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Telegiornaliste anno V N. 5 (176) del 9 febbraio 2009

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MONITOR Silvia Autuori, giornalista in continuo movimento di Giuseppe Bosso

Salernitana, Silvia Autuori ha iniziato a lavorare al quotidiano Cronache del Mezzogiorno occupandosi di sport, poi a Lira tv nel settore della cronaca nera. Nel suo curriculum vanta la carica di direttore dell'emittente TVI e il trasferimento a Frosinone per lavorare a Tele Universo.

Giornalista itinerante per scelta o necessità?
«Direi un po' tutte e due le cose. Di certo è stata una mia scelta perché da sempre penso di essere una persona che non riesce a stare ferma in un solo posto. Ho bisogno di vivere nuove esperienze, di confrontarmi con altre persone. Da questo punto di vista si potrebbe dire che è anche stata una necessità, ma era inevitabile. Ho iniziato a lavorare a Lira tv trovandomi con colleghi che ritenevano quello il loro punto d’arrivo, mentre per me era solo un punto di partenza».

Campania, Molise, Lazio: quali differenze hai riscontrato in queste regioni?
«Salerno e la Campania sono casa mia per cui non mi pronuncio. Non è stato facile, invece, a Venafro, perché mi sono trovata a dover ricominciare tutto daccapo,a partire dai rapporti con le forze dell’Ordine che a Salerno avevo consolidato negli anni. Anche dal punto di vista della mentalità chiusa delle persone non è stato facile, ma con questo non voglio certo dire che non sia stata un’esperienza interessante, anzi. A Frosinone ho trovato una situazione diciamo di "limbo", caratterizzata da una grande disponibilità della gente e grandi possibilità di lavorare con la tecnologia a Tele Universo».

Le esperienze più entusiasmanti?
«Ai tempi di Lira tv sono stata per tre giorni al Parlamento Europeo e poi al Giro d’Italia. Non posso poi dimenticare quando ho seguito, lo scorso anno a Venafro, con una maratona non stop fino all’una del mattino i risultati delle elezioni. Ho imbastito in pochi minuti un set televisivo negli studi di TVI, ricevendo molti complimenti dalla gente».

Il nostro è davvero uno dei mestieri più precari?
«Prima della parentesi a Venafro, non era facile per me trovarmi a confronto con persone che da mesi non ricevevano lo stipendio. Ma il problema più serio è stato il non poter trovare lì, come a Lira tv, una figura importante come il mio maestro Francesco Budetti. A parte questo, innegabilmente la crisi si è fatta sentire anche nel nostro settore, e si vede dal fatto che molte emittenti si avvalgono sempre più di collaboratori esterni che di propri redattori. Per quanto mi riguarda, posso ritenermi molto fortunata, ma lo stesso non può dirsi per alcuni miei amici che hanno lavorato a La7 e ai quali non è stato rinnovato il contratto».

Dove vorresti lavorare in futuro: Rai, Mediaset o Sky?
«Più che per una particolare emittente, vorrei diventare corrispondente dall’estero, da Londra o dalla Spagna. Negli ultimi tempi Antonio Caprarica per me è stato un vero e proprio mito. Non inviata di guerra, però: non ritengo di avere le capacità per quel tipo di esperienza. E non mi piace fare interviste tra la gente, non credo sia il mio campo».

Prima giornalista sportiva, poi di cronaca nera. Ma qual è la tua vera specialità?
«Mi ritengo abbastanza versatile. Di certo la cronaca nera mi piace molto e l’ho studiata e approfondita negli anni. Lo sport, e la pallavolo in particolare non la dimentico. E poi a Venafro ho imparato, contrariamente a quanto avevo pensato fino a quel momento, a seguire la politica con grande interesse».

Come mai, secondo te, c’è tanto interesse per le tragiche storie di cronaca nera?
«Penso che dopo quello che è accaduto in America l’11 settembre, si sia creata nel pubblico una sorta di paura che ha portato, tra le altre cose, a sviluppare questo forte interesse per episodi tragici come quelli di Cogne e Perugia. Ho letto e mi sono appassionata ai libri di Carlo Lucarelli, mai efferati però come queste vicende. Non è certo una cosa positiva tutto questo: basti pensare al fatto che Amanda Knox è un vero e proprio personaggio, mentre dovrebbe essere semplicemente guardata come una persona accusata di un delitto».
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CRONACA IN ROSA Caro cinema... di Camilla Cortese

In principio era il cinematografo. Negli anni Ottanta (tale è il principio per chi scrive), quando i genitori portavano i bimbi al cinema a vedere i film d’animazione di Walt Disney, funzionava così: si guardavano gli orari degli spettacoli su un quotidiano, si andava al cinema 15 minuti prima dell’inizio e si acquistava il biglietto. Chi prima arrivava, meglio sedeva.

