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Intervista a Laura Bonasera   Tutte le interviste tutte le interviste
Laura BonaseraTelegiornaliste anno XVI N. 19 (636) del 10 giugno 2020

Laura Bonasera, lavorare in strada privilegio
di Giuseppe Bosso

Vincitrice nel 2017 del premio Maria Grazia Cutuli, inviata di trasmissioni come Nemo - nessuno escluso e Piazzapulita, incontriamo Laura Bonasera.

Come ha vissuto, da giornalista e da cittadina, questi mesi di lockdown?
«Sono stati mesi difficili, ma anche una grande sfida. Ho affrontato un lungo periodo di quarantena fiduciaria, prima di poter fare un tampone (fortunatamente poi risultato negativo!) per sintomatologia sospetta Covid 19. Segregata in casa, costantemente in contatto telefonico con il mio medico, tv e pc sempre accesi, ossessionata dalle news e dagli aggiornamenti. Poi un lutto, a 900 km di distanza, mi ha spiazzata: mia nonna di 90 anni se n’è andata per cause naturali in pieno lockdown. Nessun funerale e nemmeno un ultimo saluto da parte mia. In quel momento ho capito cosa volesse dire “solitudine”. Eppure lì fuori c’era un mondo che aveva bisogno di noi, di occhi e parole in grado di testimoniare e raccontare. Ho iniziato a studiare e a raccogliere dati e informazioni, anche sulla base della mia esperienza da “quarantenata”, che ho poi trasformato in servizi tv. Un esempio? Quando ho cercato di fare un test sierologico ho capito che c’era molto caos e stava nascendo un mercato basato sulla paura: prezzi gonfiati e tanti dubbi sulla loro attendibilità. Skype e Zoom, per me come per moltissimi dei miei colleghi, sono stati strumenti fondamentali. La tecnologia ci ha salvati, ma costretti a lavorare in un modo completamente diverso; è stata un’opportunità nel contesto emergenziale, ma a lungo termine ho paura possa diventare un limite per un lavoro come quello del giornalista che trova la sua linfa nel contatto diretto con la realtà».

Fermo restando che l’emergenza covid 19 non è certo finita, quale pensa sarà il volto dell’Italia dopo questa sofferenza, nel futuro?
«È un Paese profondamente trasformato che sta cercando di elaborare il trauma iniziando a fare “riabilitazione” per rialzarsi dopo la caduta. Ma credo ci vorrà del tempo prima di riuscire a sanare le ferite che questa pandemia ha generato. Il distanziamento sociale ha cambiato il nostro modo di metterci in relazione, come in una altalena oscilliamo tra la paura dell’altro e il desiderio di avvicinarlo. Il volto coperto dalla mascherina ci ha costretti a leggere le emozioni guardando negli occhi l’altro. Siamo più insicuri e impauriti, consapevoli che la nostra è una generazione che dovrà fare i conti con una dura crisi economica. Le diseguaglianze sociali verranno esasperate e i più fragili saranno esposti alla tentazione di trovare quello di cui si necessita anche in ambienti criminali e mafiosi. Credo che questo sia uno dei punti chiave su cui dovrebbero porre l’attenzione sia la politica che i narratori della realtà».

Un paio di anni fa, quando lavorava a Piazzapulita, ha vissuto una spiacevole situazione quando ha cercato di documentare le condizioni dei braccianti del Lazio: a distanza di tempo quell’episodio ha cambiato qualcosa nel suo modo di affrontare la sua professione e i rischi che a volte può comportare?
«Affatto. Il rischio di scontrarsi con il potere è nella natura dei lavori che cercano di portare a galla la verità. Quell’inchiesta, tra l’altro proiettata anche all’Onu, ha generato un’inchiesta della Procura di Latina. Sono stata sentita come persona informata dei fatti e testimone durante l’udienza preliminare. Era la mia prima volta davanti ad un giudice e non ero per nulla a mio agio. In aula c’erano gli avvocati degli imputati ma nessuno rappresentava i braccianti sikh: vittime di caporalato, violenze e abusi. Quando è iniziata la mia deposizione, però, è come se avessi colto il senso profondo di ciò che avevo raccontato. Ero certa di stare dalla parte giusta: quella di chi non ha voce. Mi dispiace però che spesso, in questi casi, la notizia diventi: Troupe aggredita, giornalista minacciata, dimenticandoci delle persone, dei protagonisti del racconto, i nuovi schiavi».

A parte questo episodio, quali sono le esperienze che l’hanno maggiormente coinvolta tra quelle che ha avuto modo di raccontare?
«Sicuramente l’ultima inchiesta, quella sul carcere Mammagialla di Viterbo per la quale ho raccolto storie e testimonianze che mi hanno tolto il sonno per un po’ di notti: presunti pestaggi ai detenuti da parte di un gruppo di agenti di polizia penitenziaria e suicidi sospetti nelle celle d’isolamento. Dopo la messa in onda, in carcere sono arrivati gli ispettori del Cpt – comitato anti tortura del Consiglio d’Europa. Poi, una serie di reportage sul mondo della maternità 4.0. Il giorno in cui a Kiev ho incontrato alcune madri surrogate non è stata soltanto un’esperienza professionale ma profondamente umana. Ha aperto in me uno spazio enorme di domande, da cittadina italiana e da donna (non ancora madre). Poi c’è la Sicilia, la mia terra, e il reportage da Fondo Fucile. Da una delle cinque baraccopoli di Messina ho raccontato le elezioni regionali, le promesse mai mantenute della politica ma anche i sogni di chi da quel contesto così degradato vuole fuggire. Infine, c’è il mar mediterraneo, teatro della politica internazionale: partecipare alle operazioni di soccorso ai migranti a largo delle coste libiche con l’equipaggio di Medici Senza Frontiere o essere testimone delle operazioni di ricerca dei trafficanti a bordo della nave Garibaldi della Marina Militare sono state esperienze che mi hanno lasciato segno indelebile».

In prospettiva futura, preferirebbe continuare a essere inviata su strada o preferirebbe una conduzione da studio?
«La strada. Ritengo un privilegio poter andare, incontrare, essere testimone e raccontare. Ma nella vita, mai dire mai».

L’Italia è un Paese per giovani giornalisti?
«Ci sta provando, a piccoli passi. Sta a noi “giovani” proporre contenuti e sperimentare linguaggi nuovi. Alcuni prodotti editoriali nati negli ultimi anni, specialmente sul web, lo dimostrano. Sta però anche “ai grandi” fare la propria parte. Concedere fiducia e cedere spazi per innovare è fondamentale».

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