Telegiornaliste anno XIV N. 12 (559) del 28 marzo 2018
Giampiero Marrazzo, giornalista di ieri e di oggi
di
Silvia Roberto
Figlio del grande giornalista Giuseppe Marrazzo, l’autore di
romanzi, noto per le numerose inchieste sui temi sociali.
Conosciamo insieme uno dei volti più amati del canale
televisivo italiano all news Mediaset
Tgcom24, Giampiero Marrazzo. Sogni, progetti,
aspirazioni e consigli in un viaggio intorno a quella che
lui definisce “chiamata”.
Quando e come è iniziato il tuo percorso da giornalista?
«Fin dai tempi dell’Università a Bologna cominciai a
collaborare per un mensile che si occupava di comunicazione
e io, in particolare, scrivevo di politica. Salvo poi
essermi ritrovato a vent’anni a fare un piccolo scoop di
cronaca: fu nella giornata infausta dell’uccisione del
giuslavorista Marco Biagi. Quella sera, seguendo le sirene
della polizia, fui tra i primi ad arrivare sul luogo del
delitto, e riuscii a parlare con uno dei passanti che aveva
visto il cadavere di Biagi. La Rai, che aveva l’operatore ma
non ancora il giornalista, riprese la mia intervista e la
mandò in onda. Nonostante la tristezza per quanto accaduto,
per me fu l’ennesima dimostrazione di quanto nella vita non
avrei voluto far altro che il giornalista».
Perché hai scelto di fare il giornalista?
«Quando come me il mestiere ti viene passato quasi a livello
amniotico e lo vivi dai primi passi che muovi nel mondo,
davanti a te hai due scelte: o ne rimani incantato e te ne
“ammali”, o scegli per te una strada che non ha niente a che
fare con la professione. Per me è stata una sorta di
“chiamata”, alla quale ancora oggi non riesco a non
rispondere. Perché viste le tante difficoltà legate alla
nostra professione, o la ami così tanto da riuscire a
superarle con la forza della passione, o sei costretto a
esserne sopraffatto e lasciare che vincano loro, portandoti
su altre strade».
Cosa ti affascina di questa professione?
«Sono sempre stato convinto che la nostra, se non fatta come
impiegati con orari d’ufficio, non sia una semplice
professione ma una religione in cui credere: la notizia. E
solo se si ha una fede profonda e messa in discussione ma
mai abbandonata, si può pensare di riuscire a fare bene il
proprio lavoro. Credo che non esista nulla che possa
equiparare il grado di soddisfazione che può dare
un’inchiesta, un approfondimento, l’essere il primo ad
arrivare sulla notizia. Senza avere necessariamente
l’ossessione dello scoop, ma la convinzione che nulla sia
più bello che informare gli altri; è una grande
responsabilità che nel corso del tempo e con il passare
degli anni forse la nostra professione sta perdendo».
Quali sono i pro e i contro di questo mestiere?
«Da una parte l’evoluzione del web e dei social potrebbero
far pensare che a dare la notizia non debba essere
necessariamente un giornalista. Ma è una convinzione errata,
perché la differenza tra noi e una qualunque altra persona
che scrive una notizia su un tweet è l’autorevolezza della
fonte. Noi abbiamo degli obblighi professionali e
deontologici a cui rispondere, gli altri no».
Hai pubblicato da poco un libro Respubblica. Cosa
hai voluto raccontare e quale è il messaggio che hai voluto
mandare?
«Prima di tutto che se si considera la Prima Repubblica come
il male assoluto si fa un grande errore. Sicuramente molte
cose sono andate per il verso sbagliato, ma è impensabile
gettare via l’acqua sporca con i panni. Ci sono state grandi
conquiste di libertà, a partire dalla Costituzione fino allo
Statuto dei lavoratori. Ma soprattutto ho voluto ascoltare
dalla voce di chi era protagonista in quel periodo come
fossero andati realmente i fatti, visto il tempo che è
passato da quel 1994. E ho chiesto loro di fare anche delle
analisi predittive sul futuro della politica italiana, e
sembrano proprio averci azzeccato».
C’è un episodio, un evento della tua vita professionale
dove hai detto amo il mio lavoro?
«Ho fatto un’inchiesta sulla strage di Ustica, in cui sono
riuscito a scoprire nuovi elementi che hanno portato a
verità processuali. E quando ho intervistato alcuni dei
familiari delle vittime di quel Dc9 ho visto nei loro occhi
un ringraziamento per il lavoro svolto. Non credo di essere
riuscito a scalfire il loro dolore, ma anche solo averlo
lenito per un attimo è già un grande risultato».
Hai un mentore, un ideale, una persona del passato o
anche del presente che hai seguito, ammirato e imitato tanto
da farti dire voglio essere come lui?
«Quando vuoi fare il pescatore e tuo padre è il capitano
Achab è difficile non averlo come esempio. Quindi non sono
dovuto andare molto lontano da casa per trovare un mio
mentore ideale: ho sempre rivisto i suoi servizi e il suo
modo di condurre le interviste. L’ho interiorizzato e l’ho
fatto mio, per non essere una brutta copia di mio padre, ma
l’evoluzione naturale di un modo di fare giornalismo, che
una volta veniva ricondotto a Giuseppe (Joe) e oggi, spero,
a Giampiero Marrazzo. Se ci sono riuscito o se ci riuscirò,
lascio che siano altri a dirlo».
Se potessi tornare indietro sceglieresti la stessa strada
lavorativa? O cambieresti qualcosa?
«So che potrà sembrare quasi arrogante, ma non sono persona
da avere rimpianti, forse qualche rimorso. Sicuramente avrò
anche sbagliato, ma solo chi non fa non sbaglia».
Quali sono gli ingredienti fondamentali per essere un
bravo giornalista?
«Riprendendo le parole di un grande giornalista italiano:
per essere un bravo giornalista bisogna essere amato da due
donne: la signora tenacia e la signora fortuna. Ecco se
sei amato da loro hai buone possibilità».
Consigli per gli aspiranti giornalisti?
«Leggere, ascoltare e vedere tutto, senza nessuna
preclusione, né culturale né morale. I collegamenti
“ipertestuali” tra le notizie sono infiniti e non si sa mai
quale informazione, anche la più becera, può farti arrivare
prima degli altri».
Hai dei progetti futuri ai quali stai lavorando?
«Sto lavorando ad un nuovo progetto televisivo, completando
la post produzione di un’inchiesta che ho iniziato tanti
anni fa e, visto il successo di vendite di
Respubblica,
il mio editore mi ha chiesto di iniziare a pensare ad un
nuovo libro che racconti questa volta la Seconda Repubblica,
per poi magari arrivare alla Terza. Anche se per questa
sembra esserci ancora tempo...».