Tanto semplice e disarmante quanto carico di nostalgia e di ricordi al sapore di Smarties, gli amabili bottoncini di cioccolato colorati, quelli nel tubetto cilindrico che non fanno più come una volta. Il cinema era così, forse un po’ spopolato ma genuino. C’era la maschera con la divisa inamidata e il banchetto dei pop-corn. Il buio, totale come la magia del momento, il silenzio, quasi assoluto.

Poi, complice la crisi del settore e la necessità di combattere la concorrenza della televisione, la grande idea fu quella di svecchiare l’immagine polverosa del cinematografo abbellendo la confezione e fornendo servizi inutili. Fu così che, negli anni Novanta, arrivarono dall’America i cinema multisala che invasero pacificamente la penisola e attecchirono particolarmente in questo strano e indefinibile decennio ancora in corso.

Il primo impatto fu bello e multiaccessoriato, proprio come gli anni Novanta. La poesia fu abilmente contabilizzata, come usano fare gli amici statunitensi. Non più vecchi teatri riadattati, con quella divisione classista fra platea e galleria, dall’America la democrazia esportata in formato sedici noni prendeva forma con enormi sale zeppe di utilissime lucine-spia.

Non più il misero banchetto dei pop-corn, che fa tanto caldarroste della vecchia Europa, ma poderosi bar pieni zeppi di ogni ben di dio, con bicchieri da litro per succulente bevande alla spina e fornetti zeppi di nachos al formaggio. E nessuno sapeva cosa fossero i nachos.

Che dire poi della maschera? Aria! A casa il nonno rattrappito vestito come la banda della scuola, in campo giovani baldanzosi! L’occhio vitreo, l’occhiaia tossica, il capello rasta e la ridicola salopette non sono ciò che sembrano a noi sprovveduti, no! Sono i baluardi dei super giovani sottopagati. A noi piacevano tanto i bei bottoni dorati e le nappine, ma dobbiamo accontentarci di piercing e zotici che nemmeno salutano.

Alla faccia della crisi, il sabato sera azzeccare un film meno gettonato e di conseguenza meno programmato del genere Saw: cadaveri a pezzetti & truculente torture, è quasi un’impresa. Dopo mezzora di coda circondati da adolescenti in visibilio erotico per l’ultima prodezza di Riccardo Scamarcio (che mai avrà fatto stavolta, avrà alzato un sopracciglio?), dopo essere stati rapinati della modica cifra di € 8,00, si riesce ad aggiudicarsi i posti 275 e 276 della sala 1.

A questo punto si può anche abbandonare il cervello in biglietteria, perché centinaia di sagome di manine e piedini fluorescenti guidano le masse di pecoroni verso il vero divertimento: venti minuti di pubblicità e dieci di trailer. Quando finalmente inizia il film, di cui a stento si ricorda il titolo viste le dodici fatiche di Eracle superate per arrivarvi, ci si ripromette di non cedere allo spuntino dell’intervallo, mentre la magia del momento si stempera in un pallido crepuscolo di cellulari illuminati a scrivere fondamentali SMS.
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FORMAT Internet contro Tv di Federica Santoro

Stiamo per dire addio alla nostra vecchia tv? È quello che vogliono farci credere i produttori delle serie web di successo che, da qualche tempo, stanno togliendo spazio ai programmi vecchio stile della nostra tanto amata scatola a colori.
Le web tv sono ormai una realtà affermata, lo sappiamo bene, e pensare di frenarne lo sviluppo è, oltre che fuori tendenza, sicuramente molto sciocco vista la mole di investimenti che internet muove ogni giorno.

