Telegiornaliste
anno II N. 35 (67) del 2 ottobre 2006
Angelo Macchiavello, giornalista, non eroe di
Giuseppe Bosso
Giornalista professionista dal 1994,
Angelo Macchiavello è entrato nella redazione di Studio Aperto dieci
anni fa.
Per il tg di Italia1 segue i maggiori fatti di cronaca ed è
inviato di guerra.
E' stata lunga la strada fino a Studio Aperto?
«Abbastanza. Dopo gli inizi in cui mi occupavo di realizzare
documentari sulla natura e sui popoli lontani, partecipai alla nascita dei tg
Mediaset quando individuai in
Studio aperto quello che poteva fare al caso mio, in
quanto aveva bisogno di gente disposta a viaggiare molto».
Per antonomasia Italia 1 è l'emittente dei giovani e
anche il suo telegiornale è fatto su misura. In cosa vi differenziate dagli
altri notiziari?
«Abbiamo una struttura particolare, andando in onda in orari
diversi rispetto agli altri tg. Il pubblico dell'edizione delle 12.30 è
abbastanza variegato, mentre quello dell'edizione serale è soprattutto giovane,
per questo cerchiamo di trattare gli argomenti in maniera diversa, come la
politica. Diamo molto spazio alla cronaca e ai personaggi. Soprattutto però
cerchiamo di dare voce alla gente, come è capitato ultimamente per la vicenda
dei "Bambi" del Piemonte, una campagna che direi ha funzionato benissimo. Penso
sia una formula vincente, visto che gli ascolti, a quanto so, da anni sono
costantemente in crescita».
Nel tuo
blog
sul sito di Studio aperto racconti l'esperienza molto
forte che hai vissuto a Bassora durante la guerra. Cosa hai cercato di
trasmettere ai visitatori del sito?
«Quando tornai dall'Iraq rimasi allibito nel vedere come la
gente che incontravo per strada mi dicesse di essere stata in pensiero per me
mentre mi vedeva lì, quasi fossi un eroe, cosa che non sono. Per questo ho
voluto raccontare la mia esperienza cercando di far capire alla gente che i
giornalisti che si recano nelle zone di guerra non sono eroi. Per me essere
giornalista è appunto raccontare ciò che vedo coscientemente».
Quali sono le caratteristiche per poter affrontare
esperienze come questa, oltre ovviamente alla grande predisposizione per il
viaggio anche in zone a rischio?
«Occorre molta curiosità. Andare a raccontare la guerra non
è certo facile e di solito il direttore di telegiornale sceglie colui che reputa
il migliore. C'è sicuramente paura, ma il fatto che ti venga chiesto è indice
che c'è fiducia in te, che si crede che tu abbia una marcia in più. Ho fatto,
come puoi vedere, molta gavetta, una cosa che i giovani di oggi non amano molto.
Per il resto, ti ripeto, occorre una grande curiosità e predisposizione al
viaggio e una voglia infinita di imparare, che io definisco "sindrome di
ornitologo".
Sicuramente andare in zone di guerra è molto toccante, ma
io, in verità, considero l'esperienza più profonda e toccante di quelle di cui
mi sono occupato quella della morte di Papa Giovanni Paolo II, molto più
profonda di andare a seguire una guerra per poi essere considerato dalla gente
un eroe».
Di fronte a esperienze atroci come appunto la guerra in
Iraq o a fatti di cronaca dolorosi, quale deve essere l'atteggiamento giusto per
il buon giornalista nell'adempimento del suo dovere nei confronti del pubblico?
«Distaccato. Se sei un cronista devi raccontare i fatti per
come si sono svolti senza farti coinvolgere, altrimenti rischieresti di
sbagliare, sia, ad esempio, nell'occuparti di un delitto, provando pena per
l'assassino e convincendoti che sia innocente o viceversa che sia colpevole.
E'dura, ma ormai, purtroppo, con queste vicende ho fatto il callo».
Hai lavorato anche con Ambrogio Fogar. Che ricordo hai di
lui?
«Un grande uomo che aveva un grande problema: non era
simpatico a tutti, cosa che lo faceva soffrire non poco. Gli devo molto, perché
avevo lavorato già sulla carta stampata con lui e quando fui assunto a Mediaset,
nel 1989, mi diede un grande aiuto. Ricordo che una volta l'Espresso
pubblicò un articolo in cui era indicato tra i personaggi
più antipatici della televisione, e lui ci rimase molto male. Mi chiese: Ma
sono davvero così antipatico?. No, non era affatto antipatico, anzi, era una
persona molto simpatica malgrado non lo desse a intendere».
Se tua figlia volesse intraprendere la tua strada, come
ti porresti nei suoi confronti?
«Per mia figlia questo problema non si pone, visto che il
suo sogno è fare l'architetto e per questo farà il liceo. Altrimenti sarei stato
molto felice se avesse voluto seguire la mia strada, così come io ho seguito
quella di mio padre, morto purtroppo quando ero molto piccolo e che quindi non
mi ha potuto essere d'aiuto così come avrei potuto esserlo io con lei
(attenzione, ho detto aiutare, non raccomandare!) nel darle i giusti consigli
sul mestiere che reputo il più bello del mondo, ma che al tempo stesso ti pone
davanti a sacrifici e rinunce. Soprattutto dal punto di vista affettivo, e te lo
posso dire io che ho alle spalle due divorzi e una convivenza, nonché un altro
figlio in arrivo, a gennaio, a cui metterò il nome di mio padre. Che sia lui la
terza generazione dei Macchiavello?».