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Intervista a Franco Abruzzo tutte le interviste
Franco AbruzzoTelegiornaliste anno V N. 3 (174) del 26 gennaio 2009

Franco Abruzzo, la deontologia è l'autonomia del giornalista
di Erica Savazzi

Rintracciare Franco Abruzzo è facile: il suo sito è conosciuto a tutti coloro che si occupano di giornalismo. Lo intervistiamo telefonicamente e, dalle sue parole, emerge un grande amore per la professione, ma anche vera preoccupazione per il futuro.

Quali sono gli effetti della crisi sul giornalismo?
«La situazione nazionale e internazionale non è buona. La crisi finanziaria internazionale ha determinato un doppio effetto sul giornalismo: la caduta verticale della raccolta pubblicitaria - negli Stati Uniti il 18%, in Italia meno 7% in ottobre, con una tendenza che si va consolidando e avrà effetti anche nel 2009 - e la crisi delle edicole. È un fatto che è passato abbastanza sotto silenzio, ma Repubblica perde 100.000 copie, il Corriere 50.000. Tutti i giornali stanno perdendo copie. I settimanali, poi, non ne parliamo, perché i lettori hanno scoperto che sono spesso dei cataloghi in cui le informazioni vengono frammiste con la pubblicità. Meno pubblicità, quindi, e meno vendite nelle edicole».

E per quanto riguarda l'occupazione?
«In Italia si parla di 1000-1500 persone da mandare in pensione o incentivare all'uscita, su 17.000 giornalisti assunti e iscritti all'Inpgi. Quindi rischiamo di perdere nell'ipotesi più disastrosa quasi il 10% degli assicurati, con effetti sulla previdenza. I giornalisti pagano i contributi all'Inpgi, una parte dei quali va ai prepensionamenti e ai cassa integrati. Se il numero di questi ultimi aumenta di molto, l'Inpgi non regge più. Ad oggi, il lavoro giornalistico costa agli editori un 8% in meno rispetto al lavoro assicurato con l'Inps: cioè un impiegato costa 8 punti percentuali in più al proprio datore di lavoro. Per fronteggiare la valanga di cassaintegrati, gli editori dovrebbero mettere mano al portafoglio e dare all'Inpgi dai 4 ai 6 punti sugli 8 che hanno di vantaggio nel lavoro giornalistico: ciò significa dai 48 a 60 milioni di euro all'anno in più. Ma se gli editori mettono mano al portafoglio per l'Inpgi, hanno anche i soldi da dare ai giornalisti come aumento contrattuale?».

E quindi cosa succederà per le trattative sul rinnovo del contratto scaduto ormai da tre anni?
«Le trattative sul contratto sono destinate a segnare il passo, perché in un quadro di incertezza pesante gli editori vorrebbero soltanto delle clausole che potrebbero agevolarli nella ristrutturazione delle aziende. Gli editori vogliono mano libera nello spostare i giornalisti da una testata all'altra, vogliono mano libera nel licenziamento di direttori e capiredattori trattandoli come dirigenti con una buona uscita. Ma possono i giornalisti diventare dirigenti? Per contratto devono difendere l'autonomia della loro redazione, l'autonomia come giornalisti che poggia sul rispetto delle regole deontologiche. Ma come dirigenti a quale logica risponderebbero? A quella dell'impresa o quella della professione? Ecco perché giustamente la FNSI si oppone».

Ma mentre i giornalisti vengono licenziati si diffonde sempre più il citizen journalism.
«Ma non sono giornalisti! La mediazione giornalistica tra il fatto e la gente è opera del giornalista che ha una preparazione e una visione delle cose. Quando ero giovane e lavoravo al Giorno c'erano i cosiddetti “trombettieri”, dei signori che stazionavano in questura, dei carabinieri, negli ospedali, e che avvertivano i giornali che era scoppiata una notizia, ma poi era il giornalista che scriveva. Oggi la tecnologia aiuta: se sei a Catania e l'Etna erutta puoi riprenderlo con il telefonino e trasmetterlo a chi vuoi. Ma i giornalisti sono dei mediatori intellettuali di cui c'è sempre bisogno. Però devono essere preparati. Per questo ho fatto la battaglia per l'accesso alla professione tramite università. Il mondo complesso di oggi richiede una preparazione di carattere universitario, non tanto per i titoli ma per i saperi».

Internet è il futuro? La carta stampata morirà?
«Io vivo di internet pur non essendo più giovane, è un mezzo straordinario, sono anche su Facebook. Secondo Meyer, nel 2043, sarà venduta l'ultima copia. Io sono d'accordo con Montanelli: la carta stampata prima era padrona dell'informazione, poi è spuntata la radio come fornitrice di info, poi nel 1954 la tv e infine Internet, ma la carta ha sempre resistito. Io dico che resisterà anche a Internet perché la bellezza di stringere un giornale e di leggerlo è un'altra cosa. Sarà però un prodotto di nicchia. La bellezza della carta resta... Io sono un figlio della carta. Il foglio elettronico di plastica su cui scaricare e leggere è il futuro, però la carta è sempre la carta».

Che cosa pensa della riforma dell'Ordine?
«Io difendo l'ordine. E anche questa legge, vecchia ma importante perché contiene le regole deontologiche che in Italia sono norma, cioè vincolanti. Come conseguenza, il contratto prevede che quando un editore assume un direttore non gli può dare direttive in contrasto con le regole deontologiche: sono le regole deontologiche che formano l'autonomia del giornalista. Se mi arrivava un ordine in contrasto con le norme deontologiche potevo rifiutare e nessuno mi licenziava. Prova a immaginare un mondo in cui questa legge non esiste più. Io sono un caporedattore e mi arriva il capo del personale che, per convenienza, chiede di modificare un titolo. Io ho due possibilità: o li mando a quel paese e me ne vado, o obbedisco. Non ho la terza via, cioè che se la richiesta è in contrasto con le regole deontologiche, io mantengo il mio titolo e basta. Questo è il punto, se abolisci la legge professionale indebolisci la professione, pieghi la professione agli interessi aziendali e pubblicitari. Va bene così? Auguri. Con molto affetto e molta malinconia».

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