Siamo di fronte a una di quelle rivoluzioni che difficilmente è possibile controllare, e questo forse è un bene. L’anarchia che regola il web è molto più organizzata di quanto sembri. Si tratta di regole condivise dagli utenti che spesso non hanno né una elencazione fissa e né la rigidità tipica di altri mezzi, come appunto quelli televisivi. La cultura di internet è creatività, che non sopporta di essere legata da maglie troppo strette.

Da ciò una questione fondamentale che non può essere trascurata, vista la contaminazione attuale tra le due tipologie d’espressione. Imminente è la nascita di una Governance di internet per riuscire a dare delle regole, dei frame work comuni su cui tutti gli operatori attualmente coinvolti abbiano il modo di confrontarsi e definire più dettagliatamente questioni quali la libertà di espressione, l’economia delle imprese e la sicurezza informatica.

Dare spazio alla condivisione delle conoscenze è oggi una necessità che proprio la rete ha suscitato. Occorre misurarsi sulla questione del diritto d’autore: in questi anni l’impalcatura normativa era indirizzata a proteggere e preservare, mentre oggi la Creative crea licenze per chi vuole condividere contenuti a certe condizioni. Fino ad oggi più di trecento milioni di oggetti sono stati trasformati e condivisi in questo modo, grazie alle creative commons.

Un dibattito su questi temi è in corso all’Onu: un comitato tecnico si sta preoccupando di creare una nuova disciplina sulla circolazione dei contenuti, ma il rischio di una regolamentazione anticulturale anziché culturale, preoccupa i puristi del web, per i quali la rete rappresenta il sogno di una generazione più libera.
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CULT Tinto Brass, il cinema visto dal didietro di Valeria Scotti

Dici eros, dici Brass. Tinto, maestro dell’erotismo, amante instancabile delle donne e del suo lavoro. Lo abbiamo intervistato.

Ziva è la sua prossima creatura.
«Ziva, l’isola che non c’è è la storia di una guardiana di un faro su un isolotto al largo delle costa Dalmate, dove attende da due anni il ritorno del marito dalla guerra. Sola e provata da un sentimento di grande rabbia nei confronti di questo massacro, raccoglie tre naufraghi, un marinaio veneziano, un paracadutista inglese e un graduato nazista. Sarà suo interesse amarli e curarli con sensualità, a patto che smettano di fare la guerra. Il tutto accompagnato dalle parole e dalle note della canzone Le Déserteur di Boris Vian. In questo caso è l’erotismo che vince sull’eroismo maschile, quello brutale e guerriero. Ed è un lavoro sull’intelligenza e la vitalità delle donne. La mia convinzione è che il mondo o lo prendono in mano loro, o andiamo a puttane».

Protagonista e sua nuova musa è Caterina Varzi.
«Sì, lei è un avvocato psicoanalista. E’ nata una reciproca seduzione durante un incontro di lavoro. Da psicoanalista junghiana, Caterina cercava quella mia anima che non so se ho mai avuto o se l’ho venduta tanto tempo fa. Io, da erotomane incallito, cercavo invece l’eros che traspariva dal suo sguardo, dal suo comportamento, e che ho paragonato ai riflessi cangianti e mobili della gibigiana, quell’effetto di luce che si ha a Venezia quando il sole rimbalza sull’acqua dei canali. In attesa del film, ora in preparazione, con Caterina ho girato un corto, Hotel Courbet, un omaggio al pittore Gustav Courbet, autore dell’Origine del mondo. In fondo Picasso diceva che l'arte non è mai casta e quando è casta vuol dire che non è arte».

Ma il linguaggio dell’erotismo è davvero per tutti?
«Sono convinto che i miei film siano per tutti. Recentemente ho espresso un desiderio, invitare il ministro Gelmini a rendere obbligatoria la proiezione dei miei film nelle scuole. Ho una concezione molto giocosa e gioiosa della sensualità e dell’erotismo, non è un qualcosa di lugubre, cupo, punitivo, colpevolizzante. Forse, se più giovani vedessero i miei film, non nascerebbero fenomeni di brutalità e violenza a cui siamo purtroppo abituati».

