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Telegiornaliste anno III N. 42 (120) del 19 novembre 2007


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MONITOR Isabella Di Chio, una voce per gli italiani nel mondo di Silvia Grassetti

Giornalista professionista dal 2001, laureata in Lettere, Isabella Di Chio ha ricevuto nel 2002 il Premio Giornalistico "Val di Sole per un giornalismo trasparente. Multimedialità per l'altra Italia". Dopo aver lavorato nelle redazioni di Radio Capital e Sat2000, nel 2001 è approdata a Rai International. E' qui che oggi Isabella è impegnata nella redazione di Italia News.

Lavorare a Rai International è una vocazione, un'occasione o una casualità?
«Un'occasione importante che è diventata una vocazione. Sono arrivata a Rai International ed ho iniziato ad occuparmi di italiani all'estero nel 2001. Da allora i connazionali che vivono fuori dall'Italia sono diventati il valore aggiunto della mia professionalità».

Dalla cronaca locale a Rai International: quanti e quali strumenti del mestiere servono per ambedue gli ambiti e quali bisognerebbe dimenticare?
«Direi che non bisogna dimenticare mai nulla. Nella nostra professione è necessario far tesoro delle esperienze vissute e delle professionalità acquisite. L'immediatezza e la velocità che ho conquistato grazie al quotidiano lavoro nella cronaca cittadina e nazionale ho cercato di portarle con me nell'esperienza a Rai International. Un'informazione diretta a chi ha lasciato il nostro Paese per vivere all'estero o che è nato in altre nazioni, ma che conserva origini italiane, necessita di semplicità, chiarezza e anche di un pizzico di passione in più. E' una sfida quella degli italiani all'estero. Loro hanno una grande voglia di rimanere legati all'Italia, di sapere e conoscere le sfaccettature di un Paese che continua a mutare. E noi, che dobbiamo rispondere a queste richieste, stiamo cercando di dare risposte concrete. Molto spesso ho avuto la possibilità di conoscere le loro storie. Sono rimasta molto colpita dalla forza con la quale hanno affrontato vite che hanno il sapore del sacrificio. E' per questo che ho cercato e cerco di raccontare loro l'Italia non dando mai nulla per scontato, approfondendo ogni aspetto».

Direttora per un giorno: quale sarebbe la prima novità per la redazione? E il primo progetto nuovo?
«Darei più spazio alle inchieste e alle notizie di cronaca bianca, mettendo in evidenza le storie di quanti costruiscono e agiscono lontano dal clamore, senza lamentarsi.
Punterei su una presenza maggiore sul territorio, con meno convegni e più storie, rispettando anche la sofferenza altrui, senza la ricerca facile dell'audience.
Vorrei che i nostri programmi diventassero uno stimolo per i telespettatori, dando voce ai tanti giovani che sono costretti a lasciare l'Italia per sviluppare le proprie potenzialità. Mi piacerebbe offrire loro un mezzo per rimanere in contatto con il meglio della storia del loro Paese.
Chissà, questi progetti potrebbero realizzarsi con le novità portate dal nuovo direttore, Piero Badaloni».

Hai un sogno nel cassetto o un progetto che speri di poter realizzare, sia nella vita professionale che in quella personale?
«Più che un sogno nel cassetto direi che è un progetto, un pensiero che ogni tanto fa capolino. Vorrei dedicare un programma alle storie di emigrazione viste attraverso gli occhi dei bambini, una sorta di favole vere. Ci sono tante vicende che andrebbero raccontate e il mio spirito da cronista non aspetta altro che poter agire, prendere la penna e via. Speriamo che nessuno mi rubi l'idea...».

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MONITOR Cecilia Donadio, la gavetta nelle tv locali di Giuseppe Bosso

Tanti anni di lavoro nelle tv campane tra cui Canale 21 e Canale 8. E poi il felice e meritato approdo alla Rai. Questo è il percorso di Cecilia Donadio, giornalista professionista dal 1992. Oggi Cecilia è alla guida della rubrica quotidiana del Tg3 Nea Polis.

