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Telegiornaliste anno II N. 11 (43) del 20 marzo 2006


MONITOR Maria Concetta Mattei, parla la campionessa di Silvia Grassetti 
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Sabato 11 marzo, nella prestigiosa cornice di Saxa Rubra, ha avuto luogo la premiazione del campionato di Telegiornaliste: l'editore Rocco Ventre e i redattori Antonella Lombardi, Mario Basile, con il direttore editoriale, hanno consegnato la targa alla campionessa Maria Concetta Mattei negli studi del Tg2. Maria Concetta ci ha rilasciato, nell'occasione, un'intervista franca e schietta.
Vorrei farti una domanda sessista: secondo te sono più brave le donne o gli uomini a fare le giornaliste e i giornalisti, anche televisivi?
«Io dico sempre che sono le persone, non si possono fare delle categorie così, di genere. Però in linea di massima apprezzo molto la sensibilità che le donne sanno esternare. Io penso che, senza essere troppo coinvolgenti, perché non è giusto nemmeno mettere le proprie sensibilità e le proprie emozioni come filtro regolarmente, ma credo che sia anche giusto che le donne possano esprimere quella emotività che accompagna tutte noi quando leggiamo e scriviamo di notizie soprattutto che riguardano il sociale, il mondo dell’infanzia...
E penso che gli uomini siano molto più frenati: non che non provino le stesse emozioni, ma per abitudine e per cultura vengono abituati a non esternare. Io la trovo una cosa naturale, e forse gli uomini sono più rigorosi e sono anche più severi con se stessi. Io invece apprezzo quella umanità che le donne riescono spesso a dimostrare. Ma non tutte, e anche non tutti gli uomini sono così severi e così rigidi, così seri».
In effetti, tu sei una telegiornalista che lascia trasparire le sue emozioni, si vede dallo sguardo: parlando del terremoto di San Giuliano, ad esempio, non ci sono sfuggiti i tuoi occhi lucidi. Ma anche dal tono di voce, che delle volte si incrina...
«Io non riesco a mettere un filtro ulteriore: penso che la professionalità è indispensabile, ma credo che sia anche disumano impedirci di coinvolgerci, perché siamo persone, appunto, non siamo macchine. Sennò basta Televideo... questa è la differenza».
L’ultima domanda che ti vorrei fare è relativa al rapporto tra colleghi e colleghe in Rai, o per la tua esperienza: gira su due piani differenti, cioè gli uomini hanno più potere decisionale rispetto alle donne? O non è più così, lo era prima? E c’è collaborazione?
«È una domanda molto attuale perché c’è un movimento, dopo che sono state approvate le quote rosa per quanto riguarda la politica: un movimento anche all’interno della Rai; le giornaliste si stanno aggregando, perché i numeri parlano molto chiaro: le donne giornaliste sono tante, lavorano molto, però purtroppo, se guardiamo i numeri, i posti di comando e di potere sono quasi esclusivamente di competenza maschile. Quindi pensiamo che sia giusto che più donne partecipino ai processi decisionali. Un po' perché io personalmente sono convinta che le donne abbiano un’alta capacità di problem solving, perché lo fanno quotidianamente (ride, ndr) nella loro giornata. Secondo me sono molto efficienti. Anche in una redazione, in un luogo di lavoro, sono molto abili nel dirimere questioni pratiche, non soltanto questioni professionali, strettamente attinenti alla scrittura di un pezzo. Quindi penso che abbiano tutte le capacità per farlo, è soltanto che le donne forse sono più lontane dai luoghi decisionali dove si fanno le scelte e gli incarichi».
Ma sono lontane perché non riescono ad avvicinarsi in quanto tra di loro non riescono a creare solidarietà?
«Un po' forse questo: non c’è una grandissima solidarietà tra le donne, e forse questo è un momento storico in cui si potrebbe creare la solidarietà e sarebbe giusto che le donne trovassero più forza e più coesione tra di loro. E un po' perché siamo meno competitive: io credo che siamo più severe con noi stesse, quindi tendiamo a migliorarci sempre, però poi alla fine non abbiamo questa voglia di prevaricare sugli altri. Spesso il potere è inteso in questo senso. Invece io credo che le donne potrebbero portare a un potere molto più di collaborazione e meno di sopraffazione. Sarebbe bello».

CRONACA IN ROSA Un Paese incivile di Silvia Grassetti

Lunedì 13 marzo, 20.30. Davanti all’ufficio postale di Crevalcore, provincia di Bologna, i vigili urbani contano: «Dodici». Uno slavo si avvicina, mostra un documento e un pezzo di carta con scritto il suo nome e il numero appena chiamato. C’è una piccola folla tutto attorno, capannelli di persone accomunate dall’etnia e da una speranza: ottenere un permesso di soggiorno. Per sé, per un familiare, un parente.