C’è un campo in cui si trasgredisce di più?
«Oggi c’è bisogno di essere liberi da condizionamenti vari. La vera volgarità sta nell’ipocrisia che è in tutti i campi, da quello culturale a quello politico, così come in quello religioso e finanziario. La trasgressione, secondo me, significa non accettare queste forme di ipocrisia. Io ho cominciato facendo dei film politici, impegnati, col miraggio di cambiare la società e il mondo. Poi mi sono accorto che tutto ciò non portava a nulla, al massimo si sostituiva un potere con un altro. Allora ho rinnegato la fase rivoluzionaria salvando solo quella sessuale, e da lì mi sono impegnato ad analizzare e studiare l’erotismo».

A tal punto da diventare cultore di una parte del corpo femminile a cui ha dedicato anche un libro, L’elogio del culo, Tullio Pironti editore. Da cosa nasce questa coerenza nel corso degli anni?
«Nasce dagli stimoli che mi dà e dalla sua valenza metafisica: il culo non è come la faccia, una maschera ipocrita che sa fingere e mentire. E il mio libro esordisce proprio con una tesi, “Il culo è lo specchio dell’anima”, un’antitesi, “Ognuno è il culo che ha”, e la sintesi, “Mostrami il culo e ti dirò chi sei”».

Si è spesso sentito incompreso, un personaggio scomodo?
«In Italia abbiamo il Vaticano e tanti ostacoli che impediscono una fruizione serena della sessualità. All’estero ricevo senz’altro una maggiore considerazione tra omaggi, serate. E i negozi, nel settore del cinema italiano, espongono quasi solo i miei film. Lì si dà più importanza all’aspetto artistico e cinematografico. A Parigi, per esempio, la Cinémathèque Française, una specie di Louvre del cinema, mi ha dedicato un omaggio, Elogio della carne, proiettando 15 miei film».

Qual è dunque la situazione attuale dell’erotismo in Italia?
«Non è facile, sono rimaste ormai solo due grandi fonti di produzione, la Rai e la Mediaset. Una volta c’erano un’infinità di produttori, si riuscivano a fare anche 450 film all’anno».

Eppure continuiamo a vivere in un’epoca in cui tutti spiano tutti…
«Spiare è certamente una delle componenti della sessualità e dell’erotismo. Anche l’amore è un sentimento che si esprime con il linguaggio dei sensi, e tra i sensi c’è appunto la vista».

E il potere di Internet?
«Non credo abbia a che fare molto con l’erotismo, semmai con la ricerca di sessualità in immagini o nelle chat. E io non navigo in rete: ho bisogno di rapporti che non siano virtuali».
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DONNE Johanna, il premier che affascina di Chiara Casadei

E dopo l’arrivo di Obama alla Casa Bianca, che ha trascinato con sé entusiasmo e tante nuove speranze, anche in Islanda è il momento di un grande cambiamento. Dopo Geir Hilmar Haarde, premier islandese, dimessosi a causa della recente crisi finanziaria che ha portato il paese sull'orlo della bancarotta, è arrivata lei, Johanna Sigurdardottir, a risollevare la situazione e il morale dei cittadini.

Donna dalla carriera interessante e varia – nel suo curriculum risulta anche la professione di hostess – è stata il ministro più amato dagli islandesi. Perché proprio lei? Perché affascina, sta dalla parte delle minoranze e soprattutto conosce i bisogni della gente. Il 73% dei cittadini islandesi, secondo un recente sondaggio, si dice soddisfatto del suo operato: dal 2007 è stato l’unico ministro uscente cresciuto in popolarità.

Lei, esponente socialdemocratica, 66 anni, e un divorzio alle spalle, non è soltanto la prima donna a capo dell’esecutivo in Islanda, bensì la prima donna – dichiaratamente – lesbica premier al mondo. Ebbene sì, da ben sette anni ha un legame con la giornalista e scrittrice Jonina Leosdottir. La sua vita sentimentale non è un ostacolo per la sua carriera, anzi, rende solo la sua figura ancora più interessante.

Per quanto riguarda i suoi progetti come neopremier ha annunciato: «Questo esecutivo si baserà su nuovi valori sociali. Per il breve tempo che saremo in carica, la nostra enfasi sarà sull'assistenza alle aziende e alle famiglie. Seguiremo una politica molto prudente e responsabile nelle questioni economiche e fiscali ma, allo stesso tempo, daremo priorità ai valori sociali, ai principi dello sviluppo sostenibile, ai diritti delle donne, all'eguaglianza e alla giustizia». Determinata a lasciare il segno, Johanna Sigurdardottir ha davanti a sé una bella sfida.
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TELEGIORNALISTI Ennio Remondino, dalla tv alle foto segnaletiche di Erica Savazzi (seconda parte)
- segue dal numero 175

Continua l’incontro con Ennio Remondino, al quale non potevamo risparmiare domande di geopolitica. Con risposte mai banali.