Hai alle spalle una lunga gavetta nelle tv locali napoletane. I tuoi ricordi di quegli anni?
«Ho cominciato a Canale 21 quando era la televisione campana più vista in assoluto, più dello stesso Tg3 regionale. Ho tanti ricordi di quegli anni quasi pionieristici. Quando andai a fare il provino nella vecchia sede di Posillipo a Villa Lauro, a due passi da casa mia, mi dissero: "Va bene, cominci domani" e così fu. Rigorosamente in diretta, da vera incosciente.
Fra i miei colleghi all'epoca c'era Enrico Varriale che mi diede qualche suggerimento e molto coraggio. Il resto lo fece la mia faccia tosta. Ricordo che andavo in onda quasi sempre la sera intorno alle 23, e a quell'ora in tutta Villa Lauro c'eravamo solo io e il tecnico dell'emissione. Il poverino, non potendosi muovere, mi urlava da lontano: "Cecì, si' pronta?" e alla risposta affermativa partiva la sigla. Quella gavetta è stato il modo migliore per imparare a non temere la telecamera. Oggi riesco ad affrontare con grande tranquillità la diretta che invece terrorizza molti colleghi».

Come si fa a passare dal circuito locale a quello nazionale? I canali regionali possono essere ancora un buon serbatoio per le emittenti nazionali?
«I canali regionali sono sicuramente il modo migliore per capire cosa significa fare telegiornalismo perché ti costringono ad imparare come superare le difficoltà quotidiane del nostro lavoro. L'esperienza ti dà più chance per fare il grande salto verso le emittenti nazionali. Molte delle conduttrici delle tv nazionali vengono da quella scuola. Parlo di conduttrici perché è spesso un vantaggio in più. Chi lavora nelle emittenti locali sa che bisogna saper fare di tutto ma l'andare in video è ancora il modo più semplice per farsi notare. Oggi però passare da un circuito all'altro è davvero una scommessa. I posti sono sempre di meno e le pretendenti, come i pretendenti, sempre di più. Bisogna davvero essere preparate, motivate e dotate di una volontà di ferro per riuscire. Io ce l'ho fatta ma non è stato facile e ho avuto molti momenti di scoramento. La testa dura d'ariete ha avuto la meglio».

Cosa vuol dire, secondo te, essere giornalista a Napoli oggi rispetto alle problematiche della città?
«Non credo che essere giornalisti sia condizionato dalle problematiche della città in cui si vive. Che sia Napoli, Palermo, Milano o New York, lo spirito dovrebbe essere sempre lo stesso. La curiosità, la voglia di raccontare agli altri in maniera semplice e diretta ciò che hai la fortuna di vivere e vedere in prima persona, la consapevolezza di avere una responsabilità nei confronti di chi ti ascolta o di chi ti legge».

Ritieni sia peggio accettare condizionamenti per poter lavorare oppure rischiare il tutto per tutto pur di fare un'informazione trasparente?
«Vorrei poter rispondere che non è vero, che non ci sono condizionamenti e non c'è nulla da rischiare nel fare un'informazione trasparente. Ma nessuno di noi può dirlo. Alla fine però i conti si fanno con sé stessi e con la propria coscienza».

Nea Polis è una delle tante rubriche del Tg3 relegate ad un orario non proprio di grande ascolto. Quali sono le vostre aspettative?
«Quando ho cominciato Nea Polis, nel gennaio del 2000, la rubrica aveva da poco cambiato la fascia oraria dalle 17 alle 15 e non aveva ancora un'identità. Si parlava di attualità, di spettacoli, di animali, poco di internet. Poi è arrivata l'intuizione del nostro capo redattore Silvio Luise e la virata decisa verso la potenzialità del web che in Italia era davvero ancora tutto da raccontare. E così mi sono ritrovata parte della nascita di una cosa nuova.
Se si esclude Mediamente, in onda davvero in orari impossibili, non c'erano rubriche dedicate alla rete e il mondo di internet era un meraviglioso fenomeno in continua evoluzione. Questo ha dato a me e ai miei colleghi un entusiasmo particolare e ci ha consentito, nel corso degli anni, di conquistare uno zoccolo duro di telespettatori che poi non ci hanno più abbandonato.
Oscilliamo intorno al 6% ma abbiamo raggiunto anche il 7,5% di share, vale a dire dagli ottocentomila al milione di spettatori. Per la media della terza rete, non è affatto poco. Noi tutti comunque ci auguriamo che Nea Polis possa crescere ancora. Il sogno è affiancare alla rubrica quotidiana una puntata settimanale di approfondimento, magari in orario serale».

