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Intervista a Luigi Fenderico tutte le interviste
Telegiornaliste anno III N. 15 (93) del 16 aprile 2007

Luigi Fenderico: aspetto la mia isola deserta di Nicola Pistoia

Luigi Fenderico, nato a Napoli nel 1956, professionista dal 1989, comincia la sua avventura professionale in televisione nel 1994, per Mediaset: prima al Tg4, dove resta alcuni mesi, poi a Studio Aperto, dove attualmente è vice caporedattore e ricopre l’incarico di responsabile della redazione romana, che conta un organico di nove giornalisti. Continua a seguire la pagina politica, con collegamenti audio-video dalla redazione al Centro Palatino e come inviato.

Lei ha lavorato sia per la carta stampata che per un’agenzia di stampa, ora invece è in tv: può descriverci queste diverse esperienze?
«Sono diversi i vettori. Diverse la comunicazione e i destinatari. Se si scrive per un’agenzia di stampa, gli interlocutori sono essenzialmente i giornalisti che dovranno rielaborare testi e notizie rendendoli parte di un articolo. In altri casi, è il giornalista di agenzia – grazie ad una notizia o ad un servizio particolari - ad occupare uno spazio esclusivo nel giornale o nel notiziario tv. Quando questo accade, è un risultato di grande soddisfazione. A volte anche pochissime righe possono portare al successo. A me è capitato di essere venuto a conoscenza di un diverbio tra un ufficiale dell’anagrafe e una coppia di genitori che voleva dare alla figlia il nome: “Libera scienza al servizio dell’umanità”. Dopo ore di discussione si accordarono così: sarebbe stata apposta una virgola dopo il nome Libera, poi il resto come secondo nome. Non ci fu un solo quotidiano che non riprese quella notizia. Io ero quasi agli inizi della carriera e rimasi sbalordito anche per i complimenti del direttore e dell’editore. Del resto, per un agenzia di stampa l’obiettivo è la “ripresa” dei giornali.
Se invece si scrive per un quotidiano o una rivista, l’obiettivo principe è il lettore. Quindi bisogna chiedersi cosa interessa di più al lettore del nostro giornale. E dunque quali gerarchie dare all’evento di cui si tratta. Inoltre, a differenza degli altri strumenti di comunicazione, c’è di bello che si ha più spazio per raccontare.
In televisione l’approccio è lo stesso: il riferimento sono i nostri ascoltatori. Sono loro, la loro quantità, a dare autorevolezza a un telegiornale. Poi cambia il linguaggio: entrano in campo le immagini. Cambia la scrittura: deve essere ben leggibile ad alta voce, con frasi che abbiano un’armonia. Ed è tassativa la sintesi: quello che in un giornale di scrive in 60 righe, in un tg come Studio Aperto bisogna raccontarlo in dieci righe».

Qual è il compito di un vice caporedattore?
«E’ un componente della “line”, cioè del “gruppo dirigente” del giornale. Ha funzioni di collegamento tra il direttore e le sue indicazioni e di coordinamento e verifica affinché il lavoro dei giornalisti risponda a quelle indicazioni. Naturalmente, in senso inverso, si fa anche portatore verso il direttore delle eventuali difficoltà che insorgono “sul campo” nella realizzazione di un servizio».

Secondo lei ci sono ancora delle differenze tra Nord e Sud per quanto riguarda la professione di giornalista?
«Le capitali dell’informazione restano Milano e Roma. E la stessa informazione locale è più viva e diffusa nelle province ricche, quindi al nord. Il Sud è ancora fortemente penalizzato e, al momento, senza prospettive».

Secondo il suo pensiero, per la formazione di un giornalista, è più importante un master o il lavoro di redazione?
«Francamente ritengo che la scuola “sul campo” resti insostituibile. Specialmente per le attuali caratteristiche dell’industria dell’informazione, nella quale, più che specializzazioni o grandi preparazioni culturali, è importante la flessibilità. Questo vuol dire riuscire a capire di ogni cosa quanto basta per raccontarlo correttamente. Le redazioni tematiche, cioè suddivise nei canonici servizi (politico, economico, eccetera) sono ormai proprie di quei pochi grandi giornali che dispongono di organici corposi. Con i master” si rischia di sprecare un grande lavoro di studio che all’atto pratico non ha nessuna possibilità di esprimersi».

Talvolta Studio Aperto è oggetto di critiche. Come definisce lei il suo telegiornale? E cosa risponde a coloro che lo ritengono troppo poco impegnato?
«Credo che gli ascolti del mio tg, che sono eccellenti, rispondano meglio di tutto alla domanda. E poi l’informazione, se vuole arrivare alla platea più vasta possibile, dev’essere diversificata. Bisogna tenere conto di tutti. Di quelli che vogliono un tg istituzionale e serioso e di chi vuole un tg con un taglio alternativo. Nel nostro caso veloce e anche a volte irriverente. Che senso avrebbe fare un doppione del Tg5? Noi parliamo di tutto: di politica, di economia, di drammi e fenomeni sociali, così come di spettacolo e gossip. Ma lo facciamo a modo nostro e seguendo il target di Italia1, la nostra rete. Il resto, lo lasciamo al potere supremo del telecomando. Ma dalla gente che mi riconosce ascolto apprezzamenti molto belli per Studio Aperto, soprattutto per il suo modo di comunicare».

Cosa si sente di consigliare ai tantissimi giovani che come lei vogliono intraprendere questo percorso lavorativo?
«Sinceramente, se pensano ad un giornalismo di tipo “romantico”, all’avventura, ai viaggi, ai vecchi grandi inviati di una volta, consiglierei di trovarsi un altro mestiere. Ma se uno è proprio preso dal sacro fuoco ed ha la fortuna di entrare in un giornale, se si attrezza professionalmente ed ha voglia di fare, gli spazi ci sono. Però a costo di grandi sacrifici personali e senza le soddisfazioni e lo spazio di azione di una volta. L’alternativa è restare dietro una scrivania a copiare agenzie e a occuparsi per una vita di cose di terza e quarta fila. E allora, forse, è meglio fare un’altra cosa».

Come si vede fra vent’anni?
«Ho cominciato a fare questo lavoro nel 1976. Nel 2027 avrò 70 anni. Se Dio mi aiuta, sarò su un’isola – spero già da un po’ - a spendere tutto il tempo che mi rimane per riconciliarmi con la natura e soprattutto il mare».

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