
Telegiornaliste anno II N. 13 (45) del 3 aprile 2006
          
 Cristina Fantoni, giornalista all sport di 
	Tiziano Gualtieri
 
 Cristina Fantoni è iscritta all'Albo 
	dei giornalisti professionisti dal 12 settembre del 2000. Da sempre ha avuto 
	a che fare con i media e lo sport, in particolare con il calcio.
 Laureatasi alla facoltà di Scienze politiche, indirizzo Relazioni 
	internazionali, alla 
	Luiss - Guido Carli con una tesi sul Linguaggio verbale e non 
	verbale del calcio, fa dello sport la sua vera passione. Entra nel mondo 
	del giornalismo grazie a una gavetta che tocca tutti i diversi tipi di 
	media: radio, carta stampata e tv.
 
 Dal 1996 viene accolta nella grande famiglia di Telemontecarlo, che non 
	abbandonerà. Scelta da Gad Lerner per condurre il telegiornale de 
	La7
 nell'edizione delle 20.00, torna poi alla sua vera grande passione: lo 
	sport, in particolare quale esperta e inviata sui campi di gara dello sci 
	alpino e del calcio.
 Nel 1998 il Coni le ha assegnato il premio Ussi (Unione stampa sportiva 
	italiana), categoria Giovani. Attualmente lavora alla redazione di Milano de 
	La7 Sport, come inviata e conduttrice del nuovo canale digitale 
	sportivo.
 
 Segue ogni domenica sul campo le partite del digitale terrestre de 
	La7, curando i collegamenti della vigilia e le interviste ai 
	protagonisti del dopo match. È stata tra gli inviati delle Olimpiadi di 
	Torino 2006. Cristina è sposata e ha un bambino.
 
 Secondo te qual è la differenza tra uomo e donna di seguire lo sport?
 «Credo che, salvo strani casi del destino, la scelta della donna sia 
	necessariamente legata a una reale passione, che a volte viene coltivata 
	nonostante lo scetticismo altrui. Di norma, un uomo, agli occhi degli altri, 
	sa di sport e di calcio a priori, mentre una donna deve in partenza 
	dimostrarlo. È un aspetto che ha un rovescio importante della medaglia, 
	perché credo che una donna, una volta mostrata la propria competenza, abbia 
	la possibilità di mettersi più in evidenza (anche perché siamo ancora un po' 
	pochine)».
 
 Il calcio è lo sport più seguito dagli italiani e, purtroppo, anche quello 
	più controverso. Doping, violenza negli stadi, diritti televisivi...
 «Io faccio di norma fatica a stare al passo con i tempi, spesso mi 
	rammarico di non aver fatto questo lavoro vent’anni fa, quando il rapporto 
	con i protagonisti era diretto e non filtrato da regole, addetti stampa 
	e
 manager vari, quando allo stadio ti muovevi senza barriere e una 
	manifestazione sportiva era una infinita occasione per raccontare storie e 
	incontrare personaggi. Da questo punto di vista, la blindatura di oggi non 
	mi piace. Per il resto, credo che di un fenomeno così radicato nella società 
	come il calcio bisogna imparare ad accettare pregi e difetti, senza però 
	lasciarsi andare al luogo comune “è tutto finto, è tutto comprato, 
	è tutto artefatto”. Bisogna informarsi e saper distinguere, 
	bisogna tener presente chi ha il potere e chi lo subisce, bisogna, insomma, 
	come in tutte le cose, salvare ciò che è pulito e almeno conoscere ciò che è 
	sbagliato. Comunque il calcio resta fantastico».
 
 Secondo te c'è troppa esasperazione nel mondo del calcio?
 «C'è forse esasperazione nell'importanza che certi protagonisti sanno di avere, 
	nell'influenza che esercitano sulle persone e sugli stati d'animo della 
	gente. Ma io capisco chi ama così tanto questo sport da far sacrifici, 
	macinando chilometri e spendendo soldi. Anche per me la domenica è sempre 
	stata un momento in cui spendere energie e sottoporsi a sofferenze vere. 
	Adesso devo necessariamente vivere tutto con qualche filtro in più, ma la 
	passione per la competizione resta, e non credo vada mortificata. Come 
	sempre, sono gli eccessi a rovinare la media».
 
 Cosa ne pensi della normativa che ha introdotto i biglietti nominali? Può 
	essere davvero un deterrente per i teppisti?
 «In sé può essere una delle soluzioni, a patto che insieme alle norme 
	arrivino anche i mezzi per applicarle e il personale per controllarle. E 
	sempre più le società, secondo me, dovranno riuscire ad essere responsabili 
	di quanto accade dentro e intorno agli impianti, come ognuno è responsabile 
	di quel che succede in casa propria. Quindi, impianti piccoli e vivibili, 
	di proprietà delle singole società. Ci vorrà tempo e pazienza».
 
 
Ti 
	sei laureata con una tesi sul “Linguaggio verbale e non verbale nel calcio”. 
	Spesso le telecamere "pizzicano" i giocatori rivolgere frasi poco rispettose 
	verso avversari e arbitro. Non rischia di diventare diseducativo per i più 
	piccoli?
 «Difficile non essere fraintesa su questo argomento, ma non appartengo alla 
	schiera dei santarellini, perché anch'io ho praticato sport a livello 
	agonistico (ho giocato fino in Serie B in una squadra di pallavolo a 
	Roma) e so cosa succede quando si è in campo. Non avrei mai voluto avere 
	telecamere puntate addosso, come credo non l’avrebbero desiderato i 
	calciatori di vent’anni fa, che non erano più bravi o educati di quelli di 
	oggi. Ecco, questa ad esempio, la considero un'esasperazione: credo che 
	comunque i protagonisti di oggi debbano adeguarsi al "grande fratello"
 che ci controlla tutti dall'alto, evitando gesti e frasi plateali, ma senza 
	pretendere che il campo di calcio diventi una cena tra commensali ingessati. 
	Non è quest'aspetto che allontana dal calcio. Molto peggio può fare 
	l'arroganza, ad esempio, il comportarsi in un modo perché si sa di poterlo 
	fare. Questo a me fa davvero rabbia, nel calcio come nella vita!».
 