I fatti di sangue di questi giorni a Roma (Tor di Quinto, Guidonia) sono solo l'ultimo capitolo di una incredibile escalation di violenza in cui, purtroppo, Napoli è spesso protagonista. In questi casi come pensi debbano porsi i media rispetto al pubblico?
«I media, ripeto, dovrebbero raccontare i fatti, evitare giudizi e pregiudizi, far parlare dove possibile i protagonisti. Personalmente non sopporto l'invadenza di un certo giornalismo, soprattutto quello televisivo visto che la telecamera intimorisce le persone e ci mette in una posizione privilegiata, di forza.
In questi giorni è scomparso l'esempio forse più calzante di chi e di che cosa dovrebbe essere un buon giornalista. Pensiamo ad Enzo Biagi e sapremo esattamente cosa fare e cosa non fare del nostro lavoro».

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CRONACA IN ROSA La fine degli eredi di Provenzano di Antonella Lombardi

Il volto è impietrito, la barba e i capelli sono bianchi, ben curati, i vestiti firmati. Ai polsi, oltre alle manette, un rolex, uno dei tanti che compongono la sua collezione da 15 costosissimi pezzi. Con sé un’elegante cartella in cuoio, piena zeppa di documenti. Dietro il figlio, melodrammatico, scoppia in lacrime quando vede la polizia, grida un «Ti amo papà» che è suonato insolito e disperato persino agli stessi agenti.

E’ la mattina del 5 novembre quando i boss mafiosi Salvatore, «’U Baruni» e Sandro Lo Piccolo vengono sorpresi dalla squadra Catturandi in un blitz nelle campagne del Palermitano, tra Partinico e Montelepre, il regno del bandito Giuliano. Qui, in un’anonima villetta parzialmente abusiva, tra calciobalilla, sedie di plastica, sigari, caffè, Chivas e spumante, padre e figlio, insieme a Gaspare Pulizzi e Andrea Adamo, mafiosi di spicco di Carini e Brancaccio, sono stati sorpresi mentre era in corso un summit mafioso. Con loro, pistole, contanti, e pizzini. Alcuni gettati nella cassetta dello sciacquone e perciò maldestramente rovinati, ma non del tutto illeggibili: inutile il tentativo di disfarsene, preziose le informazioni al loro interno.

I due latitanti, Salvatore «il Barone», 65 anni, ricercato dal 1983, il figlio e braccio destro Sandro, 32 anni, latitante dal 1998, avevano con sé il decalogo del perfetto mafioso siglato da un titolo che ricorda la Costituzione italiana: «Diritti e doveri». Si giura fedeltà e disponibilità a Cosa nostra, «anche se c’è la moglie che sta per partorire», «non si devono frequentare né circoli né taverne», «non ci si può appropriare di soldi che sono di altri e di altre famiglie».

E poi il manuale di cosa nostra, i dettagli sulla sua struttura organizzativa, la mappa dei mandamenti, i regni di competenze di ogni boss, meticolosamente annotati, insieme al libro mastro del pizzo con su scritto chi paga il conto alla mafia. Sandro e Salvatore Lo Piccolo erano i padroni del quartiere San Lorenzo a Palermo e allo «Zen», gestivano tempi e distribuzione delle utenze elettriche. Amavano la bella vita, i vestiti costosi delle boutique del centro, i rolex.

