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Telegiornaliste anno IV N. 3 (128) del 28 gennaio 2008


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MONITOR Francesca Scognamiglio: il giornalismo, un sogno sin da bambina di Valeria Scotti

Francesca Scognamiglio ha iniziato la sua attività giornalistica nel '98 dopo aver lavorato come modella e attrice di teatro. Speaker radiofonica e ideatrice di format televisivi, attualmente è giornalista e conduttrice televisiva di Napolitivù.

La moda e il teatro prima di iniziare la tua attività giornalistica. Come è avvenuto questo passaggio?
«Il mio ingresso nel mondo dello spettacolo è avvenuto in tenera età. Studiavo pianoforte, poi la chitarra e cantavo come soprano in un coro polifonico. A 14 anni, quasi per gioco, ho iniziato a sfilare per delle boutiques. Ero molto alta, sembravo più grande della mia età e alcuni amici mi iscrissero al concorso di Miss Teenager. Lo vinsi e partì così la mia attività come indossatrice. Iniziai anche a studiare recitazione. L'amore per il teatro l'ho ereditato da mio padre: prima di diventare ingegnere, ha fatto qualche film e ha recitato al Centro Teatro Spazio che ha visto la nascita artistica di Massimo Troisi. Un giorno mio padre mi disse che avrei sostenuto un provino: un regista cercava un'attrice che sostituisse la protagonista di una commedia. Ebbi la parte e lasciai le passerelle per il palcoscenico. Ma non ero soddisfatta, il mio sogno sin da bambina era il giornalismo. Mi iscrissi allora alla facoltà di Scienze della Comunicazione e non andai più all'Accademia d'arte drammatica.
Il tempo mi ha dato ragione. Ho iniziato con la carta stampata, poi con la radio. E alla tv sono stata promossa a giornalista televisiva. Nel frattempo è arrivata anche la laurea con lode grazie a una tesi sull'universo delle donne della tv e delle telegiornaliste. Un capitolo è dedicato proprio a Telegiornaliste».

Anche nella tua carriera giornalistica ti sei interessata al teatro: prima con Dietro le quinte, programma radiofonico, poi con Primafila su Napolitivù. La situazione attuale del teatro, secondo te?
«Amo da sempre il teatro e quando mi son trovata di fronte al bivio di studiare da attrice o da giornalista, ho scelto la seconda strada perché ho capito che potevo unire le due passioni. Il teatro in Italia vive, o meglio dire sopravvive, visto che ci sono comunque dei problemi. Penso al San Carlo di Napoli che ha attraversato e ancora attraversa una fase molto critica, o ai tagli del governo al mondo dello spettacolo. Ma ciò che mi dispiace è che, ancora oggi, il teatro non è per tutti. A Napoli il Trianon è rinato grazie a Nino D'Angelo, direttore artistico di questo teatro del popolo dai prezzi economici per permettere a tutti di assistere agli spettacoli. Per fortuna è vivo il gruppo di giovani che ancora sognano di fare gli attori e studiano nelle accademie, di fronte alla massa che invece aspira ai reality show e finisce poi nelle fiction televisive a scapito di chi davvero ama questo mestiere».

Con Speciale Ntv news date voce alla gente. In quanti rispondono all’appello e quali sono le segnalazioni che vi giungono?
«Le persone che contattano la redazione sono così tante che purtroppo non sempre riusciamo a seguire tutti, ma i nostri microfoni cercano di dare voce il più possibile. Lo scorso anno ho condotto un'inchiesta sui problemi dei diversamente abili, come la presenza di barriere architettoniche in città. Siamo partiti seguendo un solo caso, quello di un giovane costretto su una sedia a rotelle per un incidente. In pochi mesi, si sono aggiunti altri cinquanta e più disabili. Ne è nata un'associazione, sono scesa con loro nelle strade, siamo stati al palazzo comunale per chiedere un confronto con le autorità. Grazie alla tv abbiamo ottenuto udienze e tanti vantaggi che invece spetterebbero loro di diritto. Da ogni mio servizio, comunque, imparo tante cose. E le persone che soffrono mi hanno insegnato che non bisogna mai smettere di lottare e di credere».