Prima di arrivare a questo stato di calma apparente e all’intervento delle autorità c’è stata una rissa.
Io sono qui, straniera per gli immigrati, a guardare cosa succede in Italia quando è il momento di applicare la Legge Bossi Fini sui flussi dei lavoratori extracomunitari per il 2006. Quest’anno 170.000 persone potranno venire nel Belpaese ottenendo un permesso di soggiorno per lavoro subordinato.
I richiedenti, solo teoricamente i datori di lavoro, per ottenere queste “risorse umane” hanno dovuto compilare, il mese scorso, i moduli di un kit predisposto dal ministero, del costo di quindici euro a domanda, da inviare domani con raccomandata agli uffici preposti.
Le Poste accettano le raccomandate a partire dalle 14.30 del 14 marzo, martedì. La gente ha iniziato a mettersi in coda il sabato sera.
Un milione e mezzo i kit distribuiti per 170.000 “posti” disponibili. A venti euro ciascuno, rifletto, è una piccola manovra economica.
Di imprenditori, attorno a me, non ce ne sono. Sono pochi anche gli italiani, se si escludono i vigili che stanno facendo l’appello e i volontari della pubblica assistenza locale, con il loro pentolone di a bollire sul fornello da campo.
Sono l’unica, credo, che non si sente partecipe dello stato d’animo generale. C’è speranza negli occhi degli immigrati, una luce particolare: gente che sospira, sorride, in qualche caso scherza. Unita da un senso di attesa leggero, quasi impalpabile.
Forse non sanno che 6.200 uffici postali abilitati per 170.000 regolarizzazioni vuol dire 27 domande accolte in ogni ufficio. Le prime. Una goccia nell’oceano. Migliaia di speranze che andranno deluse.
Non ci pensano, i miei compagni di attesa, e non so se per mancanza di informazioni o per una forma di fiducia primaria nel Paese civile che dovrebbe essere l’Italia.
Eppure molti sono al secondo tentativo, dopo quello andato male nel 2005.
Li riconosco perché sono i meglio attrezzati: seggiola pieghevole, coperta, qualcosa da mangiare.
Anch’io ho portato una vecchia coperta, una bottiglia d’acqua, un taccuino e una penna. Fa freddo, ieri è nevicato: dopo qualche riga ho le dita intirizzite. Faccio frequenti pause; quando smetto di scrivere e alzo lo sguardo per cogliere le impressioni di questa strana nottata, qualcuno mi rivolge la parola o mi coinvolge nei discorsi del capannello più vicino.
Sono una donna e mi tengono d’occhio. Oltre me, solo tre o quattro signore moldave, intabarrate sotto strati di coperte, pressoché immobili, forse tanto pazienti perché abituate dal loro lavoro di badanti.
Un uomo dall’accento meridionale mi racconta che è qui per regolarizzare due amici: quando i vigili urbani hanno distribuito i numeri, a lui è capitato l’80.
Il “numero dodici” che ho notato prima ricorda a quelli che ha intorno che ogni persona può presentare cinque domande. Lui ne ha tre; non è chiaro se si tratti di un invito o di una forma di pubblicità.
I vigili ripetono l’appello ogni ora: chi non si ripresenta, col foglio e il documento, viene depennato dalla lista d’attesa.
Un ragazzo italiano mi dice che col suo numero 36 ha poche speranze di farcela: la fidanzata è brasiliana e l’unico modo che hanno per iniziare a vivere assieme in Italia è fingere che lei gli farà da colf.
L’appello continua. A ogni numero chiamato corrispondono il sorriso dell’immigrato di turno e nuove luci che si accendono negli occhi.
Alì mi racconta che è in Italia da dodici anni e sta in coda per aiutare i suoi familiari: lui fa il saldatore e adesso non trova lavoro facilmente, ma non si lamenta, perché «dal 2003 anche molti italiani sono disoccupati, li incontro all’ufficio di collocamento». Interviene Mohammed, col suo accento bolognese e la padronanza perfino del dialetto: «E’ che a molti manca la voglia ad lavurèr», di lavorare.
Mi avvertono anche sulla situazione davanti agli uffici postali di altre città: «A Bologna si sono accoltellati», «a San Giovanni hanno chiamato i carabinieri»; «uno ha minacciato di spararci, se domani non lo facciam passare per primo».
Non so a cosa sono abituati, loro, nei Paesi da cui provengono: cosa hanno visto e quali condizioni economiche e sociali li hanno spinti a venire in Italia.