Il padre aveva uno stipendio mensile da 40mila euro, il figlio Sandro uno da 25mila, alla moglie andavano per le sue necessità, 11mila euro. Eredi di Bernardo Provenzano, a lui, corleonese, consegnano mezza città in cambio di un’alleanza preziosa che sigla l’ascesa dei Lo Piccolo alla reggenza indisturbata di Palermo. Con lui gli «scappati», cioè i sopravvissuti alla prima guerra di mafia che riparano in America, possono finalmente tornare senza rischiare la vita, riprendendo i lucrosi traffici di droga con la Sicilia.

«La cupola è azzerata, cosa nostra non ha un vertice, li abbiamo arrestati tutti». Così Piero Grasso, a capo della procura nazionale antimafia, ha commentato a caldo la cattura dei boss. E adesso gli scenari sul «dopo Lo Piccolo» rischiano di aprire quella che il procuratore Francesco Messineo ha definito una «fase di fibrillazioni». C’è un vuoto da colmare ai vertici e cosa nostra non aspetta troppo tempo, è fluida, si adatta velocemente. Morto un papa se ne fa un altro. Ma per fortuna, qualcosa, in Sicilia sta cambiando.

E se Sandro Lo Piccolo, quando scende dalla volante può permettersi sprezzante di mandare baci a destra e a manca, nella piazza antistante la Squadra Mobile, la società civile e i giovani di Addiopizzo applaudono i ragazzi della Catturandi. I veri eroi, in Sicilia, sono loro.

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FORMAT Fabio Canino, su Sky il segreto del successo di Valeria Scotti

Travolgente, ironico e sempre sorridente. Sono in molti a ricordare Fabio Canino nelle vesti di inviato delle Iene, ma soprattutto come il conduttore del fortunato Cronache Marziane. Eppure, dopo anni di fedeltà dimostrata alla giovane Italia 1 e una parentesi poco fortunata in Rai con il flop di Votantonio, Canino ha scelto di iniziare una seconda vita artistica su Sky.
Il suo attuale programma, Celebrity - The talent show, in onda dal martedì al giovedì in seconda serata, è un viaggio alla scoperta del successo. Più di cento gli sfidanti tra danza, canto lirico, circo e magia in questo grande laboratorio televisivo.

Come nasce Celebrity?
«Non avevo mai condotto un talent show. Mi ha convinto il direttore di rete spiegandomi che potevamo farlo a modo mio ovvero dando spazio a tutti. Perché in televisione può andarci davvero chiunque. Preferisco non conoscere i candidati prima del programma, ma vederli direttamente in puntata con la giuria e con l’ospite celebrity per avere l’effetto sorpresa.
All’inizio immaginavo un livello piuttosto basso di bravura. Invece abbiamo scoperto che c’è tanta gente che ha del talento, ma non ha la possibilità di dimostrarlo solo perché non è ventenne, bello e con gli occhi azzurri».

Perché tanta sete di notorietà in giro?
«Perché la nostra società fa credere che chi va in televisione è migliore di chi non ci va. Spesso non si pensa al fatto che per arrivare a fare qualcosa in tv occorre avere un eventuale talento e le carte in regola, cosa che pochi hanno in questo momento»

In queste settimane sei uno dei giurati di Ballando con le stelle. Cosa spinge un personaggio dello spettacolo a misurarsi in situazioni particolari e in discipline che non appartengono alla sua professione?
«Spesso è dovuto alla voglia di mettersi alla prova, di voler giocare. Ballando con le stelle è un contesto elegante e di classe rispetto ad altri reality dove si può essere soggetti a figuracce. Poi c’è anche chi va lì perché ha da pagare un mutuo. Ma è comunque un programma che dà la possibilità di mostrare forse l'aspetto più simpatico e meno serioso della propria personalità».