La crisi in Ossezia e Georgia secondo lei è correlata all’indipendenza del Kosovo?
«Certamente. Eravamo stati avvertiti. Ho provato a raccontarlo in mille maniere ma “Balcani”, all’orecchio di certi direttori, suona ormai come una parolaccia. La “ragione” del vincitore ha prodotto il Kosovo etnico. Una bomba ad orologeria per le realtà multietniche di Bosnia, Macedonia ecc... In Ossezia non è bastato l’inganno classico del “buono” a priori (la Georgia) e del “cattivo” costruito a tavolino. Putin non è Milosevic - forse è un cattivo anche lui ma molto, molto più furbo - e ha il petrolio. Ora, in tutta l’area Caucaso sono cavoli amari».

Quali conseguenze l'indipendenza del Kosovo può avere sui movimenti autonomisti europei?
«Se vale la ragione del più forte, come dimostra il Kosovo, sarà la rincorsa a creare condizioni di forza per poter imporre le proprie aspettative».

Come vede l’allargamento della Ue nei Balcani?
«Quale Unione europea? Quella della Germania che assieme al Vaticano, nel 1991, ha anticipato il riconoscimento della Croazia favorendo il via alla spartizione territoriale a cannonate? L’Unione degli interessi nazionali prevalenti e contrapposti? L’Unione che ha come “ministro” degli esteri Xavier Solana, l’ex segretario Nato che ha dato l’ordine di sganciare le bombe sulla Jugoslavia? L’Europa la cui politica estera viene decisa dai vertici militari dall’Alleanza Atlantica? L’Europa come seconda scelta dopo l’ammissione alla Nato (La Polonia dei gemelli Kacisnski, ad esempio) o l’Europa che dopo la catastrofe Bush tenta di rendersi autonoma e alternativa?
L’attuale Unione coi vincoli di unanimità può al massimo sopravvivere, senza andare da nessuna parte. L’Europa che speriamo, potrebbe essere l’occasione per superare i dieci anni di macelleria balcanica. Peccato si sia inventato il Kosovo etnico. Peccato che esista ancora una parte europea che vuole imporre i suoi distinguo tra “buoni” e “cattivi” del recente passato. L’eventuale esclusione della Serbia sarebbe la follia conclusiva di una politica imbecille».

L’arresto di Karadzic ha confermato che i criminali di guerra della ex-Jugoslavia vivevano tranquillamente nelle loro case. Il suo arresto ha quindi mostrato un cambiamento della volontà politica. È arrivato il momento di chiudere definitivamente con le vicende della guerra?
«La disonestà dei giudizi internazionali preconfezionati che sono prevalsi sino ad oggi non ha certo aiutato i Paesi coinvolti ad esercitare senso critico sul loro passato e a crescere. Nei Balcani, vissuti in dieci anni di terribili guerre, non ho incontrato molti innocenti ma soltanto diversi gradi di colpevolezza. Gli orfani dei Milosevic e dei Karadzic, dei Tudjman e dei Gotovina che ancora resistono sono conseguenza delle prevenzioni a favore o contro che hanno accompagnato i vecchi leader per basso interesse delle parti internazionali prevalenti».

La Turchia si trova in una posizione geograficamente strategica, tra Europa, Medio Oriente e Russia. Allo stesso modo in Turchia convivono Islam e laicità dello Stato. Quale sarà il ruolo futuro di questo Paese?
«La Turchia è un paese formidabile e sorprendente. Tra mille contraddizioni sociali ed economiche (rispetto dei diritti umani, disparità clamorose), sta diventando una vera e propria potenza di area. Un esempio. Compra e distribuisce il petrolio del “super cattivo” Iran e vende gas e acqua a Israele. È parte fondamentale della Nato nata in chiave antisovietica ma non amoreggia più con gli Stati Uniti. Sta riprendendo i rapporti con l’Armenia del genocidio mai ammesso. Sulla crisi georgiana ha smentito subito la versione americana del buono di comodo. Alleato strategico per l’Europa (oltre la questione Nato), con qualche conto interno da definire meglio tra il suo essere paese musulmano - non islamico - di costituzione laica. Da tenere d’occhio l’attuale governo Erdoğan - partito islamico “moderato” - e le contro tentazioni di laicismo autoritario in grigio verde. Senza prevenzioni e con un certo ottimismo».