Ma in questa atmosfera quasi festante io di perplessità ne ho molte: persone trattate come bestie, indotte alla rissa e all’accoltellamento dal criterio del “chi prima arriva”, costrette a passare due o tre notti all’addiaccio per presentare una domanda che con tutta probabilità non sarà accettata.
La cosa peggiore, però, è guardare in quegli occhi di speranza sapendo che un Paese civile non lo siamo.
Fingiamo di esserlo, mandando gli agenti a dirimere le risse tra poveretti.
E le abbiamo causate noi.
CRONACA IN ROSA Una donna “contro” di Stefania Trivigno

A meno di un mese dalle elezioni politiche del 9 e 10 aprile, molti italiani non sanno ancora a quale dei due schieramenti daranno la propria preferenza. Non c’è da stupirsene perché il Paese va irrefrenabilmente a rotoli su parecchi fronti: dall’economia all’istruzione, dalla disoccupazione ai rapporti con l’estero.
In questa guerra italiana, fatta - fortunatamente – solo di cifre, insulti e polemiche, per qualcuno l’unico modo per restare in piedi è mostrarsi in TV a testa alta. E allora, via ai dibattiti politici, a scontri frontali dove vince chi per primo alza la voce e ha demagogia da vendere. Quasi una kermesse dello spettacolo, da non perdere.
Nelle settimane precedenti lo scioglimento delle Camere, il presidente del Consiglio uscente ha onorato della sua presenza i palinsesti di tutte le reti televisive, Rai e Mediaset, in qualsiasi fascia oraria e in qualsiasi programma, dimostrando sicurezza e facendo la figura di chi sa quello che fa. Sorriso smagliante, postura corretta, mai titubante e risposte sempre pronte: si concordano le domande prima dell’inizio della trasmissione e il gioco è fatto.
Purtroppo la pacchia è finita con l’inizio della par condicio – questa sconosciuta! – che, almeno, ha limitato e diminuito le apparizioni televisive di Berlusconi.
Gli scontri moderati da giornalisti seri hanno spesso provocato nervosismi eccessivi che, a seconda dei punti di vista, hanno reso il programma inguardabile o divertente. Uno degli ultimi in ordine cronologico è lo spettacolo di In 1/2 H trasmesso dalla terza rete Rai domenica 12 marzo.
Il programma condotto da Lucia Annunziata è finito con l'uscita del premier dopo soli venti minuti dall'inizio, perché la giornalista avrebbe dimostrato di avere dei pregiudizi nei suoi confronti.
Lucia Annunziata, dichiaratamente schierata a sinistra, ha forse sbagliato perché è andata troppo a fondo con le domande senza rifarsi alla superficialità di altre interviste. O forse il suo errore, conoscendo bene il quadro politico e la situazione del nostro Paese, è stato che ha saputo dove andare a parare.
La giornalista ha dovuto anche destreggiarsi nelle minacce quando, dalla bocca di Berlusconi è uscita la frase «Lei adesso mi fa parlare altrimenti io mi alzo e me ne vado e questo resterà come una macchia nella sua carriera professionale».
In passato alle minacce del premier sono seguiti i fatti: in cinque anni abbiamo sentito la mancanza di personaggi illustri del giornalismo italiano, come Enzo Biagi e Michele Santoro.
Speriamo che questa volta ci si fermi ad una stizzosa uscita di scena.
CRONACA IN ROSA 5x1000 o 8x1000, serve chiarezza di Erica Savazzi

Da qualche mese si sta parlando con insistenza del 5x1000 previsto dalla finanziaria. Un provvedimento del governo che sta creando confusione tra coloro che stanno decidendo se aderire alla petizione in atto a sostegno della proposta di legge di iniziativa popolare “8x1000 alla Ricerca”. Una proposta che finora ha raccolto 75.000 adesioni online. 5x1000 e 8x1000 alla ricerca sono due iniziative diametralmente opposte. Ecco in cosa differiscono.
Il 5x1000 è un provvedimento temporaneo legato alla finanziaria 2006. Si può devolvere con la dichiarazione dei redditi e ne potranno beneficiare tutte le associazioni di ricerca e di volontariato presenti sul territorio nazionale. L’effetto sarà probabilmente quello di un aiuto a pioggia. Non riguarda né sostituisce la petizione in atto per l’8x1000.