C’è differenza nel modo di lavorare nella tv satellitare rispetto alle grandi reti?
«Sul satellite sei più libero di fare e di dire quello che vuoi. Il pubblico che sceglie questo tipo di rete è perché ha voglia di vedere un prodotto diverso. E poi non c’è lo stress continuo della gara di ascolti. Hai infatti la possibilità di sperimentare e di correggere degli aspetti in corso d’opera. Un’opportunità che non c’è nella tv generalista».

Sei anche una delle voci più seguite alla radio. Attualmente lavori su Radio Montecarlo. Tra le tue tante attività dove ti senti a più agio?
«Certamente in radio, al 100 per cento. Lì non occorrono abiti o trucchi particolari. E la gente ti ascolta senza farsi distrarre dall’immagine. Alla radio c’è solo la tua voce e quello che dici, nel bene e nel male».

Prima di arrivare al grande pubblico della tv, hai studiato recitazione e sei stato un autore e attore teatrale. Qual è stato il tuo primo "quarto d’ora di celebrità", secondo l'accezione di Andy Warhol?
«Ancora non è arrivato (ride, ndr). Ho avuto 3 minuti e mezzo di celebrità con Cronache Marziane che mi ha fatto conoscere al pubblico più grande ma il quarto d’ora di notorietà devo ancora viverlo».

Uno sguardo al passato. C’è un personaggio, un programma che hai amato?
«Mi è sempre piaciuto Corrado e il suo modo di fare televisione in maniera ironica ma elegante. E poi tutti i grandi spettacoli del sabato sera. Milleluci, ad esempio, è nel mio cuore».

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CULT The Dopes, i cartoni animati viventi del web di Valeria Scotti

Ricordano vagamente le imprese di certi programmi americani, dove stuntmen professionisti si lanciano in sfide diseducative e a rischio di incolumità. Ma in questo caso siamo in Italia, e i protagonisti sono quattro ragazzi.
Latta, Nobu, Doc e Cla, 21 anni a testa, sono i The Dopes, letteralmente I Cretini. Dal 2003 il gruppo si manifesta nell’hinterland milanese con apparizioni divertenti e talvolta assurde. Complici un po’ di sana follia e i video pubblicati in rete.
L’ultima trovata? Pochi giorni fa, sulla Linea 1 della metropolitana di Milano, dove uno dei The Dopes si è trasformato in uno spogliarellista. Ironica caricatura della ballerina di lap dance, appartenente al progetto Sickgirl, che lo scorso anno movimentò i viaggiatori in una Milano by night.
Luca, portavoce dei The Dopes, ci ha raccontato qualcosa di più.

Come nasce il gruppo?
«Ci conosciamo da sempre, siamo coetanei oltre che amici. Abbiamo iniziato a esibirci nel nostro palchetto sotto casa, a Mazzo di Rho. Cose di poco conto, eppure crescendo siamo riusciti a trasformare tutto ciò quasi in una professione».

Ma nella vita non siete solo Dopes…
«Infatti io mi occupo di montaggio video, Claudio studia per diventare infermiere, Daniele fa il commesso mentre Davide lavora e va a scuola».

Come partono queste vostre “gesta”?
«Solitamente ci incontriamo per parlarne e si decide tutti insieme. Per l’organizzazione, ci muoviamo sempre con tre telecamere digitali. Possiamo agire anche quando siamo in giro per motivi personali. Basta che all’improvviso scatti l’idea».

E la ripresa della metro?
«Avevamo deciso di farla prima di salire in metropolitana e per questo motivo avevamo portato con noi le telecamere. Sapevamo infatti che Claudio si sarebbe esibito in uno spogliarello. L’idea è partita per essere un video dei nostri, come tutti gli altri, ma poi ha scatenato clamore tra i mass–media. La gente che era sulla carrozza della metro è rimasta sorpresa anche se ormai è semi abituata a questi atti in pubblico».

Nel vostro curriculum vantate varie apparizioni su Mtv. Come è andata?
«Siamo stati più volte a TRL. Ci hanno accolto sempre bene anche se spesso ci siamo trovati di fronte a persone stranite e un po’ impaurite. Temevano che all’improvviso, in diretta tv, ne avremmo combinata una delle nostre».