Pregi e difetti del lavoro in una tv locale?
«Lavorare in una tv locale non è facile perché non si hanno i mezzi di una grande televisione. Ma ciò non vuol dire che i risultati ottenuti siano inferiori, anzi. Però si deve lottare e lavorare molto di più per poter parlare di confronto. Le redazioni sono piccole, non ci sono molti giornalisti, e seguire tutto diventa complicato. Tra i vantaggi, c'è quello di poter parlare dei fatti che non trovano posto nei palinsesti nazionali, ma anche quello di essere amati e apprezzati dalla gente. La Campania ha un'attività televisiva locale molto sviluppata, con un pubblico che preferisce rivolgersi ad una tv locale. Queste sono le soddisfazioni di chi fa questo mestiere così difficile».

La tua bellezza è evidente. Arma vincente sul lavoro?
«Credo che essere piacenti serva molto, specialmente se lavori in tv. L'immagine è il primo bigliettino da visita. Però bisogna dimostrare di avere anche qualcosa da dire, di essere capaci sul campo perché "oltre alle gambe c'è di più"».

Un tuo sogno a livello giornalistico?
«Crescere professionalmente. Sono pienamente soddisfatta di ciò che ho conquistato in questi anni, ma ho ancora molta strada da compiere. A dispetto di chi parla male di questo lavoro, io lo amo. Ed è l'amore per la comunicazione che mi ha condotto anche ad essere intervistata per questo giornale che, a noi telegiornaliste, dà l'opportunità di raccontarci e di svelare qualcosa in più rispetto al mezzobusto che appare in video ogni giorno. Sarà proprio questo amore, unito all'impegno e allo studio, a condurmi più in alto».

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CRONACA IN ROSA Fratelli d'Italia di Erica Savazzi

Se fossimo a teatro sarebbe una commedia dell’assurdo, se fossimo degli extraterrestri desisteremmo dall’indagare ulteriormente sugli umani, se fossimo stranieri saremmo increduli. E invece no. Purtroppo è tutto terribilmente vero.

Una regione che affoga nei rifiuti; un ministro della Giustizia indagato per concussione insieme alla moglie - presidente del Consiglio regionale della Campania - e a molti colleghi di partito, ministro che si dimette – anche se da noi non è così di moda – e che insulta il giudice che sta indagando su di lui; i parlamentari della maggioranza e dell’opposizione che lo applaudono, destra e sinistra insieme; un governatore, Totò Cuffaro, che festeggia - e con lui i compagni di partito - per essere stato condannato a soli cinque anni di carcere e all’interdizione perenne dai pubblici uffici, per poi proclamare trionfante di non aver intenzione di lasciare il proprio incarico istituzionale perché non giudicato colluso con la mafia. Pur avendo aiutato dei membri.

Infine la ciliegina sulla torta: il ministro dimissionario, avendo visto rompersi il giochino, ne approfitta per uscire dal governo di cui fa parte e per aprire una crisi. Scopo dichiarato: andare alle urne, cambiando possibilmente coalizione. Ma non di certo per modificare i protagonisti della scena politica.
Risultato? Governo caduto per cinque voti mancanti, e non quelli della tanto vituperata "sinistra radicale". Neanche un pensiero ai bisogni del Paese mentre in Aula avviene il finimondo: risse, insulti, sputi, bottiglie di champagne e svenimenti.

Commedia o tragedia? Se non fosse tutto terribilmente serio, se non rappresentasse il biglietto da visita dell'Italia, tutto ciò sarebbe perfino comico. E invece è la terribile realtà.
Ridere o piangere? Agli italiani l'ardua - ma non troppo - sentenza.

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FORMAT Tutti pazzi per i dirty money di Nicola Pistoia

La tv americana sforna ogni anno, in media, la bellezza di 20 nuovi telefilm. Ce ne sono alcuni davvero imbarazzanti, dai contenuti poco adatti per la tv. Molti privi di originalità. Altri invece simpatici, divertenti o molto accattivanti. Tra questi, uno ha riscosso un successo clamoroso sia per gli argomenti trattati che per la bravura dei protagonisti ed è considerato dalla stampa americana come una delle serie tv più belle degli ultimi dieci anni.

Dirty Sexy Money è la storia di una famiglia decisamente allargata e sfrenatamente ricca che cerca in tutti i modi di rimanere a galla tra gli ambienti che contano. In che modo? Utilizzando mezzi non proprio leciti.
Il padrone di casa è Tripp Darling, un uomo tanto potente quanto crudele che ha un fiuto impressionante per gli affari e una voglia sfrenata di entrare in politica. Sua moglie Letizia è invece la classica donna troppo ricca e troppo insoddisfatta. I due hanno cinque figli: Patrick, il più grande, aspirante senatore dall'amante transessuale; i due gemelli Juliet e Jeremy, interessati soltanto a spendere i soldi del padre; la bella Karen giunta al suo quarto matrimonio; Brian, un reverendo molto cinico con un figlio illegittimo che non intende riconoscere.