L'8x1000 è un provvedimento duraturo negli anni, disciplinato da una legge del 1985 e indipendente dalle finanziarie varate dal governo. La proposta contenuta nella petizione vuole modificare le norme che disciplinano l’8x1000 inserendo tra i possibili enti a cui devolvere la propria quota la ricerca scientifica pubblica. Lo scopo è fornire alla ricerca un aiuto concreto e consentire ai 22 milioni di contribuenti (60%) che non vogliono scegliere né le religioni né lo Stato, di poter fare una scelta diversa di interesse collettivo.
FORMAT Hitler e le sue donne di Nicola Pistoia

Sei donne affascinanti, ambigue e oscure. Sei personalità così diverse ma, in realtà, così vicine. Sei anime nate e vissute in uno dei periodi più tragici che la storia ricordi. Intorno a loro, un unico uomo, tanto odiato e tanto amato: Adolf Hitler.
History Channel, canale satellitare di Sky, dedica a queste sei donne un documentario che ripercorre le tappe della vita del Führer e il suo rapporto con loro: Eva Braun, Magda Goebbels, Winifred Wagner, Leni Riefenstahl, Zarah Leander e Marlene Dietrich.
Le donne di Hitler, è questo il titolo della serie partita giovedì 2 marzo alle 21.00 e che si dipana in sei puntate, incentrando l'attenzione su ognuna di queste figure che hanno determinato, positivamente e negativamente, la vita del dittatore tedesco.
Protagonista della prima puntata, quasi a voler rendere omaggio alla donna che più di tutte è stata vicino ad Hitler nei momenti di gioia, ma che lo ha anche seguito nel suicidio, è Eva Braun. Moglie per pochi istanti ma amante per tantissimi anni. Accecata dall’amore, lo ha seguito, non consapevole degli orrori legati al nazismo.
Si prosegue con Magda Goebbels, consorte del fidato collaboratore nazista Joseph. Donna forte e determinata, forse l’unica che sarebbe stata in grado di affrontare il Führer.
Il terzo episodio è dedicato a Winifred Wagner, una delle prime donne a perdere la testa per il dittatore. Protagonista della quarta puntata, invece, sarà Leni Riefenstahl, regista tedesca, che ha venduto il suo sapere per la propaganda del regime.
Le ultime due puntate sono dedicate a due donne dello spettacolo. La prima, Zarah Leander, fu la più acclamata cantante del Terzo Reich e convinta nazista. La seconda, ben più importante, l’attrice Marlene Dietrich, che rimase lontana dai corteggiamenti del dittatore nazista e, soprattutto, ostile al regime, tanto da emigrare in America.
Particolarmente interessante potrebbe essere, a questo punto, realizzare un documentario sulle due donne di Mussolini. Da una parte Claretta Petacci, eterna amante del Duce, e dall’altra Donna Rachele, moglie e mamma presente, che ha sempre vissuto nascosta dal marito ma non è stata mai la sua ombra.
Donne di Hitler è una serie inedita per l’Italia e in grado di stuzzicare l’attenzione dei telespettatori. Un coinvolgimento attraverso storie nuove ed emozionanti. Come tasselli di un puzzle che pian piano trovano la loro giusta collocazione, quasi a completare il ritratto di un uomo che rimarrà, purtroppo, impresso nella memoria di molti.
FORMAT Telegiornaliste/i + Telegiornaliste/i – di Filippo Bisleri

Primo gradino del podio per Giorgia Ferrajolo che, da autentica "signora" dell'Olimpico, ha confezionato, in queste settimane, una serie di servizi su Roma e Lazio da incorniciare. A cominciare da quello sui festeggiamenti del derby di marca romanista costati un orologio a mister Spalletti. Bravissima. 9
Assegniamo il secondo gradino del podio ad Anna Maria Chiariello per la brillantezza dei suoi servizi. Non per nulla ha vinto un importante premio giornalistico nazionale di recente. Quando c'è la classe sul campo si vede. E, con Anna Maria, la classe è da vendere. 8
Terzo gradino del podio a Maria Cuffaro del Tg3, che è sempre una delle migliori conduttrici di tg in circolazione. Sobria, mai impostata, agevola il contatto tra la notizia e lo spettatore sia che la notizia sia letta in studio sia che venga data attraverso un servizio. 7
È sul gradino più alto del contropodio per una lieve sbavatura. Parliamo di Simonetta Di Pillo del Tg5, che, nei recenti servizi e conduzioni, ha regalato ottime performance. Cadendo, però, in più di un'occasione, vittima degli accenti o dell'inflessione gergale. La mettiamo nel contropodio, ma ha di poco sfiorato il podio. 7
Resta anche lui nel contropodio, parliamo di Fabio Ravezzani, direttore dei servizi sportivi di Telelombardia. Noto al pubblico per le "bombe di mercato" al Processo di Biscardi, il buon Ravezzani non si smuove da una stiracchiata sufficienza. 6
Quasi quasi possiamo fargli un abbonamento. Parliamo di Aldo Biscardi, che sul gradino più basso del contropodio ci sta come il cacio sui maccheroni. Troppe urla in trasmissione. E sorge una domanda: come ha fatto un tale giornalista a regalarci una tgista doc come Mikaela Calcagno? La scoperta gli fa guadagnare un punto. 5
ELZEVIRO All the invisible children di Nicola Pistoia

Parlare di bambini, nel cinema, è spesso una cosa delicata. Quando poi l’argomento ruota intorno alla loro infanzia, a volte calpestata e distrutta, la delicatezza si trasforma in sofferenza. Ed è proprio questo ciò che traspare dalla pellicola All the Invisibile Children, in uscita nelle sale italiane in questi giorni e che è stata preceduta dal lancio del brano, omonimo, scritto da Elisa e cantato insieme a Tina Turner.
