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Intervista a Randy Roberts tutte le interviste
Telegiornaliste anno III N. 47 (125) del 24 dicembre 2007

Randy Roberts, la mia casa è il palco di Valeria Scotti

Cantante, compositore, arrangiatore in un universo di soul, blues, R&B e molto altro ancora. Randy Roberts, figlio di Rocky Roberts - interprete dell'intramontabile Stasera mi butto – non poteva avere un destino diverso. Perché la sua passione è il giusto tributo a un padre come il suo. Ma è anche l'entusiasmo di un ragazzo dalle qualità vocali indiscutibili, cresciuto con la musica e alla costante ricerca di nuove soluzioni sonore.
Abbiamo incontrato Randy in un bar romano: una lunghissima chiacchierata quella che ci ha regalato.

Quali sono stati i primi tuoi passi nel campo musicale?
«Da piccolo non ero consapevole di saper cantare. C'era stata la possibilità di andare a studiare in un'accademia, ma i miei non mi ci mandarono. Poi, alla fine del liceo, un mio amico che aveva un gruppo musicale di soul music mi propose di cantare con loro. Sei mesi dopo, ero già nei locali a esibirmi. La prima volta che sono salito sul palco, mi sono sentito a casa. Nonostante io sia una persona che si crede abbastanza inadeguata in qualsiasi tipo di situazione, il palco è l'unica realtà dove non mi sento fuori posto. E dopo quella prima volta, ho continuato a cercare esperienze del genere. Ma non è solo il canto in sé, quanto la voglia di stare sul palcoscenico. Sono infatti legato a un pensiero di spettacolo dove, oltre a cantare, si balla e si parla con la gente».

Come si cresce in una casa dove regna la musica?
«Sono cresciuto seguendo naturalmente mio padre. E la musica è una passione non ragionata, ma che fa parte di me. Della mia infanzia ricordo soprattutto i concerti di mio padre. Per questo ho anche una percezione degli artisti diversa dagli altri. L'artista io l'avevo a casa: prima giocava con me, e poco dopo saliva sul palco dove la gente l'applaudiva. Per me l'artista è più di una persona comune, nel senso più bello del termine. Anzi, è qualcuno che necessariamente ti vuole bene. E gli artisti con cui sono cresciuto, oltre a mio padre, oggi sono dei veri amici perché mi hanno regalato tantissimo».

Hai avuto importanti collaborazioni all'estero. Due nomi su tutti: Craig David e Phil Collins…
«Sì, la collaborazione con Craig David è nata per caso. Una mia amica corista mi disse che cercavano un ragazzo che non fosse troppo nero e con una voce abbastanza delicata, simile a quella di David, per registrare dei cori che avessero un buon impatto sul disco. Quella è stata un'esperienza particolare e divertente. Ma quando ho avuto la fortuna di lavorare con Phil Collins, è stato tutt'altro, anche perché lo accomuno molto a ciò che era mio padre: un bambino che voleva fare musica con l'entusiasmo tipico di quell'età. E salire sul palco con persone del genere ti porta a fare musica benissimo. Per queste ragioni ti rendi conto che Phil Collins è un grande artista. E' stata un'esperienza forte dal punto di vista emozionale, esattamente come quando andavo a vedere un concerto di mio padre».

Hai quindi lavorato, in ambito musicale, sia in Italia che all'estero. Quali sono le principali differenze che hai potuto riscontrare e perché hai scelto di fermarti in Italia?
«Ho scelto di stare in Italia per una ragione extra lavorativa. Per lavorare bene, infatti, credo sia fondamentale stare bene come persona. L'Italia è un posto eccezionale e le persone sono sempre alla ricerca di una buona qualità di vita. Dal punto di vista lavorativo, però, qui è più problematico: si combatte con delle piccolezze che in altri posti non esistono. Per esempio la precisione negli orari, nell'attrezzatura richiesta. Roma, comunque, è un giusto compromesso. E' una città che, quando c'è il sole, viene veramente illuminata, più delle altre. Ed è una città "in mezzo", considerata all'estero e, sotto alcuni punti di vista, ti dà anche più mistero, più fascino e quindi opportunità».