Insomma, la classica famiglia americana nella quale, poi, si intrufolano altri personaggi rendendo il tutto ancora più interessante.
Il vero protagonista, però, è Nick, giovane avvocato dall’animo molto buono che sarà costretto a confrontarsi, per questioni professionali e personali, con il potente clan dei Darling.

Dirty Sexy Money potrebbe ricordare vagamente il celeberrimo serial I Soprano, ma con sfaccettature diverse. Qui sono pochi i risvolti divertenti e parecchie le questioni legate alla vita comune. Per certi aspetti intrigante, il telefilm appassiona grandi e piccoli in modo omogeneo.
Bravissimi gli attori, ma anche gli autori che in ogni puntata regalano situazioni variegate e inaspettati colpi di scena.
Il telefilm va in onda il martedì sera alle 21.50 su Fox Channel.

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CULT L'inferno rosa della Shoah di Valeria Scotti

Donne quasi invisibili al tempo dell'assalto nazista. Donne al centro di memorie, testimonianze dirette e studi, ma non di una vera e propria ricerca sulle loro condizioni. La tematica della Shoah viene affrontata in una chiave innovativa grazie al libro Le donne e la Shoah, Avagliano Editore. Abbiamo intervistato Giovanna De Angelis, l'autrice, che ha indagato sulla figura femminile nei lager. Campi di concentramento che, come scriveva Milan Kundera, erano l'eliminazione totale della vita privata. E non solo.

Come nasce questo libro?
«Mi sono sempre occupata di Novecento italiano. Il libro nasce come rielaborazione di una tesi di dottorato in Storia delle scritture femminili. La Shoah è sempre stata una mia passione, inizialmente come una lettrice comune. Mi sono resa conto che, mentre in Israele e in America ci sono molti studi sulla Shoah e sulle donne, in Italia c'è pochissimo: libri e testimonianze delle stesse autrici ma nessuno studio specifico. Mi sembrava dunque importante dare un inizio e sottolineare proprio questo vuoto».

Difficoltà nel reperire le fonti?

«No, il problema è che ce ne sono troppe di fonti. Scritti di tutti i tipi: testimonianze, romanzi, studi, memorialistica, testi storici. Occorre quindi selezionare e ritagliarsi un percorso, trovare il bandolo della matassa. Infatti ci sono voluti quattro anni per scrivere questo libro che non può essere considerato un istant book».

Possiamo tracciare un profilo delle donne coinvolte nella Shoah?

«Le donne coinvolte nella Shoah erano donne ebree, non interessava alcun altro tipo di distinzione come la nazionalità, l'età o la professione. E in quanto ebree, dovevano morire. Non è possibile, quindi, tracciare un profilo che prescinda dall'ebraismo perché era quello il carattere che si andava a colpire».

E la condizione delle donne nei lager?
«La condizione femminile nei lager è stata assolutamente agghiacciante così come lo è stata quella degli uomini. Non ho voluto fare nessuna classifica del dolore, mi sembrava una cosa molto irrispettosa. Si è parlato di una “ferita di genere” per le donne, perché effettivamente hanno dovuto subire dei trattamenti che sono stati risparmiati agli uomini. Ad esempio le donne scendevano dai trasporti con i bambini in braccio e venivano immediatamente avviate alle camere a gas. Oppure qualche guardia “pietosa” consigliava loro, se erano giovani e quindi da avviare al lavoro, di dare il bambino alla persona più anziana in maniera che almeno la madre si salvasse. E poi c'è stata la tragedia delle gravidanze. Tantissime ebree sono arrivate nei lager incinte. Il campo di concentramento femminile di Ravensbrück, che ha visto la morte di milioni di donne, è stato caratterizzato da politiche diverse. Inizialmente bisognava abortire a otto mesi: il bambino nasceva quasi sempre vivo e veniva ucciso. In un secondo momento, è stato consentito di portare a termine la gravidanza, ma poi le donne dovevano affogare il bambino in un secchio d'acqua. Nell'ultima stagione, era possibile tenere il bambino senza però fornire nulla: nutrimento, stracci per proteggerli dal freddo. Ovviamente nessuno dei bambini nati nel lager si è poi salvato. Questa condizione straziante ha fiaccato un po' le difese delle donne. Lo stesso comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, in un libro di memoria ha affermato che le donne erano tendenzialmente più forti degli uomini dal punto di vista spirituale. Ma a causa delle perdite legate alla maternità, al pudore violato, al dileggio continuo da parte delle guardie, si lasciavano poi andare e vagavano per il campo aspettando la pallottola o il cane che le sbranasse».