L’idea di realizzare un prodotto cinematografico di alto livello, a metà strada tra film e documento, nasce da un impegnativo progetto, creato dall’Unicef e dal Pam (Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite) con la Cooperazione Italiana allo Sviluppo, che ha come scopo quello di recuperare fondi per tutti quei bambini, definiti “invisibili”, la cui vita è perennemente sospesa ad un filo e che la società tende a dimenticare.
All the Invisibile Children è un film composto da sette episodi, realizzati da altrettanti registi. Padri della cinematografia internazionale, diversi tra di loro, che si sono uniti per dare vita ad un lavoro unico e commovente, fuori dai soliti schemi, e che vede come unici protagonisti i bambini. Affamati, rapinatori per necessità, gonfi di botte, moribondi e, pur sempre con la speranza che qualcosa possa cambiare.
Emir Kusturica, Spike Lee, Ridley Scott e l’italiano Stefano Veneruso sono tra i registi più importanti che hanno sottoscritto il progetto e realizzato episodi in cui la storia si lega a temi scottanti come l’infanzia negata, proponendo, per la prima volta, la visione di un mondo unito dal dolore.
Il migliore degli episodi è senza dubbio l'ultimo, Song Song & Little Cat, del regista John Woo; qui la tenerezza si fonde con un'intima sensibilità.
Un film nel complesso efficace, che emoziona e che ha emozionato gli stessi protagonisti, e che si spera scaldi il cuore della gente, sensibilizzandola maggiormente. E’ importante che venga restituito a questi bambini il diritto all’infanzia che la vita, con le sue vicissitudini, ha negato loro.
Legati al mondo dei bambini, ma con sfaccettature diverse, gli altri due film, in uscita proprio in questi giorni: La guerra di Mario, che affronta il delicato mondo dell’affido minorile, e Il suo nome è Tsotsi, che mostra come la tragica realtà del razzismo, alle volte, può portare a compiere atti ingiusti verso gli altri e verso se stessi. Il film ha già segnato un record: far vincere per la prima volta alla cinematografia sudafricana, l’Oscar come miglior film straniero.
ELZEVIRO XIV Edizione Giornata FAI di Primavera di Antonella Lombardi

Appuntamento con la bellezza, per promuovere l’incontro tra la gente e le proprie radici culturali e ambientali, con la Giornata FAI di Primavera, che prevede sabato 25 e domenica 26 marzo l’apertura straordinaria e gratuita di 410 monumenti in 190 città italiane.
Per la prima volta saranno visitabili, grazie al FAI, oltre 400 monumenti normalmente chiusi al pubblico: dai laboratori del Teatro alla Scala di Milano, che ospitano più di 60.000 costumi di scena, oltre alle scenografie e a uno spazio scenico per le prove perfettamente corrispondente al palcoscenico del Piermarini, all’ eccezionale visita alle sedi museali delle diciassette contrade di Siena, dove sono conservati i palii, alcuni dei quali vere e proprie opere d’arte dipinte da artisti come Renato Guttuso, Mimmo Paladino, Jim Dine, Fernando Botero.
Da Palazzo Giustiniani a Roma, con la sala dove è stata firmata la Costituzione italiana, alla passeggiata nel centro barocco di Ragusa Ibla alla scoperta dei palazzi più rappresentativi del periodo successivo al grande terremoto del 1693.
Tra gli altri itinerari proposti: le biblioteche storiche di Cesena e della sua provincia e le ville e i giardini segreti della Riviera ligure.
Ci sarà anche spazio per altre curiosità e proposte culturali: passeggiate ad hoc, aree archeologiche, borghi, paesi e cerchia di mura che per due giorni saranno a disposizione di tutti i cittadini che desiderino visitarli.
