
Telegiornaliste anno XVII N. 
		14 (664) del 21 aprile 2021
		
		
Moira 
		Armini, dare voce nel modo giusto 
		di 
Giuseppe Bosso 
		
		Incontriamo 
Moira Armini, 
		volto dell’emittente grossetana
		
Tv9 Telemaremma.
		
		
		
Come riesce ad alternarsi tra salute e sport? 
		«Ci vuole anzitutto passione per questo mestiere, altrimenti non si va 
		oltre il riportare la notizia come mero fatto; bisogna invece 
		raccontarlo, “entrarci dentro”, per così dire, che riguardi l’attualità, 
		la cronaca o lo sport, che è da sempre una mia passione assieme alla 
		sanità. Ed è importante trasmettere allo spettatore l’emozione che quel 
		fatto suscita. Lasciare l’emozione. Per questo mi piace molto la diretta 
		live tra la gente, cogliere la verità nei volti, negli occhi. Per quanto 
		riguarda Il Medico di turno, mi rendo conto della delicatezza 
		dell’argomento, per questo in ogni puntata il punto di partenza che 
		seguo con i miei ospiti è quello di far capire a chi ci segue dove ci 
		troviamo e di cosa parliamo, nel modo più semplice e comprensibile, ma 
		al contempo professionale. Spesso la medicina, per chi non la conosce, 
		viene vista come un qualcosa di incomprensibile, ed è per me una grande 
		gioia quando qualche spettatore mi scrive per dirmi “
grazie, mi avete 
		fatto capire questo argomento… hai fatto la domanda che avrei voluto 
		fare io al dottore”; abbiamo un potere enorme noi giornalisti, 
		dobbiamo saperlo usare nel modo giusto». 
		
		
Come ha vissuto e sta vivendo da giornalista e da cittadina la 
		pandemia che da oltre un anno è entrata pesantemente nelle nostre vite?
		
		«Sono entrata molte volte in ospedale per intervistare medici alle prese 
		con il virus, li ascolto e mi confronto con loro al di là della notizia, 
		come umani prima ancora che professionisti, bisogna raccontare senza 
		allarmismi perché la gente ha il diritto di essere informata in modo 
		corretto e lineare, a maggior ragione quando riguarda si tratta della 
		salute e quando lo si fa in una TV locale che per l’utente è un 
		riferimento diretto. Abbiamo un coltello dalla parte del manico, quando 
		abbiamo una notizia da raccontare, la responsabilità di raccontare la 
		verità, guai se non lo sapessimo usare nel modo appropriato. Abbiamo 
		un’etica da rispettare». 
		
		
Gioie e dolori dell’essere giornalista nella provincia toscana. 
		
		«Dolore non ne ho riscontrato, se non in alcune storie che ne portavano. 
		Quello c’è e ci sarà sempre. Fa parte del nostro lavoro Fortunatamente 
		viviamo in una terra ricca e ‘fortunata’ rispetto a tante altre realtà. 
		Ci confrontiamo con persone, famiglie, imprenditori, associazioni, 
		enti.. che in noi vedono un punto di riferimento, è un dovere che io 
		sento quello di essere presente. Fa parte del nostro bagaglio che si fa 
		più o meno pesante, come per un medico fare una diagnosi, per noi 
		l’informazione deve essere verificata, sostenuta da fonti verificate, 
		chiara ed oggettiva. A volte fa male, a volte apre Il cuore. E la mia 
		soddisfazione, come le dicevo, è riuscire a rispondere ai dubbi e alle 
		domande che un cittadino può avere anche in settori come quello della 
		salute e sapere di essere arrivata ad emozionare. Ecco, questo è il 
		risultato che ripaga il mio lavoro. Arrivare a strappare un sorriso, 
		un’emozione. Entriamo nelle case delle persone, lo dobbiamo fare in 
		punta di piedi, con rispetto, ma con calore. 
		
		
Il Grosseto calcio ha vissuto un periodo di gloria, sfiorando anche 
		la serie A, per poi dover ripartire dai dilettanti: che sensazioni ha 
		riscontrato nei tifosi in questi anni, più rimpianto per il passato o 
		speranza per il futuro? 
		«Il tifoso grossetano è accorato, è legato alla maglia, alla tradizione, 
		dal 1912 a oggi, una tifoseria forte fatta di uomini e donne del 
		grifone; un tifoso che non dimentica chi ha fatto del bene e chi ha 
		lasciato situazioni di difficoltà. Ma in lui permane la voglia di vedere 
		la squadra nelle sue categorie, di mantenere questo meritato blasone, 
		come sta facendo la famiglia Ceri, grossetana, da dopo l’era Pincione: 
		dall’Eccellenza alla serie C. Restano indelebili gli anni gloriosi 
		legati a Piero Camilli, sul quale permangono diverse opinioni, ma non si 
		può cancellare l’ottimo ricordo di quegli anni in cui la squadra è 
		andata vicina a raggiungere la massima serie. Per questo Camilli è 
		ricordato ancora come il Comandante, Il Patron. L’attualità è quella di 
		una squadra fatta da ragazzi, professionisti che sono per la gran 
		maggioranza originari proprio di Grosseto, che hanno il loro lavoro, 
		valori umani e mantengono saldi i piedi per terra, vivono il calcio come 
		una passione, con l’orgoglio di scendere in campo con il grifone sul 
		cuore e solo poi come fonte di guadagno. Chi arriva a Grosseto resta 
		rapito dalla forza dello spogliatoio e ne racconta una favola d’altri 
		tempi». 
		
		
Le capita di riguardarsi in video, anche per cercare di cogliere 
		punti su cui migliorarsi? 
		«Sì, mi riguardo, ascolto i servizi, non solo delle mie trasmissioni, e 
		tengo moltissimo al lavoro di chi sta dietro le telecamere, senza i 
		quali noi non potremmo entrare nelle case delle persone; è importante 
		per me il rapporto che si crea con loro, le persone da casa non sanno 
		quanto lavoro ci sia di loro e mi dispiace». 
		
		
Le sta stretta la dimensione locale o sente una maggiore 
		responsabilità come portavoce del suo territorio? 
		«Non penso ci sia differenza tra essere portavoce di una piccola o di 
		una grande comunità. La responsabilità è la stessa, l’attenzione si 
		amplia a più voci, ma alla fine cambia solo il numero di persone che si 
		rivolgono a te, e che cercano attraverso il tuo lavoro di poter dire la 
		loro, ed è quello che cercherò sempre di fare, qualunque sia la realtà. 
		Non è la capienza di un teatro a delinearne la grandezza, ma la capacità 
		di chi sta sul palco di raggiungere più cuori di chi ascolta e 
		mantenerne l’attenzione. Ammiro chi ne è capace».