Nella logica nazista, la donna era considerata più pericolosa rispetto all'uomo a causa del suo carattere riproduttivo?
«Prima che fosse inaugurata ufficialmente la politica dello sterminio, si pensava che la soluzione potesse essere una sterilizzazione di massa, ma la cosa non è mai approdata a nulla. Ci sono stati dei programmi di eutanasia praticata nella Germania nazista prima dello scoppio della guerra: questa non colpiva gli ebrei bensì i disabili, i minorati, gli zingari, gli internati negli istituti psichiatrici. Per gli ebrei, invece, non si applicava l'eutanasia – termine tra l'altro grottesco - perché si dava per scontato che andassero ammazzati tutti. E quello della riproduzione era un problema che non esisteva. Per i nazisti, nessuno doveva uscire vivo dal campo. I bambini venivano uccisi subito semplicemente perché non servivano a niente: non potevamo lavorare e non avrebbero avuto il tempo e il modo di crescere. Gli adulti, invece, venivano avviati al lavoro all'interno del campo, lavoro che era un mezzo per annullare, distruggere e uccidere. Chi era avviato al lavoro, era candidato alla morte: nel giro di due mesi moriva di stenti o per le condizioni di vita. I campi venivano spesso costruiti vicino alle fabbriche, come la Krupp e la Siemens, o si trovavano vicino a delle cave di pietra per l'estrazione di minerali, utilizzati poi nelle industrie di armamentari bellici».

E' appena trascorso il 27 gennaio, Giorno della Memoria. Oggi qual è l'approccio della gente di fronte alla Shoah? Quanto è sentito il dovere della memoria?
«Penso ci sia una grandissima ignoranza per quanto riguarda i giovani. Ovviamente non per colpa loro, ma forse delle famiglie. La scuola è l'unica che costringe i ragazzi a leggere Se questo è un uomo di Primo Levi. Moltissimi giovani non sanno cosa sia la Shoah e sono dubbiosi anche sul periodo in cui collocarla. Per quanto riguarda le persone più grandi, la reazione più diffusa di fronte alla Shoah e alla giornata della memoria è la noia. Questo è un problema con il quale si confronta continuamente, attraverso riflessioni intelligenti, lo stesso mondo ebraico. La soluzione non è eliminare la giornata della memoria o le visite ad Auschwitz, ma trovare un modo per non analizzare e non rendere il tutto molto stereotipato. La vita è bella, uno dei film più falsificanti e irrispettosi che siano mai stati girati, ha vinto l'Oscar e viene celebrato come un'opera di genio divertente e profonda che ha dato accesso, allo spettatore comune, a temi importanti come la Shoah. Non c'è nulla di più sbagliato: la visione che veicola quel film è assolutamente fuorviante. Di fronte a un pubblico che della Shoah non sa quasi nulla, un film del genere presta il fianco a molti fraintendimenti.
Trovo che sia giusto che ci sia il Giorno della Memoria e mi fa anche impressione che esista da così poco tempo. Ma bisogna continuare ad escogitare dei sistemi affinché la banalizzazione non divori quello che è stato sicuramente l'evento più tragico della storia dell'umanità».

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DONNE Virginia Woolf, la scrittrice tormentata di Pinuccia Carbone

Battezzata col nome di Adeline Virginia Stephan, la nota scrittrice Virginia Woolf nasce a Londra nel 1882 da Leslie Stephan e Julia Prinsep. Entrambi vedovi provenienti da un primo matrimonio, concepiscono quattro figli che vanno ad aggiungersi ai quattro nati dai loro primi rispettivi letti. Sir Leslie, celebre critico del periodo vittoriano, è il fondatore del Dictionary of National Biografy.

Come vuole la tradizione di quel periodo, Virginia e la sorella vengono educate a casa dai genitori mentre i maschi della famiglia frequentano l'università. Poco tempo dopo, insieme al fratello Thoby, Virginia dà vita a Hyde Park Gate News, una sorta di diario familiare arricchito da storie di fantasia.

