, di riflesso, raccontare la mafia, un soggetto diventato argomento di stretta attualità con l'arresto di Lo Piccolo. Si narra la vita di un boss, causa e conseguenza di una macchina infernale che ha provocato la morte di centinaia di persone nell’arco di cinquant'anni. Un racconto che a tratti, secondo alcuni, tende a esaltare le virtù e l'assurda genialità di Riina quasi come se fosse un idolo. Il racconto dell'infanzia, della condizione difficile in cui viveva e del suo "meraviglioso" rapporto con la famiglia. Col pericolo che il pubblico si identifichi con lui anche se, nel corso delle puntate, sono descritte tutte le efferatezze compiute durante la lunga carriera criminale.

Può una fiction raccontare - anche se in parecchie puntate - la complessità e i misteri di un uomo e di un'organizzazione su cui ancora oggi ci sono punti interrogativi mai risolti?
Di certo una fiction può aiutare a spiegare e a tenere viva nella memoria del pubblico - ogni tipo di pubblico - gli avvenimenti e i personaggi che, nel bene o nel male, hanno fatto la storia d'Italia. Una memoria che deve essere il più possibile condivisa, anche con il rischio di tornare al vecchio concetto della televisione "educativa". I fatti raccontati dovrebbero da soli bastare a provocare distacco e disgusto nei confronti di un eroe negativo.

Sorge spontaneo un paragone con le fiction dedicate a chi si trovava dall'altra parte, ai giudici che Cosa Nostra l'hanno combattuta fino a perdere la vita: Borsellino, Falcone, Dalla Chiesa. Belle, importanti ma forse troppo brevi, come breve è stata la vita di ognuno di loro. Ancora una volta, il male è più interessante del bene.

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CULT Angeli distratti nell'inferno di Falluja di Valeria Scotti

Novembre 2004. L'operazione Phantom Fury, una delle più imponenti battaglie della guerra in Iraq, si abbatte sulla città di Falluja, ed è l'inferno. A pagare, la popolazione civile. Più di duemila vittime a causa dei bombardamenti al fosforo. Come se non bastasse, la decisione degli americani di blindare la città impedendo l'accesso alla Croce Rossa, la distruzione dei centri medici da parte dell'esercito.
Famiglie annientate, bambini mutilati o uccisi, corpi carbonizzati.

Tre anni dopo, il regista Gianluca Arcopinto rappresenta il diario di questo massacro in un docufiction. Un racconto a metà tra il documentario e la finzione, una storia inframmezzata dalle testimonianze di chi, in quei giorni, assisteva da vicino alla tragedia. Tra questi, un medico arabo che prestava servizio nell'ospedale cittadino e Simona Torretta, la cooperante italiana protagonista del rapimento a Baghdad insieme a Simona Pani.

Pellicola tradizionale e videocamere amatoriali si alternano in Angeli distratti, una narrazione che vive in un unico ambiente, una stanza della casa semidistrutta di una donna cieca che ha perso marito e figli nella guerra. E in quella stanza fa irruzione un soldato americano scosso per l'uccisione di suoi tre compagni. Morti per mano del figlio della donna.
Nessun gesto violento nei confronti di lei, ma solo dialogo. I due si trovano a misurarsi, in maniera quasi surreale, sui tanti perché del conflitto, fino a cadere entrambi ai piedi della macchina di guerra.

Angeli distratti è la cronaca di quella guerra. Assurda, come lo sono tutte le guerre. E' il mezzo per continuare a ricavare fondi e finanziare le opere di ricostruzione. Ed è il racconto delle leggende legate alle presenze angeliche – in opposizione ai demoni della violenza - che avrebbero dovuto proteggere i civili e le case. Un'esile speranza di rinascita purtroppo mai arrivata.

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DONNE BB, storia di una diva di Tiziana Ambrosi

Labbra carnose, corpo mozzafiato. Nell'immaginario maschile e femminile, Brigitte Bardot rappresenta l'icona della sensualità, della femminilità e di una certa libertà sessuale che comincia a farsi strada a partire dagli anni Sessanta. Splendore e declino di una dea: dalla brillante scalata verso l'Olimpo cinematografico internazionale, fino agli ultimi anni più anonimi e grigi inframmezzati dai proclami quanto meno bizzarri.