Circa il 50% dei beni è fruibile da persone con disabilità fisica.
Per informazioni è possibile contattare il numero 0141/720850, attivo 24 ore su 24, oppure visitare il sito internet dell'associazione.
TELEGIORNALISTI Moro, giornalista per vocazione di Filippo Bisleri

Abbiamo incontrato Daniele Moro, volto noto del Tg5 fin dai tempi dell’intervento della Nato nei Balcani, per raccogliere, in un’intervista, la sua esperienza professionale.
Come hai scelto di fare il giornalista?
«Credo di essermi accorto di voler fare il giornalista quando ero veramente molto giovane, tra la fine delle scuole elementari e l'inizio delle medie: sono cresciuto in una famiglia nella quale si leggeva molto e si scambiavano opinioni veramente differenti. Lo stimolo a capire era proprio molto forte. Venivamo dalla seconda guerra mondiale, che ha segnato, in casa nostra, i destini di molti, da chi è finito a Dachau poco più che bambino, a chi è andato al fronte con uno schioppo e ben poche idee. E noi, cuccioli del dopo-guerra, a fare i conti tra i racconti dei sopravvissuti che non erano attori del cinema, ma i nostri genitori, zii e nonni».
Cosa ti piace di più della professione giornalistica?
«La cosa più eccitante è vedere il mondo che cambia sotto i miei occhi, senza intermediazioni: la più frustrante è non poterlo quasi mai cambiare».
Quali sono gli argomenti che preferisci affrontare?
«I conflitti, il dolore dei bambini, dei più indifesi: credo di saperli mostrare senza offenderli».
Hai una preferenza per il giornalismo televisivo o ti piacciono anche altri media come la carta stampata o le radio?
«Il giornalismo è come la musica: ce ne sono di tanti tipi e ognuno è affascinante ed offre qualcosa che altri non ti danno».
Nella tua esperienza professionale hai un servizio, un personaggio o un'intervista che più ricordi?
«I personaggi che mi ricorderò sempre sono quelli che soffrivano davanti a me: come Pierre Seel, deportato dai nazisti perchè omosessuale, al quale le SS hanno fatto mangiare dai cani il suo compagno, davanti ai suoi occhi. Ci ha impiegato più di sei ore a raccontarmi una storia che in tv durava otto minuti. O i bimbi di un campo profughi in Corno d'Africa, che riuscivano a cantare con me avendo perso tutto, meno la voglia di vivere».
Chi sono stati i tuoi maestri di giornalismo?
«Uno dei miei maestri è stato Beppe Venosta, uno dei migliori giornalisti italiani(Panorama, Il Mondo, Il Sole 24ore): severo, ironico, coraggioso e molto molto paziente anche con me. Uno che il giorno del matrimonio di Lady Diana scrisse una pagina intera sul quotidiano di Confindustria raccontando i riti, spesso assolutamente ignoti a noi, dello sposalizio di due sconosciuti figli della classe operaia inglese con le sue manie e le sue follie. E in un post scriptum ricordare che: "Lady Diana Spencer, oggi, ecc”: se fosse nato a Londra gli avrebbero fatto un monumento. Al suo funerale, a Milano, eravamo in sei».
Tra colleghi e colleghe chi apprezzi di più?
«Non c'è una graduatoria: apprezzo chi ne sa più di me e più in fretta. Ce ne sono molti».
Molti sono i giovani che vorrebbero fare i giornalisti. Quali consigli daresti loro?
«Vedo che tanti miei colleghi sconsigliano questa professione: male. Il giornalismo rimane un sogno e neppure tanto irrealizzabile».
OLIMPIA Il coraggio di avere un sogno di Mario Basile

Inghilterra, 1921. Da qualche tempo uno strano camioncino gira di città in città. Sul retro è disegnato un globo terrestre seguito dalla scritta «Dick Kerr Ladies F.C., raccolte oltre 70.000 sterline per i reduci di guerra, i bambini poveri, e gli ospedali». La squadra di calcio delle Dick Kerr Ladies in quegli anni è il fenomeno di costume di un'Inghilterra che tenta a fatica di rialzarsi dai colpi della Grande Guerra. L’insolito veicolo, su cui le giocatrici viaggiano in tenuta da gioco, è l’ultima trovata pubblicitaria della squadra.
La loro avventura era cominciata quattro anni prima, nel 1917. La Dick & Kerr è una piccola azienda produttrice di materiali ferroviari. Situata a Preston, si occupa dall’inizio del conflitto della produzione di munizioni. Gli uomini sono tutti impegnati sul fronte e la manodopera è quasi esclusivamente femminile. Nei momenti di pausa le operaie, spinte sia dalla passione che dalla voglia di emanciparsi, si divertono a giocare al calcio nel cortile della fabbrica. Le ragazze hanno degli evidenti limiti tecnici, ma col tempo migliorano e fondano la Dick Kerr Ladies F.C.: comincia così la storia del calcio femminile.