In Turchia esiste il problema dei Curdi che a volte sfocia in attentati e azioni militari. Secondo lei quale potrebbe essere la soluzione per questa minoranza dispersa su più stati?
«Non intendendo candidarmi al prossimo Nobel per la pace, non vi racconto la “mia” soluzione. Dopo quello assegnato ad Ahtisaari, protagonista del pasticcio Kosovo, quel premio non è più molto credibile. Certo è che la Turchia, sulla realtà dei suoi cittadini curdi, deve fare ancora molti passi in avanti. Esiste la minaccia reale delle azioni armate del Pkk, ma esistono anche molte interpretazioni politicamente reazionarie dell’identità nazionale turca. La nascita di un “Kurdistan iracheno” (esiste ancora l’Iraq unitario?) ai confini turchi di sud-est non favorisce per ora la ricerca di soluzioni democratiche coraggiose e politicamente avanzate. La tentazione statunitense di spingere la parte armata del Pkk verso l’Iran in funzione destabilizzatrice è forte, almeno quanto il nazionalismo turco che predilige le soluzioni di forza».
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SPORTIVA Nadia Fanchini: sogno o illusione? di Pierpaolo Di Paolo

Vive un periodo d'oro lo sci italiano, competitivo come non vedevamo da tempo. È di appena pochi giorni fa lo storico risultato raggiunto nello slalom speciale da Manfred Moelgg e Giorgio Rocca: primo e secondo nell'ultima gara prima dei mondiali della Val d'Isere. Non accadeva da 22 anni, gli anni d'oro di Tomba la bomba.

Le speranze e le aspettative sulla squadra italiana, alle soglie dell'appuntamento del 3 febbraio - giorno d'avvio - sono quindi cresciute in maniera esponenziale. L'attenzione si è concentrata anche e soprattutto su Nadia Fanchini, fortissima 22enne bergamasca nella quale si riponevano le maggiori aspettative.

La delusione dopo le prime giornate della Coppa del Mondo è stata perciò enorme. L'esordio al Super-G femminile, infatti, non è stato dei migliori: Nadia parte subito male, commette un errore dopo poche porte e perde tempo e concentrazione, non riuscendo più a recuperare. Al traguardo è solo nona. Una gara compromessa troppo in fretta, per la gioia della bella e fortissima statunitense Lindsey Vonn che ne approfitta e fa meritatamente suo il supergigante femminile.

Questa doveva essere la definitiva rinascita dopo due anni non esattamente felici per Nadia. Prima un infortunio al legamento crociato, poi lo stop dei medici per un sospetto problema cardiaco che aveva gettato la giovane atleta in un momento di sconforto: «Non si sapeva mai nulla... se potevo ricominciare, e quando. A casa stavo malissimo, ero triste. Sono religiosa e anche la fede mi ha aiutato, ma ci sono momenti in cui pensi che non ce la puoi fare».

Da questa difficile fase Nadia è uscita con una rabbia e una determinazione che l'han resa ancora più pericolosa e competitiva di prima. Si è sottoposta a tour de force micidiali, alternando allenamenti da centinaia di paletti di slalom a prove di discesa, spesso fermandosi per un giorno di riposo dopo dodici-quattordici di attività ininterrotta. «Le rinunce sono all'ordine del giorno: uscite in motorino con gli amici, la discoteca, i concerti, le pizze, le feste di paese. Purtroppo a casa non ci sono mai». Si può rinunciare anche all’amore? «No, quello mai».

Adesso la frustrazione per i tanti sacrifici e l'immenso sforzo vanificato in così pochi secondi è palese, ma la partita non è chiusa e lei ne è ben consapevole: «Ho sbagliato io. Non si vedeva bene, però ora mi lascio questa delusione alle spalle e mi concentro sulla discesa - assicura con la solita grinta l'atleta - il mio Mondiale non è finito».
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