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Intervista a Paolo Virzì tutte le interviste
Tutta la vita davanti - di Paolo VirzìTelegiornaliste anno IV N. 16 (141) del 28 aprile 2008

I precari di Virzì al cinema di Antonella Lombardi

«Il popolo che parla al telefono per mestiere, fuori dai call center non ha voce alcuna». Così scrive Michela Murgia, precaria centralinista e autrice del libro Il mondo deve sapere che ha ispirato Tutta la vita davanti, ultima pellicola di Paolo Virzì, arrivato a Palermo per presentare il suo film.
«E’ una tragicommedia dove l’ansia per il futuro accomuna vittime e carnefici», dice il regista livornese che ha esplorato l’odissea moderna dei precari che lavorano in un call center. Nel cast, oltre Sabrina Ferilli, Valerio Mastandrea e Massimo Ghini, anche Micaela Ramazzotti e la siciliana Isabella Ragonese (già nota per la sua interpretazione in Nuovomondo di Crialese).

«Non mi piacciono i film che danno ragione a sé stessi – dichiara Virzì - piuttosto volevo affrontare senza pregiudizi una questione cruciale. E con lo stesso candore di Marta, la protagonista, (Isabella Ragonese), ci siamo avventurati nell’inferno della sottoccupazione». Del suo personaggio, la Ragonese dice che «incarna una delle solitudini inconciliabili raccontate nel film e che esercitano tra loro una strana solidarietà. Il film dà voce a uno smarrimento dovuto anche al fatto che non esiste più neanche un nemico: siamo tutti dei poveri disgraziati».

Ma come lavora Virzì sugli attori? «Dalla verità della persona lavoro alla stilizzazione del personaggio. Scommettere su talenti sconosciuti è il mio pallino. Non a caso ho scelto per questo film Mary Cipolla, una ragazza palermitana acqua e sapone che interpreta Luisa e che ho voluto trasformare in punkabbestia». A Micaela Ramazzotti, invece, che nel film interpreta Sonia, Virzì ha imposto di «riprendere a fumare per darle la giusta voce roca e infine l’ho ricoperta di tatuaggi». Isabella, dal canto suo, si è messa a studiare i filosofi Heidegger e Hannah Arendt «ma non l’ho costretta a lavorare in un call center – dice il regista – perché volevo che avesse l’aria di un pesce fuor d’acqua. Nel nostro piccolo proviamo anche noi a fare come gli americani», ironizza l’autore di Ovosodo e Caterina va in città.

Virzì, che vanta origini siciliane - «sono figlio di un maresciallo dei carabinieri di Palermo» -, è uno dei componenti del “movimento dei 100 autori” che spiega così: «Non è una rivendicazione corporativa, ma l’affermazione di una serie di principi che sottolineano il valore del cinema italiano. Avere la possibilità di scegliere all’interno di un mercato che tende invece all’omologazione è anche un diritto per gli spettatori. Il movimento dei 100 autori è stato un "Su la testa" ideale del nostro cinema». E sulle sorti del nostro cinema l’autore ha le idee chiare: «Oggi ha un grande successo commerciale un certo tipo di commedia adolescenziale, ma ci deve essere spazio anche per altri generi e linguaggi. L’Italia non può essere raccontata dai salotti televisivi. Non siamo l’industria americana, facciamo venti film l’anno, di cui cinque veramente belli come avviene anche in America ma, cifre alla mano, il nostro è uno dei cinema meno assistiti d’Europa».

Ma perché per raccontare la vita da precario Virzì ha scelto di ambientare la sua storia in un call center?
«Da padre di una ragazza 19enne destinata allo stesso percorso di studi umanistici di Marta, credo che il cinema italiano abbia il compito di scrutare l’anima segreta di questo Paese, che non è quella di Cogne, Fabrizio Corona o delle Veline. L’Italia va raccontata, ed è questo il compito che noi registi italiani fin dagli esordi ci siamo dati. E poi il call center è una specie di caverna di Platone del XXI secolo – spiega Virzì – se ne percepiscono le ombre, ma la vita è illusoria. Non ho inventato io la canzoncina motivazionale che si sente nel film, ma è uno degli stratagemmi usati da ditte come Kirby, Folletto ed Herbalife e che la Murgia (autrice anche di un blog sul popolo senza voce – e perciò ricattabile - dei precari) ha descritto. In questi posti il lavoro viene concepito come un reality o una gara dove si è esclusi o c’è il pubblico ludibrio se si sbaglia».

Sembra un ciclone in piena Virzì, che non risparmia critiche sulle dinamiche lavorative: «Negli anni della flessibilità nessuno ha nostalgia del lavoro fantozziano che accompagna dalla culla alla tomba, ma oggi il clima è "mors tua, vita mea". Questa è regressione civile, barbarie. Il lavoro è anche incontro degli altri».

Per le generazioni sommerse dal lavoro sommerso sarà possibile rivivere ora al cinema alcune storie personali. Per tutti gli altri, sorridere e indignarsi. Perché il mondo deve sapere che chi è precario non ha tutta la vita davanti.

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