Da quel momento in poi sono tantissime le squadre femminili che si vengono a creare e le Dick Kerr Ladies fanno il giro della nazione per sfidare le altre avversarie. Il successo di pubblico è consistente. Nessuno avrebbe mai immaginato che le partite di calcio femminile potessero appassionare così tanto la gente. Va anche detto che le donne indossavano tenute da gioco identiche a quelle dei colleghi uomini, ovvero maglietta e calzoncini, e in tanti forse affollavano i campi solo per non lasciarsi sfuggire la ghiotta occasione di poter apprezzare le loro forme. Sta di fatto che gli incassi sono da record. Tutti i soldi raccolti finiscono in beneficenza.
Memorabile la partita del 26 Dicembre 1920. Al Goodison Park di Liverpool si affrontano la Dick Kerr Ladies e la St. Helen’s Ladies. Le operaie di Preston si impongono per quattro a zero. Ma il vero vincitore è il pubblico: oltre cinquantamila spettatori assistono al match. Tantissimi restano fuori perché i posti non bastano.
Il calcio femminile dilaga anche negli altri Paesi. In Francia, madame Milliot fonda la prima federazione di calcio femminile e poi il campionato nazionale. Nasce una sinergia tra la selezione francese e le Dick Kerr Ladies. La prima storica partita internazionale si gioca in Inghilterra a Preston il 28 Aprile 1920. La squadra di casa vince due a zero. La tournèe delle due squadre prevede altre quattro tappe e tutte registrano un grande successo di pubblico.
Qualche mese dopo si replica in Francia. Il teatro delle sfide stavolta sono i campi di Parigi, Roubaix, e Rouen. Alla soddisfazione del notevole afflusso di spettatori si unisce, per le ragazze di Preston, quella di aver battuto le francesi cinque volte su otto.
Intanto in Inghilterra continuano a formarsi nuove squadre femminili sull’onda delle famosissime Dick Kerr Ladies. La popolarità porta le ragazze di Preston a sbarcare in Canada e negli Usa. Purtroppo oltreoceano non ci sono squadre femminili da affrontare: se vorranno mettersi in mostra potranno farlo solo contro gli uomini. Il confronto pare impossibile, ma è un'occasione d’oro per dimostrare di non essere inferiori. Infatti nelle otto partite disputate le Dick Kerr Ladies vincono tre volte, e anche quando vengono sconfitte non demeritano.
Tutto va per il verso giusto: gli incassi devoluti in beneficenza sono considerevoli e la fama delle Dick Kerr Ladies ha portato il calcio femminile ad altissimi livelli di visibilità. Ma il 5 Dicembre 1921 arriva la doccia gelata: la Football Association vieta il calcio alle donne.
«E’ dannoso al fisico». Questa la fragile motivazione della federcalcio inglese. Evidentemente non sono ancora maturi i tempi per accettare che le donne possano primeggiare in un ambito tipicamente maschile.
Le Dick Kerr Ladies non mollano e cercano di andare avanti tra mille difficoltà, soprattutto quella di trovare campi su cui giocare. Rimarranno in vita per altri 44 anni. Il loro bilancio finale è di 858 partite disputate: 758 vinte, 46 pareggiate e 24 perse. I gol segnati saranno oltre 3.500.
Quattro anni dopo il loro scioglimento, finalmente nasce la Women’s Football Association. I tempi sono cambiati, le donne hanno più potere: il calcio adesso può essere anche loro. Ma senza la passione e il coraggio delle Dick Kerr Ladies questo risultato, forse, non sarebbe mai arrivato.
VADEMECUM L'esperto risponde

Un anonimo lettore ci chiede
:
Che cos'è la testata giornalistica?
Risponde Filippo Bisleri:
Semplicemente il nome e l'organizzazione che cura un mezzo informativo.
Pabo ci scrive:
Collaboro con il “Giornale di Sicilia” ma ancora mi manca un anno per essere pubblicista. Posso assumere l'incarico di direttore responsabile di una radio locale?
Risponde Filippo Bisleri:
Assolutamente no.
Mery di Roma ci chiede:
L'ingresso ai master riconosciuti per il praticantato: accettano solo se si è in possesso del voto massimo di laurea triennale?
Risponde Filippo Bisleri:
I requisiti variano da master a master.