Brigitte Anne-Marie Bardot nasce a Parigi nel 1934. Il suo fascino è evidente sin dalla giovane età, tanto che la madre la spinge verso la musica e la danza, le basi della sua futura carriera artistica.
Posa come modella per Elle a 15 anni. Nel 1952 compare per la prima volta sullo schermo nel film Le Trou normand e, nello stesso anno, sposa il regista Roger Vadim da cui divorzierà cinque anni dopo. I primi film, negli anni Cinquanta, sono storie romantiche e di poco impegno, in cui spesso è poco vestita e fa la parte della ragazza ingenua. Sono soprattutto film in francese, con qualche particina in quelli di lingua inglese. «Incarna l'idea che ogni uomo ha della ragazza che vorrebbe incontrare a Parigi», questo il pensiero della critica di quel tempo.

Il suo compagno, Roger Vadim, cerca di lanciarla nel cinema più impegnato. E' così che nel 1956, con la pellicola E Dio creò la donna, la popolarità di BB si diffonde a livello internazionale.
Corteggiata da Hollywood, è tra le poche attrici europee a catalizzare l'attenzione dei produttori e del pubblico d'oltreoceano. Nella puritana e sessuofoba America di Doris Day, diventa il simbolo della sensualità e della sessualità libera. Il sogno inconfessabile di un pubblico che ipocritamente le permette una certa disinvoltura, proprio perché europea. Le difficoltà della lingua e il suo forte accento, che fa girare la testa a schiere di uomini, le sono di ostacolo nella sua permanenza americana. Dopo qualche tempo ritorna in Europa: l'esperienza hollywoodiana la consacra definitivamente anche nel Vecchio Continente.

Nel 1957 divorzia da Roger Vadim per risposarsi, due anni dopo, con l'attore Jaques Charrier da cui ha l'unico figlio. Tenta di dare una svolta più seria alla propria carriera cercando anche l'approvazione della critica. Ma l'immagine di donna glamour e sexy che si è costruita negli anni precedenti è difficile da cancellare.

Seguono molti altri film con alterne fortune fino a quando nel 1973, alla soglia dei 40 anni, BB annuncia il ritiro dalle scene. Con una cinquantina di film alle spalle e l'incisione di alcuni album - anche con il bad boy Serge Gainsbourg - decide di usare la propria fama e i propri soldi per la difesa degli animali, istituendo la Fondazione Brigitte Bardot per il Benessere e la Protezione degli Animali.
Principio indubbiamente nobile che le regala però una fama di misantropia ed estremismo mai smentita nei fatti.

Nel 1992 sposa Bernard d'Ormal, ex attivista del Fronte Nazionale guidato da Jean-Marie Le Pen, leader di una destra platealmente estremista, xenofoba e omofoba. Nel 2003 raccoglie i suoi pensieri nel libro Un grido nel silenzio. La pubblicazione suscita violente contestazioni per il carattere razzista e offensivo nei confronti della comunità musulmana e degli omosessuali. Teorizza la minaccia della «sotterranea e pericolosa penetrazione dell'Islam» che porterebbe inevitabilmente all'«islamizzazione della Francia». Gli omosessuali e i travestiti sono definiti nulla più che fenomeni da circo. Infine rimarca il ruolo della donna in cucina e di certo non nelle poltrone di governo.

Condannata da una corte francese nel 2004 per incitamento all'odio razziale, vive oggi con i suoi animali e il marito, abbandonata da buona parte dell'affetto e dell'ammirazione che l'aveva circondata all'apice della carriera. Un personaggio scomodo - politically incorrect - che, con le sue curve e il suo sorriso ingenuo, rappresenta ancora oggi un intramontabile modello di donna.

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TELEGIORNALISTI Biagio Agnes :«La carta stampata non verrà mai meno» di Mario Basile

”Ha iniziato ventenne l'attività giornalistica collaborando prima in pubblicazioni locali dell'Irpinia e successivamente in giornali a livello regionale e nazionale. Nel 1958 è passato alla RAI dove ha percorso tutta la carriera: redattore alla sede di Cagliari, capo servizio al Giornale Radio, condirettore del Telegiornale, fondatore e direttore del TG3, Vice Direttore Generale per la radiofonia e infine dal 1982 Direttore Generale. Sotto la sua direzione la RAI ha affrontato i profondi cambiamenti intervenuti nel settore radiotelevisivo: sono stati avviati nuovi servizi, come Televideo, e sperimentato nuove tecnologie quali le trasmissioni via satellite e l'alta definizione. Ad un sensibile aumento delle ore di trasmissione ha corrisposto un forte recupero di produttività che ha consentito di mantenere invariato l'organico."
Con questa motivazione, la presidenza della Repubblica conferì a Biagio Agnes, nel 1987, l’onorificenza di Cavaliere del Lavoro. Una straordinaria carriera che, da allora, non si è ancora fermata e che l’ha portato, negli anni Novanta, a ricoprire il ruolo di presidente di Telemontecarlo e della Stet Telecomunicazioni.
Oggi, a Biagio Agnes, è affidata la direzione della Scuola di Giornalismo dell’Università di Salerno: l’ultima, tra quelle riconosciute dall’Ordine nazionale dei giornalisti, ad essere stata fondata.