Come reagite alle critiche di chi vi accusa di invitare all’autolesionismo, di essere un pessimo esempio per gli adolescenti?
«Rispondiamo dicendo che ci divertiamo in un modo diverso. Nei video che giriamo è evidente che, in qualunque nostra iniziativa, non ci facciamo mai male. Siamo quasi dei cartoni animati viventi. Naturalmente invitiamo tutti a non imitarci. Infatti noi siamo abituati da un po’ di anni a fare certe stranezze. Sappiamo dunque come agire senza alcun tipo di pericolo per noi e per chi ci sta accanto. Proprio come i veri professionisti».

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DONNE Storia di Caterina, madre coraggio siciliana di Antonella Lombardi

Caterina Somellini è una madre coraggio. Nel 1995 un commando composto dal boss Leoluca Bagarella, dal pentito Giovanni Brusca e dal capomafia di Partinico, Vito Vitale, decide di uccidere i suoi figli, Giuseppe e Giovanna Giammona. I corleonesi sospettano che stiano tramando un piano di morte ai danni dei figli del boss Totò Riina, uno dei quali, Giovanni, è stato condannato all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio, la mente del commando.

A poco più di un mese distanza, dunque, la sentenza di morte viene eseguita: Giuseppe Giammona viene ucciso nel suo negozio di abbigliamento il 25 gennaio del 1995, mentre Giovanna viene assassinata il 28 febbraio. I killer la uccidono mentre si trova in auto con il marito, Francesco Saporito, che muore durante l’agguato.

Ma all’interno della macchina è presente anche Caterina con due bambini, i figli della coppia: uno, di 4 anni, che dormiva nel sedile posteriore e che miracolosamente si salva, e l’altro, di appena un anno e mezzo, che la donna teneva in braccio nel sedile anteriore e che ha protetto dalla sparatoria facendo scudo con il proprio corpo.

I due bambini adesso sono orfani, ed è Caterina che, dopo averli salvati con il suo gesto, li accudisce. Ma la donna si è spinta oltre: ha deciso di fare causa a quei sicari e ha chiesto due milioni di euro come risarcimento a Bagarella e Brusca. I danni che saranno eventualmente liquidati nella causa civile saranno pagati con il fondo di solidarietà per le vittime della mafia, alimentato dai beni confiscati al boss. E’ caparbia Caterina, e il suo coraggio continua a mostrarlo anche adesso che ha deciso di non voler andare via da Corleone, dove vive. Una madre e una nonna coraggio.

A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare?”. Diceva Giuseppe Fava, giornalista e fondatore della prima rivista antimafia, I Siciliani, e ucciso dal clan mafioso dei Santapaola nel 1984. E Caterina, che si era già costituita parte civile al processo penale, lo sa, e intanto aspetta, con coraggio e ostinazione.

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TELEGIORNALISTI Clemente Mimun: la conduzione non è tra le mie passioni di Nicola Pistoia

Pacato, pignolo e a tratti pungente, il neo direttore del Tg5 Clemente J. Mimun ci regala un’intervista esclusiva. E a pochi giorni dalla scomparsa del grande Enzo Biagi, Mimun lo ricorda così. «Abbiamo parlato tante volte e gli ho fatto un'intervista di novanta minuti sulla sua vita che rimane forse il più bel documento tv che racconti di lui. Mi ha onorato dei suoi consigli e qualche volta delle sue confidenze. Era come lo conosciamo, prendere o lasciare. Condividevamo la data di nascita, il 9 di agosto, e per vent'anni l'ho sempre chiamato per fargli gli auguri. Un grande e indimenticabile italiano».

Ci spiega l'esigenza di rinnovare il Tg5?
«Di fronte alle mille novità tecnologiche utili a realizzare meglio il nostro telegiornale, era un passaggio obbligato. Il nuovo studio, grande e luminoso, è in grado di essere alimentato con qualsiasi fonte multimediale. A mio avviso è molto gradevole, al punto da accompagnare l'ulteriore crescita del Tg5 in termini di qualità e ascolti».