Matteo di Cava dei Tirreni ci scrive:
So che per diventare pubblicista bisogna scrivere dai 65 agli 80 articoli in un tempo massimo di due anni. Mi presento in un giornale e faccio presente questa cosa, mi danno la possibilità di iniziare e se sì mi pagano?
Risponde Filippo Bisleri:
Ti presenti al direttore e con lui, prima di iniziare a collaborare, chiarisci i patti. Non commettere l'errore, però, di chiedere dei soldi prima di aver mostrato il tuo valore.
Cristiana ci chiede:
Come devo fare per farmi prendere in considerazione da una redazione affinché possa iniziare a collaborare?
Risponde Filippo Bisleri:
Invia dei curricula in grado di incuriosire chi convoca gli aspiranti giornalisti. Invia tanti curricula.
Mario di Napoli ci scrive:
Gent.mo dott. Bisleri, avrei diverse domande da porle:
1) che si intende per registro dei praticanti? come ci si iscrive?
2) quali vantaggi comporta essere un giornalista professionista piuttosto che un semplice pubblicista?
3) è vero che con la nuova legge è necessario frequentare una scuola di giornalismo ed è ormai inutile fare pratica in una redazione
?
Risponde Filippo Bisleri:
Caro Mario, rispondo con ordine.
1) Il registro dei praticanti è l'elenco di tutti i giornalisti che stanno svolgendo il praticantato. Si viene iscritti a domanda nel momento in cui si dichiara di iniziare il praticantato.
2) Il giornalista professionista ha qualche tutela in più sulla segretezza delle fonti e maggiore possibilità di astensione dal lavoro. Inoltre il professionista laureato può assumere la direzione di un ufficio stampa di un Ente pubblico, il pubblicista laureato no.
3) Fino al 2012 ci si potrà formare ancora, come professionisti, nelle redazioni. Nel contempo andrà a regime la formazione universitaria. Dunque la pratica in redazione non è inutile e, comunque, può essere associata a quella universitaria.
EDITORIALE Grandi comunicatori di Silvia Grassetti

In quest’epoca markettara forse non sempre si tiene presente che informare e comunicare sono concetti non intercambiabili. Se il secondo può avere a che fare con il marketing e la pubblicità, il primo, informare, proprio no.
Sarò pleonastica: fare informazione è il compito del giornalista. E informazione la si fa attenendosi a ciò che è vero, non a ciò che fa audience, e neanche a ciò che fa vendere. Ogni collega l’ha imparato dal primo giorno in redazione, insieme a un altro precetto della professione: i fatti separati dalle opinioni.
L’episodio di un premier che si alza e se ne va, lasciando con un palmo di naso la giornalista che lo stava intervistando, non rientra in faccende di informazione, ma in operazioni di marketing – nonostante l’indignazione, “qualcuno” ha pensato a prendersi su la pizza per proiettarla, due ore dopo, durante un comizio.
Pochi giorni prima, Paolo Mieli, il direttore del Corsera, invitava gli elettori a scegliere il centro sinistra. Maria Concetta Mattei aveva commentato: «Beh, è una scelta assolutamente libera: visto che il Corriere della Sera è un giornale indipendente, evidentemente il direttore ha scelto questa strada. Credo che in Rai ci siano delle regole molto più rigide e credo che debbano essere rispettate. Io sono molto felice, sono orgogliosa di essere al servizio pubblico perché penso che abbia un valore maggiore; anche l’indipendenza che ci garantisce il servizio pubblico è preziosissima. Io credo che qua si possa essere liberi. Non tutti ne approfittano (ridendo, ndr), ma io credo che ci sia la possibilità di essere e rimanere liberi».
Il giornalista svolge un servizio al telespettatore e al lettore: permette loro di formarsi un’opinione su ciò che avviene nel mondo. Può farlo perché si attiene alla realtà, perché approfondisce i contesti, e perché sa essere coraggioso quando decide di porre domande scomode all’intervistato. Negli ultimi cinque anni non è capitato spesso, di incrociare in tv giornalisti coraggiosi. E lo stupore di averne vista una al lavoro non dovrebbe trasformarsi in propaganda politica – né dovrebbe iniziare come tale.
Il duello Prodi – Berlusconi di poche sere fa ha mostrato agli italiani, ancora una volta, un’informazione imbavagliata, che per paura di offendere la par condicio feriva l’intelligenza degli spettatori, mentre due “comunicatori” applicavano le regole del marketing e della psicologia a quelle della campagna elettorale.
Mi chiedo quale fosse il segreto dei “vecchi” colleghi della Tribuna politica, che erano giornalisti, ma, per questo, nessuno s’offendeva.
 
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