 Agganciandosi ancora alla tua tesi, che ne pensi dei giocatori che in campo 
	si abbandonano a gesti politici come il braccio teso di Di Canio o il pugno 
	chiuso di Lucarelli?
 «Non voglio entrare nel merito, che peraltro accosta due gesti che a livello 
	costituzionale non pesano allo stesso modo. Diciamo che non mi piace 
	tutto quello che mi appare costruito, pensato, poco spontaneo. Non mi 
	piace l'esultanza che suona come ostentazione, qualunque cosa si voglia 
	ostentare. Come non mi piace sentire giocatori che con settimane d'anticipo 
	annunciano che esulteranno in quel modo, o che non esulteranno da ex. Se si 
	toglie spontaneità anche alla gioia del gol, allora sì che siamo nei guai».
 
 Tu hai viaggiato molto, soprattutto in Inghilterra e negli Usa. Gli eventi 
	sportivi, in quei Paesi, vengono vissuti in maniera differente?
 «Molto dipende dallo sport di cui parliamo. In generale, però, gli americani
 di un avvenimento sportivo prendono tutto, si godono la vigilia, si immergono 
	nell'atmosfera, comprano, spendono, spandono, bevono e mangiano prima, 
	durante e dopo! In Inghilterra, invece, la partita è un rito 
	inviolabile, con le sue regole non scritte che nessuno si azzarda a 
	disattendere. L'anno scorso, a Twickenham, Inghilterra-Italia di 
	rugby è stato uno spettacolo che difficilmente dimenticherò. Eri in uno 
	stadio e ti sentivi immerso nella storia».
 
 Sei sposata con collega (Carlo Vanzini di SkySport, ndr), anche lui 
	giornalista sportivo. Vi è mai capitato di seguire lo stesso avvenimento? Se 
	sì, quale?
 «Siamo marito e moglie grazie ai Mondiali di sci di 
	Vail
 (nel 1999 in Colorado). Avevamo fatto qualche telecronaca di sci insieme (io da 
	Roma, lui dal posto per le interviste), quindi ci conoscevamo solo "via 
	cavo". Poi a Vail ci siamo "dati una faccia". Diciamo che un Mondiale così 
	bello non potranno mai riorganizzarlo! Adesso siamo entrambi stati impegnati 
	alle Olimpiadi, io con La7 a Torino, lui con Sky al Sestriere. Beh, in casa 
	c'è quel pizzico di eccitazione misto a rivalità. Qualche "buco" dovremo 
	darcelo. Le notizie, in questo caso, non si possono condividere come tutte 
	le altre cose della nostra vita».
 
 Quando tu e Carlo siete a casa, discutete di sport?
 «È uno dei problemi legati al fatto di condividere la stessa professione. 
	Stessa quotidianità, stessi colleghi, stessi problemi. È un continuo, a 
	volte casa nostra sembra una redazione un po' sui generis. Meno male che il 
	nostro bimbo ci distoglie sempre più dagli impegni lavorativi! Però, a forza 
	di ascoltarci, nonostante abbia solo due anni, credo abbia già manifestato 
	amore per lo sport e passioni ben chiare. Anche sulla squadra di calcio per 
	cui tifare gli ho già spiegato quel che deve sapere. E, su questo, Carlo non 
	è riuscito a intervenire».
 
 Ti dà fastidio essere ricordata soprattutto per il tuo impegno sportivo, 
	piuttosto che per aver condotto il telegiornale?
 «Assolutamente no, anche perché alle spalle ho tanti anni di giornalismo 
	sportivo, mentre la conduzione del telegiornale news delle 20.00 è stata 
	una avventura su cui ho investito molto, ma dovendo imparare tutto molto in 
	fretta! So che sono migliorata col tempo, avevo riscontri positivi e mi sono 
	divertita (soprattutto nei mesi in cui conducevo col pancione e 
	leggevo sul vostro sito commenti sulla mia linea), ma il mio cuore è, e 
	resta, tra palloni e piste da sci, davvero».
 
 Radio, carta stampata, televisione. Tutte esperienze che hai fatto: quale 
	butti dalla torre?
 «Carta stampata, sicuramente. Soffrivo un po' la quotidianità dello 
	scrivere al giornale, l'obbligo di doverlo fare sempre e comunque, 
	indipendentemente dal peso delle notizie. La radio era fantastica, 
	cerchietto in testa e tuta da ginnastica, senza l'obbligo di apparire in 
	ordine. E poi, con questa "erre" strana, chi mi ascoltava da casa si faceva 
	film improbabili sul mio aspetto».
 
 Un'ultima domanda: la maternità ha influito sul tuo modo di lavorare? E sul 
	rapporto che gli altri colleghi hanno con te?
 «La maternità ti stravolge, nel senso più positivo del termine! Però 
	credo di essere più equilibrata adesso, il lavoro resta una parte 
	fondamentale della mia giornata, ma l'ho ricollocato nella graduatoria della 
	mia vita, e penso di averne tratto beneficio. I colleghi? Quando sono in 
	trasferta (e capita comunque spesso) la battutina su dove ho lasciato il mio 
	piccolo Luca esce sempre. Quando la stessa battuta la faranno anche a mio 
	marito, vorrà dire che abbiamo fatto qualche passo avanti anche nel nostro 
	ambiente».