Ma a soli 13 anni, Virginia viene colpita da un grave lutto: muore la madre. Due anni dopo, a causa delle complicazioni di una gravidanza difficile, muore anche Stella Duckworth, la sorellastra che aveva assunto il ruolo della madre scomparsa. Sofferenze che portano la Woolf alla depressione e a un primo tentativo di suicidio.

In uno dei suoi scritti dal titolo Moments of Being, racconta anche degli abusi sessuali subiti da lei e sua sorella Vanessa da parte dei due fratellastri. Attenzioni incestuose che aggravano i problemi psichici della scrittrice.

Nel 1904 rimane orfana anche del padre. Una perdita che, per quanto dolorosa, suona quasi come una vera liberazione. Virginia decide così di trasferirsi con la sorella a Bloomsbury dove fondano il Bloomsbury Group, un circolo dedicato a intellettuali, scrittori e artisti. Un anno più tardi inizia a scrivere per il supplemento del Times, mentre il suo primo libro, The voyage out, è datato 1915.

Nel 1912, dopo aver avuto una relazione omosessuale con la famosa scrittrice Vita Sackville-West, si unisce in matrimonio con l’autore e giornalista socialista Leonard Woolf.
Virginia va incontro ad un nuovo periodo di depressione, ma il marito premuroso le propone di aprire una casa editrice. La Hogarth Press, questo il nome, nasce nel 1917 e avrà un ruolo principale sulla scena letteraria inglese del periodo tra le due guerre.

Sempre più ossessionata e afflitta, un giorno Virginia si riempie le tasche di sassi e si reca al fiume Ouse: lasciandosi annegare, pone fine alla sua esistenza. E' il 28 marzo 1941. Le ragioni di questo suo tragico gesto restano in una scrittura privata destinata al marito.
Oggi le ceneri di Virginia Woolf riposano sotto un olmo al Monk's House, un giardino di Rodmell in Inghilterra.

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TELEGIORNALISTI Il caso Mastella da dietro le quinte dei media italiani di Paolo Esposito

L’appuntamento è per le 8.30 all’ingresso del Palazzo di Giustizia di Santa Maria Capua Vetere. Ad attendermi, puntuale e preciso - tipico di chi lavora per un canale all news che arriva sempre prima della notizia - c’è Paolo Chiariello, giornalista professionista con una lunga gavetta alle spalle, corrispondente per la Campania, Molise e Basilicata di Sky Tg24, noto canale di Sky Italia diretto da Emilio Carelli.

Ci conosciamo poco, ma sin da subito mi fa sentire come di Casa Sky. Magari, aggiungerei. Mi presenta tutta la sua troupe accorsa sul posto con un furgoncino che dall’esterno sembra “innocuo”, un nonnulla in confronto ai grossi furgoni in dotazione alla Rai, a Mediaset e alle altre televisioni nei paraggi. Inizio a notare la differenza poco dopo, quando cominciano i primi collegamenti in diretta con gli studi di Roma, ed ascoltando poi Mario, la spalla di Paolo Chiariello, che si occupa della regia e dei montaggi dei servizi.

Intanto Paolo comunica agli studi centrali la notizia della mia presenza. Anche se non sono lì per intralciare il loro lavoro, tutto deve essere comunicato di volta in volta, prima dell’inizio di una delle giornate più movimentate della cronaca giudiziaria. A completare la troupe di Sky ci sono altri tre operatori freelance, uno addetto alle riprese durante le dirette ed altri due d’assalto: si porteranno al cospetto di avvocati e indagati che “sfileranno” di lì a poco davanti al Palazzo di Giustizia.

Paolo mi presenta poi numerosi altri giornalisti ed operatori, cognomi noti di Rai, Mediaset, La7, Ansa, Repubblica, Il Mattino, La Stampa e così via proseguendo, ma anche volti meno noti della cronaca locale che, per me che sono del posto, sono più conosciuti.

Le tv la fanno da padrone, ma numerose sono anche le agenzie ed i giornalisti della carta stampata. C’è poi, come nei migliori copioni, il solito giornalista, carta conosciuta, del solito quotidiano di provincia che tenta di depistare tutti gli altri colleghi, spacciandosi per amico di un avvocato e fornendo notizie che, tra l’altro, non si riveleranno veritiere.

