Telegiornaliste anno IV N. 45 e 46 (170 e
171) del 15 e 22 dicembre 2008
Cristiano Fubiani: ho
chiuso con il giornalismo
di Silvia Grassetti
«Il
giornalismo italiano, fatta eccezione
per pochissimi programmi, è sempre più
spettacolare, circense, volto a
distrarre più che ad informare, nonostante
si dia un sacco di arie. Corre dietro al
flash di agenzia, senza curarsi troppo del
vero approfondimento. Quantità prima che
qualità».
Questo è il giudizio di
Cristiano
Fubiani, giornalista professionista dal
2002, con la sua lunga carriera di
corrispondente per diverse emittenti
nazionali dal Medio Oriente e Israele, che
oggi è determinato a lasciarsi alle spalle.
«Siamo diventati sempre più centripeti
nella fruizione delle notizie», continua
Cristiano. «Scarsi i fondi e l'interesse per
i reportage, molta superficialità ed
ignoranza, l'esigenza di sintetizzare
piuttosto che di analizzare».
Ti colgo in un momento di sconforto
professionale?
«Nessuno sconforto. Anzi. Sono molto sereno. Ed
è la serenità consapevole di chi sa di aver
dato e ricevuto ciò che poteva dare e
ricevere. Dalla propria professione e da sé
stesso. Lavorare in Medio Oriente logora».
Il giornalismo all’italiana non ti piace…
«Politica interna, cronaca nera, sport e gossip
sono i quattro pilastri del giornalismo
efficiente, commerciale. Una sorta di
reality solo in apparenza più sofisticato,
all'interno del quale gli esteri sono ormai
un lusso inutile, al quale dedicarsi solo in
casi di tragedie immani o immani
catastrofi».
Però il ruolo del corrispondente è sempre
stato il più prestigioso…
«Un inviato o un corrispondente oggi sono
inutili. Costosi orpelli. Due conti in tasca
e le prime ad essere tagliate sono le sedi
di corrispondenza all'estero. Come è
successo a me di recente a La7».
Ma non è tutto. «Devi aggiungere l'annoso
problema dei baronati, dei quali tanto si
parla in ambito universitario o medico, ma
che anche nel mondo giornalistico
costituiscono ancora la chiave di ingresso
per l'80 per cento degli aspiranti. O si ha
un amico influente o si è condannati a
mangiar polvere per anni».
E’ un panorama sconfortante, Cristiano.
«Disillusione è la parola giusta nel mio caso,
non sconforto. Preferisco non dare alla
categoria cui appartengo importanza
eccessiva: nella vita, il giornalismo non è
tutto. E questo tipo di giornalismo
strillato e un po' cinematografico, in mano
ai soliti registi, a me non manca affatto».
Una professione accessibile quasi soltanto da
chi ha almeno "un santo in paradiso"…
«Sì. Per chi non ha santi in Paradiso la strada
è lunga, dura, spesso frustrante. Il cv
serve a poco. Meglio un amico influente in
Parlamento, conoscenze giuste, sperticati e
ripetuti baci della pantofola e,
possibilmente, aver poco di interessante da
dire».
Cristiano, i giornalisti italiani sono una
vera e propria lobby?
«Facce e firme – riciclate - sono le stesse
da vent'anni, segno che qualcosa non
funziona. O le nuove generazioni sono
composte solo da incompetenti (e ne dubito)
o la corporazione - foraggiata da tutti,
belli e brutti - è talmente elitaria e
protetta da perpetuare sé stessa. ».
Ci saranno delle eccezioni…
«Poche. Alcuni nomi: Beppe Severgnini,
Emilio Carelli, Paolo Argentini,
Francesca Fanuele. Loro aiutano i giovani a
farsi largo. Non così le cosiddette firme:
giornalisti, magari 80enni, accecati da una
senile supponenza che li fa abbarbicare alla
professione quasi fosse la vita, con un
senso di patetica competitività nei
confronti di chi, invece, avrebbe solo
bisogno di consigli».
C’è una soluzione?
«Servirebbe un giuramento di Ippocrate anche
per il giornalismo. Inutile avere un codice
deontologico se non si pone il merito
(concorsi, possibilmente non truccati) come
criterio di accesso alla professione. Se non
si favorisce un periodico ricambio.
Fioriscono le scuole di giornalismo, ma il
mercato è saturo da tempo».
Ma quando hai iniziato, avevi un sogno…
«Occuparmi di esteri. Il luogo, la testata ed
il ruolo sono stati pure coincidenze. Volevo
lavorare per tv o giornali non italiani, più
sensibili a certi temi. Per esigenze di
forza maggiore ho optato per il giornalismo
nostrano. Inizialmente con grande
entusiasmo, pur tra le mille difficoltà di
chi deve proporsi - come free lance -
dall'estero. Ultimamente con maggior
disillusione e realismo».
Hai quindi già scelto quale sarà il tuo
nuovo orizzonte professionale: ce ne vuoi
parlare?
«Dopo questo periodo di riposo e di studio,
non resterò ad attendere improbabili
telefonate dall'Italia. L'estero è di nuovo
la mia priorità. Giornalismo o meno, poco
importa. Ho una rete ottima di contatti in
Medio Oriente, dove mi piacerebbe restare
ancora qualche anno. Ma al servizio di
testate in grado di valorizzare la mia
esperienza, la mia professionalità, la mia
conoscenza dell'arabo e dell'ebraico. In
Italia, e lo dico a malincuore, esperienze,
specializzazioni e curriculum non contano
quasi nulla».
Cosa ti resta?
«La grande esperienza di vita, oltre che
professionale. Lavorando in Italia, non
avrei mai potuto farla».