Come mai la scelta di tornare in video a condurre un tg?
«Avendo promosso il cambiamento con l'aiuto determinante dell'azienda, era doveroso che mi facessi carico del collaudo. Tutti sanno però che la conduzione non è tra le mie passioni, quindi è un lavoro che farò per un periodo limitato».

Secondo lei è più difficile fare del buon giornalismo in una televisione pubblica o in una rete privata?
«La Rai, che è una grande azienda cui mi legano ricordi fantastici, è al centro di mille pressioni. Al Tg5 c'è sicuramente più libertà, anzi la libertà è il nostro valore aggiunto».

C'è qualcosa di cui si vergogna nella sua carriera?
«Ho lavorato moltissimo e quindi ho fatto anche degli errori, ma sempre in buona fede. Tra le mie abitudini non c'è quella di essere forte con i deboli e debole con i forti. Non so se alcuni tra i miei critici potrebbero dire lo stesso».

Che rapporto ha con Stefano Campagna e cosa ha pensato della decisione di uscire allo scoperto dichiarando la sua omosessualità?
«Ho assunto Stefano Campagna dopo anni e anni di precariato perché è un professionista esemplare e una persona davvero per bene. Quel che pensa in politica, la squadra per cui fa il tifo, le sue preferenze sessuali, sono affari suoi. E' libero di fare e pensare quel che crede, ci mancherebbe altro».

Dopo diversi anni, cosa risponde alle critiche del centrosinistra che l’accusarono di condurre il telegiornale in maniera troppo favorevole all'allora governo di centrodestra?
«Basta guardare i tg Rai di oggi e alcuni programmi d'approfondimento per capire dove è sempre stata la faziosità. Le critiche della sinistra fanno parte delle regole d'ingaggio. Quando stanno all'opposizione, considerano i tg una vergogna. Quando governano loro, i tg sono belli ed equilibrati. Ma le bugie hanno le gambe corte».

Cosa pensa della "premiata ditta" Travaglio-Santoro?
«Distinguerei Michele che è un eccellente professionista di cui non condivido faziosità ed eccessi».

Un sogno nel cassetto da realizzare?
«Veder felice la mia famiglia a cominciare da mia moglie che è una bravissima giornalista. E poi vorrei che i miei figli crescessero in un’Italia migliore».

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SPORTIVA Salvatore Biazzo presenta il suo “Dizionario del giornalista” di Mario Basile

Telecronista e volto di Novantesimo minuto. Così il grande pubblico ricorda Salvatore Biazzo, storico giornalista della Rai. Alla tv di stato ci arrivò ventisette anni fa, dopo gli inizi al quotidiano Roma.
L’esperienza maturata in questi anni l’ha portato a scrivere Dizionario del giornalista: 525 pagine in cui sono raccolti tutti i termini, tecnici e non, propri del linguaggio giornalistico.
Telegiornaliste l’ha incontrato alla presentazione dell’opera, tenutasi martedì scorso all’Università di Salerno.

Dottor Biazzo, quanto è cambiato il giornalismo rispetto a quando ha cominciato la sua carriera?
«E’ cambiato radicalmente, in maniera profonda. Io ho cominciato quando i giornali si stampavano con la cosiddetta “tipografia a caldo”, quando si utilizzava il piombo fuso. Da allora ne è passato di tempo: oggi si usa la “tipografia a freddo” e la fotocomposizione. Invece, quando iniziai a lavorare in tv con la Rai, le pellicole che si adoperavano erano in bianco e nero e “a sviluppo rapido invertibile”. Poi non solo ho assistito all’avvento dell’analogico, ma anche del digitale».