Sono le 9. Da Roma comunicano a Paolo che di lì a poco gli passeranno la linea. Io sono nel furgoncino a gustarmi la prima di una lunga carrellata di dirette dal dietro le quinte. Da lì si ha davvero la sensazione di dominare il mondo dell’informazione: computer portatili, telefoni satellitari, due antenne paraboliche, microfoni, auricolari, casse e una serie interminabile di pulsanti, neanche fossimo nella sala pilotaggio di un aereo. L’ultimo avviso a Paolo dal caporedattore da Roma, ed eccolo in diretta: alle sue spalle, il Tribunale e il solito passante curioso. Inizia quindi la cronaca delle prime ore della giornata.

Pochi minuti dopo la prima diretta, giunge sul posto uno degli indagati per gli interrogatori del Gip. Paolo pensa che gli sarebbe bastato andare in onda poco dopo per commentare in diretta il primo fatto rilevante, ma la troupe non dispera. Chiede nuovamente la linea a Roma e manda le primissime immagini in diretta dell’arrivo del primo degli indiziati. A questo collegamento ne seguono molti altri - più o meno uno ogni ora - e man mano che passa il tempo, il piazzale antistante il Palazzo di Giustizia si riempie di operatori televisivi, giornalisti, fotografi, ma soprattutto di gente comune, supporter degli arrestati, come nei migliori casi italiani, vedi Cogne.

Nel frattempo, rimandano in onda da Roma qualche immagine della giornata davvero movimentata. All’arrivo dell’auto della persona più nota tra gli indagati, ressa tra giornalisti ed operatori. Nella concitazione del momento, il piede di un cameraman di un’emittente locale finisce sotto una ruota. Cronaca nella cronaca in una giornata che mi ha catturato fino all’ultimo minuto.

Un ringraziamento speciale ovviamente a Paolo Chiariello.

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SPORTIVA Lo sport tra culture e religione di Mario Basile

Anno nuovo, vita nuova. Macché. Il primo mese del 2008 fa registrare l’ennesima puntata della diatriba “Sport, Culture e Religione”. Eravamo rimasti a Ruqaya al Ghasara, atleta del Bahrein esclusa dalla sua federazione dai mondiali di atletica per aver indossato un hijab griffato Nike. Polemiche assopite per qualche mese, poi nel giro di due giorni ecco i casi targati Sania Mirza, tennista indiana di 21 anni e Juashuanna Kelly, 16enne considerata in Usa tra le più promettenti velociste del Paese.

Ad esser precisi per Sania Mirza, di fede islamica, i “guai” con la religione non sono una novità. Nei mesi passati era già finita al centro dell’attenzione per aver girato uno spot nei pressi di una moschea. «E’ contro le leggi della Sharia» hanno tuonato i capi musulmani, ma la fatwa le è stata scongiurata.
Altre volte si era scontrata con loro: quando se la presero coi suoi completini troppo scoperti e quando si dichiarò favorevole al sesso prima del matrimonio.

Con l’ultimo “scandalo” che la vede protagonista, invece, la religione c’entra poco o niente visto che è avvenuto per colpa di una bandiera. E’ la cultura del Paese natio ad essere colpita. Una foto ritrae Sania coi piedi nudi appoggiati su un tavolo, lo sguardo fisso verso qualcosa oltre l’obiettivo. Niente di male, sembrerebbe. Peccato che a completare il quadro vi sia una bandiera dell’India. I suoi connazionali sono categorici: è un oltraggio. Parte la denuncia.
Insomma, i risultati ottenuti sul campo da Sania Mirza importano poco alla maggior parte degli indiani. Prima di tutto viene il rispetto della religione e della cultura. E se il buon senso va a farsi benedire, pazienza.

Juashuanna Kelly, invece, è la piccola grande stella dell’atletica statunitense. Sedici anni, mezzofondista di grandissime speranze: ha destato scalpore la sua squalifica al Prince George Sport & Learning Complex di Landover.
La Kelly, secondo i giudici, indossava un abbigliamento da gara non regolamentare: una tuta con un velo che le copriva i capelli. La sua religione, infatti, le vieta di scoprire parti del corpo che non siano mani e volto. I direttori di gara, però, si sono mostrati inflessibili e l’hanno esclusa dalla gara, senza contare che, negli anni addietro, la Kelly ha corso la stessa gara con lo stesso abbigliamento. Naturalmente senza ricevere alcun appunto dagli arbitri.

La storia si è ingigantita a tal punto da parlare di islamofobia. Proprio mentre gli Usa sono alle prese con le primarie e i temi della tolleranza e dell’integrazione razziale sono ancora molto caldi.

Storie diverse, dove gli integralismi e gli eccessi inutili di zelo la fanno da padrone. Affidarsi al buon senso è proprio così difficile?

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