Secondo te, perché spesso in Italia, rispetto ad altri Paesi, la musica non viene considerata allo stesso livello dell'arte, della letteratura, e quindi esclusa dal concetto di cultura?
«L'Italia è mondialmente riconosciuta come il Paese della melodia. Eppure il 99% della musica italiana non è melodica ma uno scopiazzare poco logico perché poi mancano le basi. E' come copiare il compito di matematica e all'interrogazione non sapere niente. Con Internet poi si vende di meno, non esistono più gli anni di Michael Jackson e del suo apice. Dovremmo quindi riscoprire il valore reale della musica. Probabilmente ci sono stati anche errori nel passato, come quando ho iniziato a cantare io. Era il momento clou dei locali. Si lavorava anche tre sere a settimana. Poi è cambiato qualcosa: i gestori dei locali forse hanno cominciato a scegliere musica scadente per un maggiore guadagno e le case discografiche non si sono più preoccupate di avere un prodotto di qualità, perché tanto si vendeva comunque.
In realtà credo che siamo di nuovo in una fase di riscoperta. I locali cominciamo a essere di nuovo affollati, le scelte musicali più oculate. E pian arriveremo all'evento musicale accanto alla mostra di libri».

I tuoi progetti attuali?
«E' una situazione in fermento. Ci sono due progetti internazionali che si stanno muovendo a livello discografico. Il primo è con una grande etichetta, ci sono già delle persone importanti interessate. Appena scatterà la scintilla, partirà tutto velocemente. E' un progetto dove sarò esclusivamente interprete. Per ora mi prende molto mentalmente, ma poco a livello di tempo.
L'altro progetto, invece, va di pari passo con la mia attività live. Si tratta del mio gruppo soul con cui mi diverto molto. Con loro posso lavorare in maniera rilassata ma comunque professionale, esprimermi liberamente dal punto di vista non solo vocale ma anche d'intrattenimento. Sono ragazzi svegli che capiscono che il loro ruolo è anche quello di stare dietro al cantante, cosa che non è sempre semplice. In questo caso faccio di tutto: scrivo i testi, compongo musiche, mi occupo dell'organizzazione. E' un progetto nu soul : di pezzi ne abbiamo già parecchi, ma stiamo lavorando per creare una nostra identità e non correre il rischio di fare vecchio soul. Una volta trovata la chiave, costruiremo tutto intorno a quella».

In quanto figlio d'arte, quali sono gli insegnamenti che ti lasciato tuo padre?
«La maggior parte delle cose le ho imparate da me perché sono una persona curiosa riguardo gli atteggiamenti, le azioni e reazioni umane. Ma sono stati anche tanti gli insegnamenti ricevuti da mio padre. Ad esempio mi ripeteva sempre "Cura il tuo corpo che è il tempio della tua anima". Non mi ha mai detto cosa fare e cosa no, perché non ha senso vietare qualcosa a una persona. Voleva che imparassi tutto da solo. Dal punto di vista musicale, invece, bastava osservarlo. "Se scendi dal palco e non hai sudato, non hai lavorato", diceva. Mi ha insegnato ad avere un grandissimo rispetto della musica e degli altri artisti, a prescindere se ti piacciano o meno. A non mentire alla propria persona. Non è importante dire una bugia a qualcuno che può sempre scegliere di crederti o meno, ma è fondamentale non dirla a te stesso. Conosco persone che mentono talmente tanto che si sono dimenticate qual è la verità e non hanno più il senso della realtà.
Mio padre poi era un uomo tutto d'un pezzo: si alzava presto la mattina, aveva le sue giornate sempre ben organizzate, i suoi orari, le sue abitudini. Ci sono state grandissime litigate nel periodo dell'adolescenza. Qualche volta è stato duro vivere il nostro rapporto, perché l'incolpavo della sua assenza e del fatto di farmi vivere un'esistenza diversa dagli altri. Non ho mai vissuto, infatti, la condizione di essere comune in quanto figlio d'arte. Ma l'ho capito dopo che tutto era fatto per il mio bene. I miei sono stati dei genitori ottimi e devo moltissimo a loro. Ma mio padre, in fondo, è la mia famiglia. Parlo al presente perché lo è ancora e, nel momento in cui se n'è andato, mi sono reso conto che gli volevo veramente bene».

- continua su Il blog di Telegiornaliste

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