Lei è noto al grande pubblico come uno dei volti della storica trasmissione Novantesimo minuto. Come mai, pur avendo grosse potenzialità, in Mediaset un programma simile non ha avuto grande successo?
«Perché la Rai continua, nonostante tante difficoltà, a mantenere un suo prestigio. Ci sono storie che hanno fatto la leggenda di questa azienda, volti che hanno fatto la storia del giornalismo televisivo. Proprio quest’anno ricorre l’anniversario della scomparsa di Beppe Viola, uno dei grandi del giornalismo radiotelevisivo e sportivo. Viola è stato per noi tutti non solo un amico e collega, ma anche un grande maestro. Forse, proprio il giornalismo sportivo ha prodotto il meglio: se pensiamo a Enzo Biagi che ha esordito seguendo il Giro d’Italia, o a Gianni Brera con tutto quello che ha significato per il mondo dei linguaggi della nostra professione, restiamo veramente sbalorditi».

Vuol dire ancora tanto, quindi, lavorare per il servizio pubblico…
«Sì, io credo che significhi ancora tanto. Poche settimane fa sono stato ospite di Simona Ventura a Quelli che il calcio e… ed erano presenti due generazioni di quelli che hanno fatto Novantesimo minuto. Io, nonostante la mia età, appartengo alla seconda. Noi ci trovammo di fronte dei colleghi che pensavano a Novantesimo minuto, in regime di monopolio, come ad un teatrino. Dovemmo cambiarlo perché era arrivata la concorrenza, ovvero Mediaset – all’epoca si chiamava ancora Fininvest – che aveva volti nuovi, giovani che sapevano il calcio e lo studiavano sugli almanacchi. Noi subentrammo e facemmo la fortuna di Novantesimo minuto: una trasmissione che ha abituato anche il pubblico femminile a seguire lo sport».

Ha seguito per lungo tempo le vicende del Calcio Napoli ed ha dedicato un libro all’ingegner Ferlaino, storico presidente della società. Nonostante i grandi risultati raggiunti, i tifosi azzurri non ne conservano un grande ricordo. Crede che sia un atteggiamento ingeneroso?
«Quel libro, che si intitolava Il mio Napoli, fu una confessione, anche per certi versi emotivamente forte, da parte di Ferlaino. Credo che il tempo servirà a rivalutare il suo operato. Ha dato tantissimo al Napoli e ne ha anche ricevuto, ma se si dovesse fare un bilancio, credo sia a favore dei tifosi e del club azzurro».

Non c’è solo lo sport nella sua carriera. Da diverso tempo cura, con Silvio Luise, Nea Polis, la rubrica del tg regionale campano dedicata a internet e alle nuove tecnologie. Crede che il web possa essere la nuova frontiera del giornalismo?
«Sicuramente. La parola internet è l’unione di un termine latino e di uno inglese. Questo, secondo me, rappresenta metaforicamente la trasformazione della nostra professione. Inoltre, nella presentazione del mio Dizionario del giornalista, dico che manca una parola, ovvero “sesto potere”. Noi eravamo rimasti al quarto e al quinto, cioè a quello della stampa e della tv. Sesto potere, invece, è una parola nuova conosciuta un mese fa grazie a Beppe Grillo che ha cominciato a parlare attraverso il blog e poi nelle piazze. Grillo è un blogger e perciò ci si chiede se il web possa costituire un sesto potere».

Parliamo infatti del suo ultimo libro, Dizionario del giornalista. Com’è nata l’idea di scriverlo?
«Mi sembrava che ci fosse un vuoto. Quando sono intervenuto in qualche università o in qualche scuola, è capitato che qualcuno mi abbia chiesto il significato di un termine proprio del giornalismo. A volte io stesso, rispetto alla specificità di esso, non riuscivo a dare una spiegazione soddisfacente. Né per me, né per chi mi aveva posto la domanda. Allora ho iniziato a raccogliere tutte le parole che fanno parte del linguaggio proprio di noi giornalisti che non è esatto definire “giornalese”, ma è semplicemente la lingua parlata nelle varie redazioni. E’ un lessico che si arricchisce e viene contaminato dal cinema, dalla pubblicità, da internet. A volte ci arrivano parole che si presentano con oscura arroganza, per esempio “Chi è un blogger? Perché parla male di noi?”»

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