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Intervista a Mario Gelardi tutte le interviste
Telegiornaliste anno III N. 33 (111) del 17 settembre 2007

Gelardi, il "suo" Gomorra a teatro di Valeria Scotti

Mario Gelardi, autore e regista teatrale, porta in scena da anni un teatro civile costruito su temi difficili. Storie che - prima di lui - nessuno ha avuto il coraggio di affrontare. E Napoli, la sua città, fa da sfondo.
Vincitore di numerosi premi, Gelardi è il direttore artistico della rassegna di teatro Presente Indicativo.
Tra poco più di mese, una nuova prova. Arriverà infatti sulle scene Gomorra, l’adattamento teatrale del romanzo di Roberto Saviano.

Le sue mani, insieme a quelle di un giovane autore, a lavoro su un'opera coraggiosa. Gomorra debutterà il prossimo 29 ottobre al Teatro Mercadante di Napoli. Come attende quel giorno?
«Più di un artista, più di un regista, più di un attore hanno cercato di convincere Roberto Saviano a portare in scena il testo. Alla fine la scelta è caduta su di me. E' quindi molto forte il senso di responsabilità nel riuscire a restituire il lavoro di Roberto in maniera efficace. E' una sfida che ho raccolto insieme alla produzione e a tutti gli attori. Io, Roberto ed Ivan Castiglione (attore, ndr) stiamo lavorando ormai da più di un anno a questo progetto. Ho la fortuna di avere un’equipe artistica scelta con sapienza e con un grande senso di responsabilità. Il Teatro Mercadante ha deciso di rischiare insieme a noi credendo in me, in Ivan, in Giuseppe Miale di Mauro (attore e autore teatrale, ndr) e nei collaboratori che ho scelto».

Come è stato farsi accompagnare da Saviano, lavorativamente parlando, in questo percorso dai risvolti talvolta crudi e sconvolgenti?
«E' un percorso che dobbiamo dividere in due parti. La prima coincide con l'inizio del lavoro mio e di Roberto sulle bozze, prima che uscisse il libro. Roberto è stato una specie di Virgilio per me. Mi ha condotto e mi ha aperto gli occhi su cose che io, come tanti, forse non riuscivo a vedere. Ma quando la sua situazione personale è diventata talmente importante, ha influito ovviamente sul nostro lavoro e sul nostro rapporto. Se prima c'era una grande libertà di vedersi, ogni incontro doveva poi passare attraverso una scorta, un magistrato. In questo caso il romanzo è diventato vita. Con il tempo ci siamo quasi abituati a convivere con questo senso di precarietà continua».

Il libro di Saviano ha messo sotto i riflettori l'intero sistema della camorra, andando a scavare nelle storie e nei traffici di famiglie un tempo ignorate. Il pubblico ministero che si occupa dei processi più importanti contro la camorra casertana, Raffaele Cantone, continua le sue indagini. Saviano vive da recluso e sottoscorta. E la giustizia è sola. Qual è la sua opinione in proposito?
«Credo che ognuno di noi debba fare il proprio dovere nell'ambito del lavoro che fa. Io faccio teatro e voglio fare teatro. Roberto voleva fare lo scrittore. Sono stati la vita ed alcuni avvenimenti a condurlo su un’altra strada. Spero non accada a me. Non credo quindi che la giustizia sia sola ma che la figura del magistrato sia talmente delicata da ritrovarsi sola comunque. Il magistrato è solo davanti alla sua coscienza. Come lo siamo tutti noi».

E' sempre più tangibile la solidarietà verso Saviano, un uomo che ha scelto di denunciare in cambio della propria libertà. Altri hanno pagato con la vita, inseguendo il desiderio di cambiare ciò che non era giusto. Lei crede in un possibile cambiamento del Sud?
«Credo non si possa parlare di un unico Sud. Ogni regione ha una realtà diversa dall'altra. Sono più speranzoso verso la Sicilia. Lì ho visto con quanta forza si sia radicata l'antimafia. Mi sento un po' più pessimista per la Campania perché qui, la divisione netta tra bene e male, purtroppo, non esiste. La reazione comune, quando ci troviamo davanti a qualcuno che commette un piccolo reato, è cercare di giustificarlo. Penso che nella vita ci sia sempre la possibilità di scegliere di stare dalla parte del perbene rispetto alla parte del permale. Chi sta dall'altra parte lo sceglie. Non ti capita. Ho amici che abitano nella 167 (quartiere di Napoli, ndr), persone stimabilissime e onestissime. Non si capisce perché qualcun altro non lo debba essere, semplicemente perché li ci è nato».

Sul suo blog, riferendosi a Saviano, ha espresso la «sensazione di trovarsi vicino ad un uomo dalla personalità alta, un'anima vasta e complicata, vasta anche nelle contraddizioni». Quanta forza le trasmette la vostra amicizia?
«La gente vive Roberto esternamente. Ho perso il conto delle fesserie che ho sentito dire su di lui. All'inizio rispondevo in maniera accalorata. Ora quasi cerco di non ascoltare perché il rapporto di amicizia mi porta ad una veemenza e ad un'irruenza che in certi casi non servono. Vedere la scorta, vedere una persona con cui prima andavi a pranzo fuori, a prendere un caffè e che ora non può più fare queste cose, cambia tutto. Se si è affezionati ad un amico, si partecipa emotivamente alla sua condizione di vita. Quella di Roberto poi, è talmente particolare che non credo di poterla comprendere appieno. La forza e il coraggio che ti trasmette Roberto sono fondamentali. Almeno per me è così».

Quanta ostinazione, quanta sfida personale c'è nel “suo” Gomorra?
«La prima sfida è stata quella di andare oltre il libro, di riuscire a dare ai personaggi una personalità, un'anima, un'emotività che nel testo originale, per ovvi motivi, non c'è. La seconda sfida è stata quella di lavorare con Roberto, di chiedergli di fare dei passi diversi rispetto al libro, di andare oltre la parte di reportage e di accentuare quella del romanzo. Vorrei che, dopo lo spettacolo, la gente avesse un immaginario del libro corrispondente a quello del teatro, che vedesse i personaggi di cui ha letto con le facce degli attori che ha visto in scena. Vorremo riuscire a raccontare il vero Roberto Saviano al di là degli articoli, al di là delle battaglie. L'uomo».

Se dovesse associare uno stato d'animo a questo suo ultimo spettacolo, quale sceglierebbe?
«Disagio. Quando ho letto Gomorra mi sono trovato a disagio in quanto napoletano, in quanto autore e persona dell'ambiente culturale. Un senso di disagio che dovremmo avere tutti e che renderebbe costante anche l'allarme. Per quanto io creda che il teatro abbia un potere limitato, spero che questa sensazione possa accompagnare chi guarderà lo spettacolo e che possa sentire alla fine, anche se per pochi minuti, il disagio di vivere in questa città e di essere, in qualche modo, complice anche nei piccoli gesti quotidiani».

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