Direttore Agnes, sono tantissimi i ragazzi che vogliono fare i giornalisti. Ma quali sono le qualità che deve avere un buon giornalista?

«Le qualità di un bravo giornalista sono saper leggere e saper scrivere. Non c’è altro. Questo perché l’istinto porta ad essere un bravo giornalista. Se non si ha la voglia e la forza di esserlo, è meglio lasciar perdere».

C’è però chi dice che oggigiorno per fare questo mestiere non si può non avere una solida preparazione. Lei è d’accordo?

«D’accordissimo. La preparazione serve sempre. Ma anche prima era così. La preparazione è servita ieri e servirà domani».

Quanto servono le scuole di giornalismo a formare le nuove leve? Prima il mestiere lo si imparava esclusivamente sul campo…

«Secondo me, le scuole servono a dare una formazione maggiormente culturale a coloro che aspirano a diventare giornalisti. Però il giornalismo s’impara in redazione».

Crede che la carta stampata stia vivendo un momento di crisi? Anche alla luce del grande potere che ha acquistato il giornalismo via web e quello televisivo già da tantissimi anni…

«Ma anche quello è giornalismo. Comunque io credo, ma è solo un mio pensiero personale, che la carta stampata non verrà mai meno».

Quindi non è d’accordo con chi afferma che, grazie all’avvento delle nuove tecnologie, diremo addio alla carta stampata…

«Non diremo mai addio alla carta stampata perché bisogna leggere».

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SPORTIVA Azzurre da record di Mario Basile

La classe di Francesca Piccinini, le magie della "strega" Simona Gioli, la voglia di vincere di Taismary Aguero e Antonella Del Core, la grinta di mister Barbolini e delle altre ragazze: ha mille facce, una più bella dell’altra, il mondiale di volley femminile che l’Italia ha conquistato due settimane fa.
La vittoria inattesa è più bella, si dice. Ed è vero. Al mondiale, infatti, nel clan azzurro nessuno ci aveva pensato. «Ci servirà a gettare le basi per l’olimpiade», disse il tecnico Barbolini. Tentativo di "depistaggio" per gli avversari? Chissà. Se è così, è riuscito alla perfezione.

Il trionfo al mondiale, suggellato dal 3-0 agli USA, è quello del record di vittorie consecutive: 21, dal settembre di due mesi fa in cui fu superata la Bulgaria, fino alla sfida vittoriosa con le americane. E in mezzo, un meraviglioso ottobre, quello che portato la conquista dell’Europeo. Numeri da brivido, mai visti neanche nell’era Velasco.

A Milano, quando sono ritornate dal Giappone, hanno trovato un'accoglienza che non si aspettavano e il messaggio di congratulazioni del Presidente Napolitano. Un po’ come la nazionale di calcio reduce dal trionfo di Berlino. Non proprio, a dire il vero, ma va bene così. Il fascino del pallone è inattaccabile nel nostro Paese. E pensare che la nazionale di calcio, un mondiale e un europeo, o viceversa, uno dietro l’altro non l’ha mai vinto. Ne prenda nota Donadoni, può approfittarne.

La doppietta del volley femminile è la doppietta delle superdonne? Macché. Sudore, umiltà e voglia di vincere: sono questi gli ingredienti base del successo. Lo sa bene Paola Cardullo, il libero della nazionale. Per lei la vittoria ha un sapore speciale. Un lungo infortunio l’ha tenuta fuori otto mesi. E' stata ad un passo dall’addio. Invece è tornata, più forte di prima. Al termine del mondiale ha ricevuto anche il premio di miglior libero del torneo. Chapeau.

La miglior giocatrice in assoluto, invece, è stata Simona Gioli. A conti fatti, anche la sua storia si tinge d’impresa. Gli impegni derivanti dalla maternità - quasi un anno e mezzo fa ha dato alla luce Gabriele - non hanno fermato la sua carriera. Anzi, da quando è diventata mamma ha cominciato a vincere col suo club e la nazionale, e non s’è fermata più.

La vittoria del mondiale ha qualificato le ragazze a Pechino 2008. L’obiettivo, come già detto prima, era e rimane quello. Sia loro che Barbolini non hanno intenzione di fermarsi. Il bello comincia adesso…

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Telegiornaliste: settimanale di critica televisiva e informazione - registrazione Tribunale di Modena n. 1741 del 08/04/2005
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